La notte che bruciammo PES

La notte che bruciammo PES
22 Settembre 2016 Michele Manzolini

Mexico ’86 
Mexico ’86, bootleg del giapponese Kick ‘n’ Run, è stato un gioco epocale per diversi aspetti. È stato il primo gioco di calcio da bar con una visuale laterale che riproduceva quella televisiva, è stato il primo gioco ad avere due tempi di gioco separati, i falli e il fuorigioco ed è stato il primo gioco con i rigori a fine partita in caso di pareggio. Era un titolo dall’aspetto buffo, non c’era una nazionale che avesse i colori corretti, l’Italia era inspiegabilmente gialla e quando si perdeva una partita si vedeva una stupida scenetta in cui il portiere piangeva e batteva i pugni al suolo. A livello di gioco c’erano diverse mosse acrobatiche possibili, ma tutte piuttosto mal implementate e complesse da realizzare, per cui la tattica migliore era prendere palla, scartare tutti e tirare fortissimo all’incrocio sul primo palo. Paradossalmente però la difficoltà di realizzazione rendeva queste mosse lo spartiacque tra chi sapeva giocare e il campione vero. Finire il gioco era affare di molti, segnare un gol in rovesciata era cosa da pochi. Occorreva crossare la palla in alto con precisione, capire il punto di caduta e posizionarci un giocatore, girare le spalle alla porta e col giusto tempismo premere il bottone del tiro e la levetta della direzione. Un’operazione complessa e non utile ai fini dell’efficienza di gioco, ma fondamentale per dimostrare di averne il controllo totale.

Fu così che nel 1999 Mauro Bressan, ormai cresciuto e diventato calciatore professionista, ebbe la scintilla dell’intuizione. Nella partita più importante della sua carriera vide la palla scendere dall’alto proprio mentre lui era sul punto di caduta con le spalle girate alla porta. Non importava essere lontani dalla rete, la posizione era inaspettatamente quella corretta, l’occasione era quella giusta per far vedere che lui era uno che il gioco lo dominava. Non fu l’immagine di Parola sulle figurine, non fu l’eleganza di un famoso Van Basten con l’Ajax e nemmeno la perfezione plastica di Vialli a Cremona. La sua ispirazione fu un gol realizzato da sé stesso ragazzino in una sala giochi di Jesolo contro una Germania vestita di grigio. Bressan colpì quella palla nel momento perfetto e la mise in porta da distanza stellare. Il Franchi impazzito, i compagni che lo abbracciavano. Il ricordo di Mauro è svanito molto prima di quello del suo gol contro il Barcellona.

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International Superstar Soccer 
Dai tempi di Mexico ’86 i giochi di calcio con visuale televisiva non progredirono un granché per molti anni. Si basavano praticamente sempre su un piano di gioco semplice che consisteva nel cercare di portare palla con il dribbling verso l’area avversaria, trovare una buona posizione per far partire un tiro e guardare la palla insaccarsi. Con International Superstar Soccer invece la sotuazione cambiò radicalmente. Portare palla rallentava solamente il giocatore, diventava troppo facile per gli avversari riconquistarla. Per rendere efficace il gioco offensivo bisognava creare una rete di passaggi che spostasse il gioco con rapidità verso l’area avversaria. Le trame di gioco diventarono quindi più complesse e occorreva una certa abilità tattica per portare a casa la vittoria. Nel gioco esistevano dei giocatori dai parametri fisici migliori rispetto ad altri che permettevano di giocare sulla corsa, ma era solo una variazione sul tema e non il modo più efficace di affrontare le partite, soprattutto se si giocava con le squadre più scarse.

Nel 1995, la sera prima di una semifinale di coppa UEFA, nell’albergo di Monaco la noia la faceva da padrona. In camera di Prosinecki e Hagi si giocava a strip poker come al solito. Figo dormiva da ore. Jordi, con il volume al minino per paura di essere beccato dal babbo, cercava di ammazzare la noia passando le ore sul Super Nintendo regalatogli da uno sponsor personale, provando a sconfiggere la Nigeria con l’Italia al mondiale americano. Il suo compagno di camera Pep Guardiola, non amando molto quel genere di intrattenimento, solitamente preferiva leggere i classici. Ma quella sera, per una volta, si interessò alla partita del compagno: gli piacque il ritmo a cui la palla schizzava dai piedi di un giocatore all’altro, gli sembrò intelligente che il gioco si basasse sul mettere i giocatori più forti in condizione di fare la differenza tramite una fitta e infinita ragnatela di passaggi, senza che gli avversari potessero intercettare il pallone. Senza che nemmeno potessero giocare. Incitò Jordi:
“Avvicinati all’area!”
“Adesso toccala indietro!”
“Avvicinati di nuovo!”
“Dalla a Galfano! Dalla a Galfano!”

Jordi premette il tasto del tiro e la palla lasciò il piede del giocatore col codino, chiamato Galfano per una questione di diritti ma evidentemente ricalcato su Baggio, e si insaccò nel sette. Guardiola, fuori di sé,  per un istante si sentì al centro dell’universo. Tutto ruotava finalmente intorno a lui. Alcune ore dopo, quando si riprese, decise che il primo passo verso la gloria eterna sarebbe stato quello di ringraziare l’autore di tale vaticinio. Sarebbe andato a giocare con Galfano in persona.

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Winning Eleven 
La fine degli anni ’90 fu un periodo magico per i giochi di calcio di scuola giapponese. La sola Konami ne produceva due serie di qualità eccelsa. La prima era quella di International Superstar Soccer che aveva tracciato un solco importante col passato. Ma a cambiare veramente il mondo del pallone virtuale fu la seconda, la serie di Winning Eleven. Oltre a un ritmo di gioco ancora più compassato che richiedeva ragionamento tattico e intelligenza dei passaggi, Winning Eleven introduceva un elemento nuovo e decisivo: il passaggio filtrante. Esisteva ora la possibilità di passare non più solo direttamente sui piedi di un compagno, ma di mandare il pallone verso la metà della linea ideale che univa quel compagno e la porta avversaria. Il passaggio filtrante apriva nuove possibilità tattiche, 442 spinti in cui insistere col gioco in profondità sulle fasce, contropiedi ariosi in cui bucare con due passaggi difese avversarie troppo alte, aperture prodigiose che spaccavano lo schieramento avverso.

Pirlo era triste, anche più di quello che la sua faccia naturalmente inespressiva lasciava trasparire. La sua carriera languiva, il suo talento, seppure riconosciuto da tutti, non si riusciva ad esprimere ad alti livelli. Una sera, nel ritiro estivo del Brescia di Spiazzo si infilò nella camera del compagno Aimo in cerca di un momento di svago dalle turbe dei suoi tormenti esistenziali. Aimo giocava a un gioco sulla Playstation, Andrea lo guardava pensieroso. Sullo schermo uno Zidane vagamente somigliante a quello reale portava palla nella propria metà campo, poi con un semplice ma improvviso tocco lanciò in profondità Wiltord che, solitario, si presentò davanti al portiere avversario trafiggendolo con un preciso rasoterra. Pirlo reagì con la solita imperturbabilità:
“Come hai fatto a fare quel passaggio?”
“È una cazzata, tasto triangolo.”
“Fai provare.”

Il giorno dopo Pirlo, durante la partitella alla fine dell’allenamento, ad un certo punto arretrò completamente fuori posizione fino alla propria area, recuperò un pallone e con un lancio preciso di 70 metri a scavalcare difesa e centrocampo mise Roberto Baggio solo davanti al portiere avversario. Baggio, tra gli applausi di tutti, scartò il portiere e entrò in porta col pallone. Altro che Wiltord. Mazzone, in disparte, osservava attento.