Gruppo B: Unione Sovietica

Gruppo B: Unione Sovietica
3 Agosto 2015 Michele Manzolini

09.06.1990
Bari, 42 mila spettatori
URSS – Romania 0-2

13.06.1990
Napoli, 55 mila spettatori
Argentina – URSS 2-0

18.06.1990
Bari, 37 mila spettatori
Camerun – URSS 0-4

I. I fiori sul morto

Un uomo curvo e commosso di età indefinibile, ma certamente lontanissima da quella della felicità e della spensieratezza, deposita dei fiori su una tomba. Ha la giacca a vento sbottonata, il maglione di lana grigio e i pantaloni neri. È probabile che da Berlino Est in là tutti sappiano chi sia. Noi non lo sappiamo: quello che vediamo con certezza è che deposita dei fiori e che lo fa molte volte nell’arco dello stesso video. Non lo fa mai in modo uguale. Prima, inquadrato a figura intera, avanza con la corona funebre verso la statua del defunto, si gratta la testa, è a disagio. Lo sguardo è contrito, chiuso, ma si suppone che possa essere una sua espressione immutabile, adatta a qualsiasi contesto: mentre fissa la bottiglia di birra semivuota aperta per festeggiare il proprio matrimonio o mentre scruta con cura il sentiero coperto di neve che lo separa dal mausoleo che vuole raggiungere. I fiori sono bianchi e azzurri. Un altro signore più anziano cammina veloce dietro di lui e senza neppure degnare la tomba di uno sguardo si sistema in una posizione adatta, presumibilmente per fotografarlo. L’uomo sistema la corona con cura, ne ravviva la punta, poi in uno sforzo di commozione lancia uno sguardo verso la statua del caro estinto sbuffando impercettibilmente, mentre la telecamera stringe sul suo viso. 

Dopo un breve stacco, vediamo la stessa statua, da un’altra angolazione. È ancora lo stesso uomo che porta altri fiori. Rose rosse, appassionate. Stavolta l’inquadratura lo sorprende di tre quarti mentre sbuffa vistosamente, forse per il peso dei fiori, forse per l’incarico doloroso, forse per il freddo pungente. Notiamo che ha la giacca abbottonatissima e dei pantaloni larghi e azzurri. Potrebbe essere passato un anno o dieci. Invece no, è successo pochi secondi dopo la prima deposizione dei fiori. Lo capiamo dal fatto che la telecamera indugia sulla posizione delle rose rosse proprio di fianco ai fiori bianchi e azzurri posti un attimo prima. Si è cambiato d’abito? È un gemello? Si è bagnato i pantaloni?

Da Berlino Est in là si saprà certamente la dinamica della stranezza. Ma noi non lo sappiamo. Continuiamo a vedere fiori e sbuffi, accompagnati da un coinvolgente brano musicale che suona come moderno e antico contemporaneamente, squassato da una imponente voce femminile che ricorda quella di una madre che chiama i propri figli quando il pranzo è pronto, da molto lontano. Ed ecco che il ritmo lento e sacro dell’uomo viene sconvolto da un montaggio che si fa nervoso e violento. Altri anziani, forse un tempo collaboratori del defunto, con cappelli calcati sulla testa o capelli fini e grigi leggermente agitati dal vento gelido, nonostante le tracce di sole alle loro spalle, depositano altri fiori, quasi tutti rose rosse e mazzi interi. Uno di loro opta per un unico fiore rosa, non facendo probabilmente una gran figura, rispetto alla virilità della compagnia.

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Un po’ di respiro per gli occhi con un’inquadratura delle rose ai piedi della tomba. Il nome è in cirillico. Un tempo chiunque al di là di Berlino Est l’avrebbe letto facilmente. Noi facciamo finta di non capire. Poi improvvisamente si materializza un incubo: dozzine di giovanotti vestiti tutti uguali in tuta sportiva azzurra, in una fila rigorosa uno dietro l’altro e senza alcun sentimento posano, come probabilmente qualcuno ha ordinato loro di fare, il solito fiore rosso sangue sulla tomba. La telecamera si defila dai volti senza importanza dei ragazzi e si concentra sui petali rossi in un dettaglio che comincia a diventare ossessivo. Dopo lo stacco successivo ecco un altro vecchio, molto più caratterizzato rispetto a chi lo ha preceduto. È inquadrato frontalmente mentre sta parlando, ha un colbacco e lo sguardo profondo e terrorizzato di chi sta per osservare ciò che il destino ha in serbo per lui. C’è una certa discontinuità rispetto agli altri personaggi della vicenda: lui sembra una persona importante. Un vero amico, probabilmente. 

Ognuno di noi è portato a immaginare al posto di questo vecchio l’espressione di un nostro amico che osserva amaramente la nostra tomba. Il vecchio non è da solo, però. Ce ne sono altri due con lui: uno più giovanile, l’altro molto più decrepito e nascosto da inediti occhiali da sole. L’inquadratura è cambiata: è dal basso, dalla terra. Da sottoterra. Una soggettiva del morto.

La tensione è fortissima. Il vecchio col colbacco addirittura rischia di inciampare, poi si riprende con agilità. Forse in gioventù è stato uno sportivo. Lascia l’ennesimo fiore rosso. Dietro questi grandi vecchi si staglia come in un sogno una donna, una sola, la prima da quando  questa processione è cominciata. Non bella, non giovane, non vecchia. Sembra una generica donna di mezz’età. Ancora un’inquadratura del nome del defunto e dei fiori che si accumulano sul marmo pregiato. Infine, dopo l’orgasmo, la composizione finale del mausoleo: senza più esseri umani intorno si staglia la statua senza vita del morto, assediata da fiori, in una posa che farebbe quasi pensare alla sorda richiesta di non metterne più, davvero, basta così, grazie di tutto. Se non si muovesse un ramo per il vento, sembrerebbe un sinistro fermo immagine. Ma il video non finisce così.

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Un brandello architettonico, improvviso, in un cielo completamente bianco. Grazie alla struttura grigia ci rendiamo conto che nevica molto forte. La telecamera si sposta da quello che, se nessuno sapesse che è lo stadio di Kiev, potrebbe essere un grigio palazzo volante, e rivela un’altra statua. Si fa fatica a pensare che sia raffigurato lo stesso personaggio del protagonista del mausoleo. E per questo la telecamera indugia. Riconosciamo che si tratta dello stesso morto, ma in un atteggiamento molto meno rigido. Anzi a dir poco slanciato, lo sguardo concentrato, tesissimo, pronto a saltare in piedi al primo pericolo. Da una panchina, magari. 

Ed ecco che ci rendiamo conto che mancavano solo loro, i bambini. Non si può celebrare un vecchio morto senza la presenza dei bambini, ancora più inconsapevoli dei giovanotti, con i quali hanno in comune la stessa tuta. Un altro piccolo esercito di tute azzurre, con un fiore rosso in mano, sta per essere deposto su quest’altra statua, per compiere lo stesso rito. Uno dei bambini si distingue dagli altri per la sciarpa annodata al collo che tradisce una data evidentemente importante non solo per lui ma per tutte le persone presenti.  E anche per l’assente morto: 1927. Lo sguardo del bambino è fisso sulla statua dell’uomo seduto pronto ad alzarsi. È evidente che sta immaginando il momento in cui di certo si alzerà. La telecamera è avida di questo sguardo, esclude ogni altro bambino e gli concede un primo piano destinato a essere indimenticabile. Cosa farà quando si alzerà? Di sicuro gli darà degli ordini, anche lui. Gli urlerà di mettere quel fiore dove gli è stato detto e di tornare a casa. Altri personaggi, non c’è tempo da perdere. Un trio, due coetanei sulla quarantina. Uno dei due abbraccia un altro bambino, diverso dagli altri. Quelli facevano parte dell’esercito. Questo è un cane sciolto, un figlio di qualcuno, un bambino ricco con un papà ricco. 

Stacco. Un’iscrizione. Nemmeno il tempo di capire che anche questa è in cirillico e che ci vorrà molto sforzo per decifrarla, ed ecco che con un gesto semplice ed eroico insieme esce direttamente dal cielo bianco lo stesso uomo che depositava i fiori e sbuffava all’inizio del video. Si appoggia all’iscrizione, ricordandoci che vivere è uno sforzo senza poesia e concedendo agli astanti uno sguardo quasi di sfida e fa il giro della statua, con la solita corona di fiori bianchi e azzurri. Scopriamo due cose: la statua raffigura un uomo sulla panchina e che il personaggio raffigurato è gigantesco. Almeno due volte più grande dell’uomo che porta i fiori. L’uomo ha la giacca sbottonata e il maglione grigio. Ulteriore stacco. Stessa iscrizione. Stesso uomo. Stesso sbuffo. Fiori rossi, secondo la sequenza già sperimentata. Un rito interminabile. Stavolta i fiori non vengono depositati stancamente di fianco ai primi, ma con un gesto di forza e vigore insospettabile l’uomo li sistema sulla panchina, nello spazio vuoto di fianco al personaggio, la cui postura improvvisamente ricorda quella di un uomo timido che, di fronte a tanta gentilezza, preferisce voltarsi dall’altra parte, guardare altrove, ritrarsi.

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La neve sibila sul volto della statua mentre la canzone si spegne. Torniamo indietro per toglierci un dubbio. Siamo del tutto confusi quando ci rendiamo conto che anche in questo caso l’uomo che deposita fiori si è cambiato d’abito per la consegna della seconda corona. Giacca abbottonatissima e pantaloni azzurri. Questo fa saltare ogni schema. Perché la prima corona si deposita con la giacca aperta e i pantaloni neri e la seconda con la giacca chiusa e i pantaloni azzurri? Perché cambiarsi d’abito nell’arco della stessa giornata? È sempre più forte la tentazione di supporre che siano due gemelli. I due figli gemelli del personaggio.

Non possiamo andare avanti così. Non sappiamo minimamente chi siano queste persone. Possiamo solo fare finta di aver capito e fare sì con la testa. Qualcuno dei nostri lettori avrà riconosciuto i volti, le rughe, i capelli fini, forse persino l’impalpabile donna o il mistero dei tre vecchi. Ma nessuno, crediamo, potrà darci delle risposte sul cambio d’abito. Dobbiamo mantenere la calma, però. E occuparci del morto. 

Il personaggio scolpito così tante volte e in tante pose diverse è quello che resta del Colonnello Lobanovskyi, che guidò i fratelli di Valderrama dell’Unione Sovietica a Italia ’90, perdendo al primo turno e tornando a casa prematuramente. Non proprio a casa, in realtà. Bensì negli Emirati Arabi e in Kuwait, lasciando alle spalle il pesante apparato sovietico e riuscendo finalmente a lastricare d’oro la propria imminente vecchiaia.

II. Corpi molli ed evaporati

Chi vuole sapere qualcosa di più sul Colonnello Lobanovskyi, artefice di molte cose innovative nel mondo del calcio oltre che del fallimento della spedizione sovietica ai mondiali italiani, può certamente contare su un materiale visivo e letterario piuttosto ricco o per lo meno più che sufficiente per rimpiangerlo, ammirarlo, e desiderarne il ritorno alla vita organica, se non altro per poterlo ringraziare del suo schema così vicino a quelli oggi così in voga: il centravanti boa, architrave delle manovre offensive, una serie infinita di incursori e attaccanti esterni e un regista davanti alla difesa, di quelli che in Portogallo chiamano “accordatori di pianoforti” e da noi hanno preso il nome-prosopopea di Pirlo. 

Messa in numeri era un 4-5-1, sciolta in parole era un’esaltante organizzazione paramilitare in cui si attaccava tutti insieme e si difendeva allo stesso modo, a testa bassissima, senza che nessuno potesse permettersi di fare l’eroe o il santo. Gli inserimenti erano sempre a sorpresa, poteva trattarsi del dinoccolato ed educatissimo Beszonov o del breve calpestio d’erba di Dobrovolski, ma tutto partiva dai piedi del compassato accordatore di pianoforti Alejnikov e veniva rovesciato nell’immensa trequarti avversaria, un’infinita sfera d’interesse che ricadeva sulle spalle dell’elegante Protasov. Un meccanismo di immobili perni e instancabili pendolari. Due grandi forze immutabili e, tra loro, frecce discontinue, imprevedibili, che pendevano ora da una parte ora dall’altra. Era la Storia applicata al calcio, progettata da un Colonnello dell’Unione Sovietica. Poderosa fragilità dell’URSS.

Ma per capire davvero il senso di ogni cosa, bisogna avere il coraggio e la forza di trovare il filmato di URSS-Romania di quel 9 giugno del 1990, quando la rivoluzione di Lobanovskyi si sgretolò contro un passaggio filtrante di Sabau e un diagonale spensierato di Lacatus. La difesa di Kuznetsov e Kydhiatullin, saltata senza alcuno sforzo, e la leggenda Dasaev, stropicciata sull’erba secca del San Nicola di Bari, accompagnarono con deferenza il primo dei 4 gol che avrebbero buttato fuori l’Unione Sovietica dall’ultima competizione ufficiale della sua storia, per sempre. Bisogna avere il cuore di sopportarne la reazione zoppicante, impigliata nei dubbi del sensibile Alejnikov, dispersa senza speranze nella forza operaia del cinico Protasov, avvolta nel fumo che andava a ricoprire ogni ingranaggio del meccanismo male oliato del Colonnello. 

Col passare dei minuti, i tonici e instancabili incursori comunisti si trasformano in bianchi corpi molli e cavi che si lanciano in avanti e tornano indietro, senza più nemmeno la preoccupazione di fare gol o di non prenderne. Vanno solo avanti e indietro, applicano gli ordini del loro Colonnello, ma la loro epidermide evapora lentamente. Sono evanescenti, trasparenti, non si vedono quasi più. Al triplice fischio i giocatori rumeni festeggiano la solida vittoria, ma dall’altra parte bisogna strizzare gli occhi con sforzo per distinguere appena il portiere Dasaev dal pallore del palo; di Alejnikov restano i baffi sospesi nel vuoto. Protasov, l’operaio, scarpe più grosse del cuore, è l’unico ancora in carne e ossa, si guarda intorno sconsolato, si chiede dove siano finiti gli altri e va negli spogliatoi con la sensazione di aver fatto gli straordinari e di aver lavorato oltre l’orario di fabbrica. Stanco e senza nemmeno la voglia di raggiungere gli amici al dopolavoro. Sto lavorando troppo ultimamente, pensa, e non ne vale la pena.

Lobanovskyi riuscì ad allenare la nazionale Ucraina pochi mesi prima di morire, nei primi anni del Duemila. Era l’allenatore più prestigioso del paese ma ancora non aveva mai avuto questo onore, dopo la fine del regime. Ormai l’epiteto Colonnello, incollato dai telecronisti a un’inquadratura che stringeva il suo volto inespressivo e contadino, suonava come una beffarda concessione a un vecchio a cui certamente avrebbe fatto piacere sentirselo dire. Come dire “il Maresciallo”, il “Generale”, il “Commendatore”. E la puntualizzazione che seguiva per la curiosità degli spettatori a casa era sempre: “Lo chiamano Colonnello perché era veramente un Colonnello dell’Armata Rossa”. Il labiale intercettato dalle telecamere allude a qualche disposizione da dare in campo, qualche ordine, per confermare questa versione. Era davvero Commendatore questo Lobanovskyi allora, non è uno scherzo, non è un vecchio pagliaccio come gli altri. 

III. Dipendenti pubblici

Le loro storie sono strane, nascoste, evaporate come i corpi cotti dopo il gol di Lacatus. Oggi non sono per niente indaffarati, vivono lontani dal calcio perché non lo conoscono, in realtà non lo capiscono, non lo hanno mai fatto. Ed è normale che sia così: per buona parte della loro vita di calciatori, ovvero per la parte migliore della loro carriera, era lo Stato a gestire interamente i loro cartellini: decideva dove avrebbero giocato, anzi militato, cosa avrebbero detto e fatto. Loro eseguivano senza fiatare, facevano parte di un corpo scelto di atleti, non necessariamente tonici come i ginnasti sovietici, nemmeno obbligatoriamente più audaci di tutti come dovevano esserlo gli astronauti o più intelligenti come gli scacchisti. Dovevano solo giocare a pallone ed erano temuti e stimati, ammantati di fascino internazionale anche al di là di Berlino Est.

Crollato il muro e lanciati a folle velocità nel mondo capitalista che pure li aveva attesi per tanto tempo, preferirono nascondersi, cercare periferie, palazzoni, province, piccole squadre, piccoli obiettivi, qualsiasi cosa potesse tenerli lontani dalla parola “grande”. Rimpicciolirono essi stessi e sparirono e nemmeno lentamente. Non li trovò più nessuno. La visione di gioco di Alejinikov diventò pura e semplice lentezza, la rapidità di Dobrovolski banale fumosità, il talento immenso di Zavarov un negozietto di bigiotteria gestito da un proprietario pigro e timido.

Il più tenebroso di loro, Igor Shalimov, con una smorfia assassina e triste, salì sul treno di Zeman e resistette qualche anno in serie A, ma ormai era il “russo” Shalimov, senza più sospetti di comunismo: era l’unico peraltro di tutta l’Armata di Lobanovsky a essere nato a Mosca. Mosca Mosca, non provincia.

E questi furono i più vicini al sole. Gli altri, lo vedremo, scelsero l’oblio e nessuno, davvero, li ha più rimpianti. Ma Valderrama concede a ognuno di loro una gentile passerella, guardandoli senza espressione, così come loro hanno guardato il resto del mondo quando erano una temibile nazionale, in totale assenza di anima, con la loro maglietta rossa di onesti e poveri calciatori e fedeli dipendenti pubblici.

PORTIERI

Dasaev detto “la leggenda” è nato ad Astrakhan nella Russia Europea. Oggi è un allenatore dei portieri. Ha iniziato al Siviglia di Aragones, dove era arrivato un anno prima dei mondiali italiani e dove poi avrebbe chiuso la carriera di calciatore. Oggi si è accasato nella seconda squadra dello Spartak Mosca, dove con parole dosate e pacate che vengono dal profondo dello stomaco si limita ad allenare i suoi normalissimi omologhi.

Uvarov di Orechovo Zuevo, un villaggio di centomila abitanti nella Russia Centrale a 90 km da Mosca, oggi è allenatore dei portieri della nazionale Israeliana. È sempre stato il più sveglio dei portieri sovietici. Dopo il crollo delle ideologie ha trovato pace solo in Israele, dove era arrivato quando l’URSS era ufficialmente scomparsa.

Chanov, perseguitato dalla bravura dei colleghi, ha fatto il vice di Dasaev e il vice di Uvarov praticamente dappertutto. Meno forte del primo, meno sveglio del secondo, più educato di tutti e due messi insieme. Il compagno di squadra Beszonov, altra persona squisita, lo convinse a seguirlo al Maccabi Haifa dopo i mondiali in Italia. Doveva essere la sua nuova vita. L’anno dopo al Maccabi arrivò anche Uvarov, puntualmente. È oggi inattivo.

DIFENSORI E CENTROCAMPISTI

Beszonov, ucraino di Kharkiv volenteroso, con le gambe lunghe e tanta voglia di correre, ha allenato il Dnipro nel 2010, un grande onore dunque. Da molti anni non allena più. Troppo riservato per telefonare a qualcuno.

Quando nel febbraio 2015 l’ex terzino e fratello di Valderrama Sergey Gorlukovich, nato sovietico ma al confine tra Bielorussia e Polonia, è stato fermato in stato di molesta ubriachezza e ha rotto il naso a un agente di polizia in circostanze non del tutto chiarite, è certo che non allenasse più il FC Zhemchuzhina-Sochi in seconda divisione russa già da qualche tempo.

Oleg Kuznetsov era un difensore piuttosto quotato, affidabile, intelligente, un po’ nervoso. Dopo i mondiali fu l’unico a scappare in Scozia nei Rangers. La tifoseria di Glasgow di lui ricorda solo un intervento di uno storico mastino del St. Johnston, tale Paul Kane, che sfogò il suo anticomunismo con un tackle che ne compromise i legamenti e la carriera. Nessun altro sovietico ebbe la sfrontatezza di superare la Manica. Nato in Germania, a Magdeburgo, terra del padre del comunismo tedesco Weitling, è tornato molto tardi nell’ex Unione Sovietica. Ancora considerato affidabile, ebbe un incarico in Ucraina come allenatore dell’U18 nazionale. Un’ombra infame ne confonde le tracce: un serial killer suo omonimo e suo quasi coetaneo finì nelle pagine di cronaca per aver accumulato una serie di omicidi, coltellate sugli occhi ai danni di almeno dieci giovani donne. A ogni modo, Kuznetsov era un tipo nervoso.

Vagiz Kidhyatullin arrivò ai mondiali che già giocava al Tolosa. Dopo i mondiali cominciò a confondersi nelle leghe inferiori francesi, come se avesse un segreto da nascondere. Si rifugiò a Montauban, dove già avevano trovato pace gli esuli del franchismo e soprattutto la Monna Lisa di Leonardo durante la seconda guerra mondiale. Nato ai piedi degli Urali a Gubakha, è tornato in Russia solo nel 1994-95.

Anatoly Demnianenko è un ucraino di Dnipropetrovsk’, molto amato però in Uzbekistan dopo aver ha portato il suo Nasaf a vincere la Champions League dei paesi in via di sviluppo, la coppa AFC. Dopotutto, è stato uno dei pochi di quella squadra ad avere l’onore di diventare vice di Lobanovsky, nelle sue successive esperienze professionali. Girovago delle panchine, andò via dall’Uzbekistan con queste motivazioni: “Ogni allenatore vuole lavorare vicino alla propria famiglia. A dire il vero mia madre non stava bene e io ero preoccupato. Sono andato infatti molte volte in Ucraina a trovarla. Per questo ho deciso di accettare l’offerta di una squadra ucraina.”. Oggi è inattivo e vicino alla famiglia, che lo ama molto.

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Akrik Cwejba, unico Georgiano del gruppo di Lobanovsky, è nato nella pittoresca e favolistica Gadauta. Ma oggi non sarebbe più nemmeno georgiano, perché nel 1992 la zona di Gadauta si è autoproclamata Repubblica di Abcasia, riconosciuta da molti ma non da tutti. Sicuramente è un posto affacciato sul mar Nero. Cwejba è stato fedele alla Dinamo Kiev negli anni del crollo dell’URSS, prima di perdersi in Cina e Giappone. È stato il primo a essere eletto miglior giocatore ucraino della storia nazionale. Disorientato dalla nuova composizione del mondo, ha giocato con due nazionali, Ucraina e Russia, senza mai ottenere alcun successo personale. Le ultime informazioni lo danno come osservatore per conto della Dinamo Mosca.

Vasyl Rats, ucraino, nato a Fanchykovo a pochi chilometri da Vynohradiv, detta “città della vite”. Nel 1944 tutti gli ebrei che vivevano nel ghetto della città furono deportati e uccisi ad Auschwitz. Oggi è una terra piena di ungheresi. Forse anche per questo Rats dopo i mondiali resistette ancora un anno nella Dinamo Kiev prima di trasferisti al Ferencvaros. Al termine dei mondiali negli Stati Uniti si ritirò dal calcio. La sua carriera di allenatore è stata brevissima, in una piccola squadra di un distretto di Kiev, l’Obolon, che fallì nel 2012 e si ricostituì con un altro nome (Obolon Brovar, “la fabbrica della birra di Obolon”), ma senza di lui. L’unica apparizione ai mondiali di Rats è stata nella disfatta a Bari contro la Romania. 90 minuti a correre intorno ai passetti di Alejnikov e a inseguire Lacatus.

Alejnikov, bielorusso nato a Minsk, un anno prima dei mondiali era finito alla Juventus di Dino Zoff. “Il ragazzo di Gorky Park” vinse una coppa UEFA e una coppa Italia e poi, dopo sette anni fatti di viaggi intorno al mondo, chiuse la carriera nel Corigliano, nella serie D calabrese. Diplomato allenatore a Coverciano, è stato un assiduo frequentatore della provincia italiana: da Anagni a Pontedera, dal Kras di Monrupino in Friuli Venezia Giulia fino a raggiungere il Dainava in Lituania, ultimo suo incarico nel calcio. Spicca una descrizione del suo rendimento da tecnico in Lituania: “Non manca l’appuntamento con la vittoria invece il neopromosso Trakai che ne rifila 7 in trasferta al Dainava. La sconfitta rotonda del fanalino di coda Dainava rappresenta la seconda conferma di giornata. I ragazzi del tecnico bielorusso Sergey Alejnikov erano riusciti a inizio ripresa ad accorciare le distanze col rigore di Kavaliauskas, che rappresenta per il sodalizio di Alytus la prima rete stagionale a fronte delle 49 subite, ma sono poi sprofondati sotto i colpi degli ospiti. L’obiettivo a questo punto sembra essere quello di concludere in modo meno umiliante le prossime gare di un campionato che promette di essere avarissimo di soddisfazioni.” (da tuttocalcioestero.it, Piero Di Stefano, 23.4.2014)

Gennadi Litovchenko, nato nella regione di Dnpropetrovsk in una città portuale sul fiume che rende onore al capo della polizia segreta sovietica Dzerzinsky (Dniprodzeržyns’k), ha un curriculum leggermente migliore dei suoi compagni. Era un incursore offensivo tecnico e veloce, centrale ed esterno, dotato di un buon tiro e caratterizzato da una grande intesa con Oleg Protasov, con il quale ha vestito tre diverse maglie di club. Ha giocato nella Dinamo Kiev un anno prima e un anno dopo i mondiali, poi anche lui ha fatto le valigie ed è finito in Grecia nell’Olympiakos, guidato dalla leggenda del calcio sovietico Oleg Blokhin, che portò in Grecia anche Protasov. In seguito tentò di avviare una carriera da allenatore in Ucraina con il Metalist e con la seconda squadra della Dinamo Kiev. Finì ben presto nell’orbita federale come vice C.T. e poi allenatore dell’Under 20. L’ultima esperienza è stata nello staff tecnico del Volga Nizhny Novgorod, nel campionato russo, fino a marzo 2014.  Poi il silenzio.

Oleksandr Zavarov è vice C.T. dell’Ucraina e ha paura della guerra, rifiuta la chiamata alle armi, non fa per lui, lo spiega a tutti i giornali. I suoi occhi dolci e il suo corpo gaudente rimbalzano fino ai giornali italiani, che per anni non hanno mai smesso di tramandare la disastrosa tradizione orale del suo fallimento alla Juventus. Era il pezzo pregiato della nazionale sovietica ai mondiali in Italia ed è passato dalla Dinamo Kiev alla Juventus solo due anni prima. Qui si spensero le luci. Scaricato in Francia nel Nancy, scivolò sempre più in basso fino al Saint Dizier, una cittadina del nord-est francese nella regione dello Champagne. L’anno in cui Zavarov decise di assumere su di sé la responsabilità di passare dal calcio giocato alla panchina del Saint-Dizier, l’intera zona, considerata malfamata, fu definita zone urbaine sensible, ovvero ricettacolo di spaccio, malavita organizzata e criminalità a ogni livello. Zavarov vi rimase per molti anni. Poi, nei primi Duemila, cominciò il lento ritorno a casa. Prima in Svizzera, poi in Kazakistan. Per rivedere Zavarov in Ucraina si dovette aspettare il 2005. Il suo massimo successo da allenatore resta quello di aver guidato ininterrottamente per tre stagioni intere e due scampoli di campionato l’Arsenal Kiev, raggiungendo come miglior piazzamento un sesto posto nel 2007/2008. Ama visceralmente la famiglia e nella vita vuole stare tranquillo.

Volodymir Liutyi, nato a Dnepr, è l’unico sovietico ad aver imparato così bene la lezione del calcio occidentale da diventare addirittura procuratore, lui che da calciatore fino al crollo dell’URSS non aveva mai neppure immaginato come si gestisse un cartellino. Tra i suoi assistiti non figurano nomi altisonanti. Gente normale, ex talenti, persone serie. Niente di più. A Italia ’90, al minuto 80, sessanta secondi dopo che Burruchaga segnò il gol del 2-0 con il quale l’Argentina pose fine ai sogni dell’Unione Sovietica, il colonnello Lobanovsky lo buttò nella mischia al posto di Zavarov. Gli unici dieci minuti mondiali della sua vita. La sua carriera prese la strada della Germania, prima insieme a Borodyuk allo Schalke 04, poi da solo in un labirinto impronunciabile di Unterhaching e Salmrohr.  Dopo un lampo di nostalgia nel Dnipro chiuse la carriera in un villaggio di poco più di quindicimila abitanti in quella parte di Germania che è più vicina alla Francia che alla Germania stessa. Ha fatto l’allenatore in Moldova, come Dobrovolski. L’ultima squadra allenata è stata il Saxan, che ha chiuso il campionato in una dignitosa quinta posizione nella prima divisione nazionale, ma senza più il suo Liutyi in panchina.

Ivan Yaremchuk è ucraino. Subito dopo i mondiali passò dalla Dinamo Kiev al Blue-Weiss Berlin, squadra del distretto di Mariendorf che era riuscita cinque anni prima nell’impresa di raggiungere la Bundesliga grazie alla scoperta del talento di “Kalle” Riedle.  E che provava a resistere nel calcio degli adulti. Nonostante Yaremchuk però, la squadra fallì. Del difensore restano venti minuti dell’inutile sfida contro il Camerun a Italia ’90 e una dispersione nella normalità del mondo che, per uno come lui, deve essere stata un vero sollievo.

Sergey Fokin è nato a Ulijanovsk’ nella terra di Alexander Pushkin, il cui bisnonno Gannibal era stato uno schiavo proveniente dal Camerun e cresciuto alla corte di Pietro il Grande. Purtroppo Lobanovksy non considererò neppure per un istante Fokin. Questa mancanza di attenzione ha probabilmente origine nella tendenza di Fokin a sfuggire a ogni cura e approfondimento. Di lui oggi non c’è traccia.

Igor Shalimov è l’unico a essere nato precisamente a Mosca. Oggi si trova nascosto in una tasca della Russia, dopo aver perso ogni contatto con la Federazione di cui ha curato la responsabilità del settore giovanile e persino della nazionale femminile. Guida nel gelo gli allenamenti del Krasnodar-2, in terza divisione nazionale, una squadra che ha il suo compito nel fornire al Krasnodar-1 i migliori giovani. Shalimov forse cercava la pace, dopo una vita tormentata e spigolosa.

ATTACCANTI

Oleg Protasov, nato a Dnipropetrovsk, dopo i fallimentari mondiali italiani ha seguito Litovchenko alla corte di Blokhin in Grecia all’Olympiakos. Ma in Grecia ha anche trovato una casa, ottenendo la doppia nazionalità, avventurandosi anche lui come tanti suoi compagni nel calcio minore, in piccoli villaggi, in squadre senza ambizioni. Attaccante prolifico, elegante, abilissimo sul piano tattico, era il perno del 4-5-1 di Lobanovsky. Segnò solo contro il Camerun, la prima delle 4 inutili reti. Si chiuse come un fiore quando sparisce il sole. Da allenatore, alla Grecia è legato il suo unico successo: un campionato vinto con l’Olympiakos. Pochi i successi ma tanta l’esperienza, in viaggio continuo: Kazakistan, Russia, Ucraina, Grecia appunto, e Romania. Proprio in Romania ha lasciato l’ultima traccia di sé. Undici partite alla guida dell’Astra Giurgiu: nessuna sconfitta, ma solo due vittorie. Si può pensare che a licenziarlo non sia stato l’eccesso di pareggi ma questa dichiarazione: “Abbiamo trovato un club con grandi carenze organizzative e con i giocatori divisi, per lo più per ragioni finanziarie. La squadra ha fatto ogni giorno da pendolare da Bucarest a Giurgiu. In sostanza, l’Astra è una squadra senza casa. Abbiamo parlato con il presidente e con chi si occupa di prendere delle decisioni, ma non si sa nulla. Se dovessi scrivere un libro sulla esperienza di Astra, sono sicuro che ne verrebbe fuori un thriller”.

Igor Dobrovolski è nato a Markivka, nella regione di Sumy, Ucraina nord-orientale. È cresciuto calcisticamente in Moldova, a Chisinau, da dove è partita la sua carriera di trequartista esterno dotato di tante idee, buona volontà e velocità gratuita disseminata solitamente sulla corsia sinistra dell’attacco. Uno dei pochi uomini di Lobanovsky che si conquistò la nazionale da Mosca, alla Dinamo, dove giocava con sfrontatezza. È stato votato miglior giocatore sovietico dell’anno nel 1990 da “Football”, importante rivista calcistica dell’U.R.S.S. Sfumato l’affare Alejnikov, il Genoa di Spinelli si innamorò di lui, nonostante il fallimento ai mondiali. Dobrovolski in serie A giocò solo 4 partite. In una di queste, contro il Pescara di Galeone nel 1992/93, riuscì a segnare un bellissimo gol in contropiede e a farsi ammonire due volte senza farsi espellere. La dimenticanza dell’arbitro è stata presto dimenticata da tutti. Da allora: Marsiglia, Fortuna Dusseldorf, Atletico Madrid, ma quasi sempre dalla panchina, con quella velocità simulata che voleva far credere di poter risolvere le partite da solo, di cambiare il ritmo degli incontri. Dobrovolski sfiatò a fine carriera in una piccola squadra moldava, tornando così alle origini. La Moldavia è stato il suo paese d’elezione come allenatore. Tre anni da Commissario Tecnico, poi il legame con la Dacia Chisinau, guidata dal 2006 al 2009, con la quale ha conquistato un titolo nazionale. Dopo brevi parentesi altrove, in Moldavia e Russia, è sempre tornato al Dacia Chisinau. Ha smesso di allenare pochi mesi fa, con un berrettino di lana calzato su due occhi arrabbiati e strozzati da peli e rughe, due sottili fessure da cui fuoriescono sguardi di sfida contro un mondo che ha creduto distrattamente nel folle volo dei suoi riccioli sulla nuca. E ci ha creduto solo per pochi istanti, forse un’estate appena. 

Alexander Borodyuk, nato a Voronezh, popolosa città della Russia europea, è un russo vero. Non è un sovietico, non è un ucraino. È un russo. Dalla sua città è venuto lo scrittore Platonov, distrutto dal regime e dalla tubercolosi. A Voronezh è nato il generale Vatutin, eroe dell’Unione Sovietica, che liberò Kiev dai nazisti e fu ucciso da guerriglieri ucraini in un’imboscata nel 1944. Da lì è venuto anche Litvinenko, avvelenato dal polonio dopo un pranzo con il tormentato Scaramella. Borodyuk è stato capocannoniere del campionato sovietico per ben due anni. La stagione prima dei mondiali era finito in Germania insieme all’altro attaccante sovietico panchinaro Liutiy, in uno Schalke 04 in cui muoveva i primi passi un diciannovenne Jens Lehmann. Dai primi anni Duemila il naturale declino è coinciso con un lento ritorno in Russia, che ha accolto il suo ritiro con la consueta freddezza commovente della patria. In panchina ha fatto da tramite per Hiddink e Advocaat in nazionale, per poi restare a Mosca come dirigente, prima alla Dinamo e poi al Torpedo in prima divisione. Alla fine ha avuto una panchina tutta per sé, proprio al Torpedo, conquistando una promozione nella prima divisione russa. Nel 2014/15 si è però fermato. Non si hanno notizie di lui. Ha messo gli stivali nella neve e si è fermato a guardarsi intorno. Nessuno lo sta fissando. Potrebbe anche proseguire, ma non lo fa.

Resta un ultimo giocatore, Valeri Broshin, il più importante di tutti, anche se non è vero.

IV. Akhal-Teke

Valeri Broshin era un incursore di centrocampo agile, svelto, tecnico e dinamico. Un ottimo tiratore, poco ambizioso, uno che parte da dietro e arriva più o meno a metà di ogni cosa che comincia. Dato che era uno sportivo, i (pochi) giornali che se ne sono occupati, all’espressione “è morto di cancro”, hanno preferito utilizzare “ha perso la sua sfida contro il cancro”, come se Broshin fosse stato ancora lì con la sua maglietta rossa e il CCCP tatuato sulla pelle avvelenata e avesse dovuto correre bendato palla al piede in un campo pieno di buche profonde migliaia di metri.

Broshin, strano sovietico, fu l’unico a ottenere la cittadinanza turcomanna. Nel 1997-1998 l’antica capitale del regno dei Parti lo riconobbe come suo figlio e lui ci pensò un poco e poi accettò. C’è una ragione per cui Broshin lo fece. All’inizio lui odiava il Turkmenistan. Aveva calcolato che nel deserto del Garagum in Turkmenistan si poteva incontrare una persona ogni 6,5 chilometri quadrati. Aveva anche sentito parlare di temperature infami che superavano i -30 gradi in inverno e i 30 in estate. Aveva letto inoltre che le persone che vivono in quest’area non hanno scelta se non rifugiarsi nelle oasi. 

A detta degli intenditori, lo sfruttamento minerario dell’Unione Sovietica, per cui Broshin aveva innocentemente prestato servizio come calciatore, aveva sfiancato la regione inquinando in modo irrimediabile la sabbia del deserto e riempiendola di pesticidi e sostanze velenose. Il vento, fortissimo e spaventoso, aveva poi fatto il resto, portando questa sabbia nera fino nei boschi della Norvegia, nei polmoni dei pinguini dell’Antartide, e un po’ in tutta la Russia, vendicandosi non di qualcosa in particolare, ma di tutto, in generale. 

Quello che trattenne Broshin in questa regione depressa, in questo apparente inferno che i geografi chiamano senza alcun disprezzo ma con rigore glaciale fossa turkmena, fu semplicemente la vista di un cavallo in un recinto. Un cavallo così bello, Broshin non l’aveva mai visto. Due tizi con il cappellino, le ciabatte e i jeans arrotolati sopra il polpaccio smanacciavano verso di lui, facendolo impennare sulle zampe posteriori. Lo addestravano, forse. Lo infastidivano, di certo.

Era un “Akhal-teke”, il “cavallo celeste”, un cavallo unico al mondo, dalla pelle completamente dorata. Vive solo in Turkmenistan. L’oscuro affollatore degli spogliatoi sovietici, il grigio dipendente statale dotato di un piede talentuoso ma presto dimenticato, il mercenario colpito, come quasi tutti i suoi compagni, da quell’infame destino del calciatore sovietico giramondo a cui è stato detto con un sorriso esultante che “non è vero, tu non sei nato in Unione Sovietica e non è vero tu non sei nato a Leningrado, ma a San Pietroburgo”, vide il nobile, l’antico, l’accecante Akhal-Teke saltare senza motivo dentro un recinto, goffamente provocato da due sconosciuti, sotto un sole cocente.

Un tempo quel cavallo dorato era simbolo di ricchezza, di potere, di forza, di salute.
“Quanto oro sprecato”, pensò Broshin.
E pensò alla nuova geografia che aveva ingoiato la storia.
Confuso, accettò di diventare turcomanno.
Poi accettò di diventare cavallo celeste.
Dopodiché i venti furiosi del Garagum gli riempirono lo scheletro di sabbia nera e la sua pelle prese un colorito dorato.
Fu lui il primo ad andarsene.