Gruppo B: Argentina

Gruppo B: Argentina
25 Maggio 2015 scat

1990

8 giugno, Milano
Argentina-Camerun 0-1

13 giugno, Napoli
Argentina-Urss 2-0

18 giugno, Napoli
Argentina-Romania 1-1

24 giugno, Torino
Argentina-Brasile 1-0

30 giugno, Firenze
Argentina-Jugoslavia 0-0 (3-2 dopo i calci di rigore)

3 luglio, Napoli
Argentina-Italia 1-1 (5-4 dopo i calci di rigore)

8 luglio, Roma
Argentina-Germania 0-1

2015
Venerdì 22 maggio
Buenos Aires, ore 04:15

“Mi ci vedi a fare lo schiavo di Scioli? Con questa faccia e questo fisico? La politica fa schifo, bellezza.” Sergio Goycochea parla a voce alta anche se è notte fonda, quasi mattina. La pompa di calore sopra la sua testa e sopra il cuscino fa un rumore strano, un cigolio senza ritmo. Sergio è seduto sul letto, con i capelli scombinati e il petto nudo. La stanza è in penombra, da fuori arrivano la luce di un lampo e il rumore di un tuono. La mano di una donna accarezza il petto di Sergio, poi il collo, poi va a morire sopra il lenzuolo nero che copre la sua gamba muscolosa. Goycochea ha 51 anni ma ne dimostra molti meno. La ragazza, bionda, con il seno rifatto e un tatuaggio che le avvolge il polso, avrà al massimo 25 anni. “Io sono un eroe di questo maledetto paese, lo sai vero? Sono un eroe anche se in Italia non dovevo nemmeno giocare. Ho avuto un colpo di culo. Sono un eroe e un uomo fortunato. Mi stai ascoltando?” Goycochea respira profondamente, si passa una mano tra i capelli per rimetterli in ordine e solleva di peso la ragazza. Lei ha lo sguardo stanco e il mascara sbavato. Non dice niente, si limita ad aprire la bocca, troppo presto, troppa fretta per non sembrare indifferente. Ma Sergio non se ne accorge, non ci fa caso. La bacia, la tocca, le stringe i capelli e le spinge la testa verso il basso, lungo il suo petto, fin sotto le lenzuola. Nere, lucide, volgari. Tira un altro respiro profondo e guarda il suo volto nell’anta a specchio dell’armadio. Nero, lucido, volgare. “Non è ancora il momento di dormire. Mi conosci, dovresti saperlo”.

Sergio scoppia a ridere. La ragazza non dice niente, soddisfa la pretesa del suo amante senza entusiasmo, meccanicamente. Sergio non se ne accorge, non ci pensa. Sparse per terra ci sono decine di copie dello stesso numero di Playboy, con Goycochea in copertina, abbracciato a una modella. Tiene in spalla la tuta da portiere del 90. La libreria è interamente occupata dalle videocassette e dai DVD delle registrazioni dei suoi programmi televisivi, in ordine cronologico e con l’etichetta che riporta il nome del programma e quello dell’ospite più importante. Con la mano ferma sulla nuca della ragazza e le dita serrate tra i suoi capelli biondi, Sergio allunga l’altra mano verso il comodino e prende un grosso bicchiere mezzo pieno di un’intruglio verde, ipercalorico, che aiuta a mantenere la linea (e chi lo sa se è vero) e ha un buon sapore di mandarino (falso, fa schifo). “Una volta Bilardo mi ha chiamato a notte fonda e mi ha dato un appuntamento in una piazza vuota. Io vado lì pensando che fosse successo qualcosa di grave. Invece mi ha detto “devi stare carico, mi raccomando” e se n’è andato.”. Istintivamente, Sergio guarda il telefono appoggiato sul comodino, macchiato di poltiglia liquida verde. Non squilla.

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Poco lontano, in una villa persa nell’immensa periferia di Buenos Aires, Nery Pumpido è seduto in cucina. La stanza è illuminata soltanto dalla luce del frigo, rimasto aperto, e da quella dello schermo del suo portatile. Fuori, in giardino, uno dei suoi cani abbaia ossessivamente alla luna, che non si vede perché il cielo è coperto da nuvole pesanti. Nery scorre senza troppa attenzione la pagina Facebook di una lontana parente che tra poche ore arriverà in città in cerca di un lavoro. Sulla pagina ci sono centinaia di autoscatti di un viaggio a Barcellona. La ragazza non sorride quasi mai, ha un naso troppo grande ed è troppo truccata. Nery si versa un altro bicchiere di birra Quilmes e pensa che in fin dei conti è una buona birra. Leggera. Scorre le foto della parente e si chiede se deve considerarla una cugina o una nipote. Ha la faccia scombinata e le tette finte, un lavoro da poco, pensa. Tra meno di quattro ore la incontrerà in un bar di un quartiere dove non conosce nessuno, e se non riuscirà a dormire prima dell’appuntamento finirà per metterle una mano tra le cosce, ne è sicuro. Lei probabilmente se lo aspetta e non farà storie, ma Nery vorrebbe evitare. Sarebbe meglio dormire un po’ anziché continuare a bere.

In alto a destra, sullo schermo, compare la notifica di un messaggio. È il figlio di un vecchio amico che ora fa l’allenatore in Giappone:  “ho scoperto adesso che quei bastardi ti hanno licenziato. Dopo che gli hai fatto vincere una Libertadores? Bella riconoscenza. Tanto senza di te non la vinceranno mai più. Tieni duro, Mocho”. Nery risponde e scrive che non l’hanno licenziato, è stato lui ad andarsene. Poi però ci ripensa e cancella la risposta. Ritorna alle foto della cugina o della nipote, tutte uguali, tutte inutili. Le tette gonfie, le labbra minuscole, il naso da befana. Butta giù un altro sorso di birra e pensa una cosa che ha pensato tante volte ma che non pensava più da tanto tempo. Pensa che se Olarticoechea non gli avesse spezzato la gamba nella partita contro l’Unione sovietica sarebbe stato titolare per tutto il mondiale. E quel maledetto rigore di Brehme lo avrebbe bloccato a terra. E i programmi televisivi li avrebbero fatti condurre a lui. E magari gli facevano anche la copertina su Playboy, invece di chiedergli sempre e soltanto di quella volta che ha perso un dito perché gli si era impigliata la fede nei ganci della rete. Come se quel dito non glielo avessero riattaccato subito. Come se non avesse vinto i mondiali nell’86. Come se non avesse vinto la Libertadores dieci anni fa con una squadra di paraguaiani. Come se avesse bisogno di mettere una mano tra le cosce di una cugina. O una nipote.

A ottomila chilometri di distanza, nel Messico centrale, Ángel Comizzo dorme in una camera d’albergo. Per terra ci sono due piccole bottiglie di tequila: una è vuota, l’altra è rovesciata sulla moquette marrone, piena di altre macchie, vecchie e nuove. La tv è accesa e trasmette Fuoco cammina con me. Probabilmente nessuno in città lo sta guardando. Ángel si è addormentato davanti a un programma sportivo in cui si parlava del mercato del Club Monarcas Morelia, che ha appena concluso il torneo di clausura in fondo alla classifica nonostante la vittoria all’ultima giornata. Poco prima di mezzanotte un telespettatore ha telefonato in studio per chiedere se il presidente ha intenzione di richiamare Comizzo, esonerato a metà del torneo di apertura. Ma in quel momento Ángel stava già dormendo.

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Ore 08:45

Fuori piove e tira vento. Edgardo Bauza è seduto dentro un bar moderno e pieno di giovani impiegati  e qualche turista rumoroso. Questi posti non gli sono mai piaciuti, ma i tavoli sono puliti e ci sono poche probabilità che qualcuno lo riconosca. L’allenamento del San Lorenzo comincerà tra due ore, l’ultimo prima della partita di domenica contro il Sarmiento. Bauza ordina un altro caffè, il secondo da quando è seduto, il quarto della giornata. E due alfajores, dulce de leche. Il cameriere, giovane barbuto con i capelli strani e un tatuaggio sul collo che sembra uno sputo catarroso, non lo guarda in faccia. Bauza prende in mano il telefono e si domanda – per l’ennesima volta da stamattina – se vuole davvero chiamare il giornalista di Nantes che lo sta perseguitando da due settimane. Dice che vuole parlare soprattutto di Cetto e di Mario Yepes, dice che ha già parlato con Nestor Fabbri ed è stato lui a dargli il suo contatto privato. Imbecilli, tutti e due, il giornalista col suo spagnolo incomprensibile e Fabbri che non pensa mai per più di tre secondi di fila. Bauza poggia il telefono e beve il suo caffè. Ha cambiato idea, due alfajores sono troppi. Domenica scorsa hanno strappato un buon pareggio in casa del Newell’s del Galgo Dezotti. Hanno giocato una partita onesta, ordinata, ma i giornali non sono contenti, la classifica è troppo buona per accontentarsi di un pareggio. Per il titolo è ora o mai più. Probabilmente mai più, pensa Bauza, almeno per quest’anno, ma questo non bisogna dirlo. Non ancora. Cetto e Yepes sono quello che sono, due difensori con le palle quadrate e le gambe lente, che altro c’è da dire? Di sicuro non c’è bisogno di chiamare dalla Francia per chiederlo a lui.

Una comitiva di adolescenti entra nel bar facendo un fracasso con i tavolini, le sedie, gli ombrelli e i computer portatili. Bauza solleva la mano e chiede il conto. Ha una brutta sensazione per la partita contro il Sarmiento. Se la perdono, cambierà anche la percezione del pareggio col Newell’s e qualcuno parlerà di crisi, come se le sconfitte fossero due di fila. È il problema dei pareggi, pensa, i pareggi non esistono, sono mezze vittorie o mezze sconfitte. Prima di pagare e uscire di nuovo in strada sotto la pioggia, Bauza riprende in mano il telefono e apre youtube. Una canzone, in particolare, una canzone che lo aiuta sempre a scacciare via i pensieri che non meritano una vera riflessione. La sua canzone. Edgardo Bauza canta Patón y Conductor.

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Poco lontano, Pedro Monzón è bloccato nel traffico. È uscito di casa da pochi minuti, senza pensare alla pioggia e al fatto che inevitabilmente sarebbe finito in mezzo a un ingorgo. Ma non c’era alternativa. Se non ci fosse stata la pioggia avrebbe potuto farsi una corsa fino alla stazione, tanto per tenersi in forma in vista della prossima Subida Pedestre de Cáceres, anche perché quest’anno non è andata benissimo. I giocatori del suo Tristán Suárez gli chiedono sempre perché non si allena con loro, tanto più se gli piace la corsa. Ma Monzón sa benissimo che deve mantenere le distanze. In terza categoria l’allenatore compagnone non va bene, serve disciplina, serve la giacca, serve la faccia incazzata. Altrimenti i vecchi ti mettono i piedi in testa e i giovani ti ignorano. L’ingorgo è peggio del previsto, probabilmente qualcuno avrà bloccato la strada. Monzón ha la gola secca, ci dev’essere qualcosa che non va nel filtro dell’aria condizionata. Prende una bottiglia d’acqua che rotola sotto il sedile del passeggero, beve e prende in mano il telefono. Chiama i suoi giocatori, uno per uno, e gli chiede se saranno puntuali al campo. Lui non arriverà mai in tempo, ma non importa. Pepe al culo, una corsa in salita, una figura più autoritaria possibile. Oggi niente allenamento ma spiegazione del piano partita per domani.

Hanno vinto quattro partite di fila, ma questo nelle categorie inferiori conta poco e Monzón lo sa benissimo. Stamattina ha letto l’ennesimo articolo in cui parlano di lui come possibile sostituto di Almirón sulla panchina dell’Independiente. Solite sparate. I giornali lo nominano spesso ma dalla sede nessuno lo chiama mai, se non per qualche festa celebrativa. La sua occasione con i Rojos l’ha già avuta, un po’ per caso ma l’ha avuta. È andata male per colpa della sua inesperienza, di Sergio Aguero e di qualcos’altro che ormai non ricorda più. Non è importante. L’importante è il campionato di Primera B metro e la partita di domani contro il Comunicaciones, che non vince da cinque partite. Un giorno tornerà alla ribalta. Un giorno avrà l’occasione che aspetta da una vita, un’occasione che non ha il nome di una squadra e nemmeno di un campionato. Intrappolato in un ingorgo e affannato mentre parla al telefono con un terzino scadente (tanto vale a questo punto schierarlo centrale), Pedro Monzón ha un solo desiderio: che la gente la smetta di considerarlo l’unico responsabile per la sconfitta contro la Germania. 

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ore 14:30

Il ristorante la Cabrera Sur è pieno come ogni giorno. Fuori continua a piovere, e in qualche modo questo aumenta il rumore all’interno del ristorante. Ricardo Giusti e Jorge Burruchaga chiacchierano davanti a un paio di bistecche. Quella di Giusti è al sangue, l’altra è troppo cotta. Il loro appuntamento alla Cabrera è fisso, almeno una volta al mese, preferibilmente di venerdì. Almeno fino a quando Giusti, l’agente, non riuscirà a piazzare il suo assistito ed ex compagno e vecchio amico su una panchina importante. “Sono solo voci, Burru, per ora niente di serio”. “Lo so, Gringo, lo so. Non ho nemmeno tanta voglia di parlarne. Piuttosto come stanno le figlie?” Giusti è concentrato su un nervo da staccare dalla sua bistecca e non ascolta la risposta. Si versa un bicchiere di malbec e va avanti per la sua strada. “Lo so che leggi i giornali, ma ti dico un segreto: quando dicono che Burruchaga è tra i candidati tu non ci credere. Se invece l’articolo parla soltanto di te allora aspettati una telefonata, ma di sicuro ti avrò già avvertito io.” Burruchaga ha già quasi finito la sua bistecca, ma sta pensando che deve lasciare un pezzo nel piatto e aspettare che anche Giusti si dia una mossa.“Quindi niente Independiente?”, chiede senza nemmeno sapere il perché. Giusti rischia di strozzarsi. “Niente Independiente, Burru, lascia stare i giornali di merda, te l’ho detto. Oggi parlavano del Moncho Monzón e dicevano che è il favorito, come fai a credere a queste puttanate? Ascolta, in questo momento posso piazzare il tuo culo su qualche panchina inutile. Vuoi allenare le donne come el Vasco Olarticoechea? Voi finire in mezzo ai beduini come Batista e Calderón? Al massimo, se hai bisogno di soldi, possiamo trovare qualcosa in Colombia. Però lì non ho molti contatti, ti conviene sentire Lorenzo. In ogni caso non chiamare assolutamente Basualdo, è un coglione”. 

Burruchaga pensa che forse non è il caso di aspettare e addenta l’ultimo pezzo di carne. Lo mastica appena e lo inghiotte troppo presto, quasi soffoca. Beve un bicchiere d’acqua tutto d’un sorso, si pulisce le mani sulla tovaglia e all’improvviso, senza che se lo aspetti, gli sale su un fremito di cattiveria. “Mi ha chiamato quel cretino di Sensini. L’hanno fatto fuori dal Rafaela e vuole sapere se posso fare qualcosa per fargli avere i soldi arretrati senza mettere in mezzo gli avvocati. Gli ho detto di andare a quel paese”. Giusti rutta senza mettersi la mano davanti alla bocca, poi si asciuga le labbra con il dorso della mano. “Come scusa?” Burru resta un attimo in silenzio. Il frastuono del ristorante copre i suoi pensieri e il senso di colpa per aver detto quello che ha detto. Non è una cosa da lui, lui è una persona educata, ma ogni volta Giusti lo fa sentire in imbarazzo e lo fa comportare in modo strano. “Niente, parlavo di Sensini, mi ha chiamato e vorrei…” Giusti lo interrompe con una risata. “Povero Boquita” dice tra un sussulto sputacchiante e l’altro. “Aspetta, guarda cosa ho trovato”. Mentre Giusti armeggia con il suo telefono ipertecnologico, Burru in cuor suo pensa che forse avrebbe dovuto chiamare Bochini e chiedergli di parlare lui con quelli dell’Independiente. “Ecco, guarda. Su Facebook c’è una pagina che si chiama ‘Fidanzarsi con il Principe William e ritrovarsi sposata con Nestor Sensini’. Guarda, ha 13mila like. Che dici, lo chiamiamo? Ce l’hai il numero?” Burruchaga non risponde. Fuori ha smesso di piovere. Giusti sembra non avere alcuna intenzione di finire la sua bistecca.

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Ore 18:20

José Tiburcio Serrizuela, detto El Tiburón, scende dal treno alla stazione di Munro, che per qualche strano motivo somiglia a uno chalet alpino. Il cielo è nuvoloso e quasi buio, ma non piove più. El Tiburón ha un appuntamento con i dirigenti del Colegiales e non sa di cosa vogliono parlare, ma non si fa troppe illusioni. Il suo compito è allenare le giovanili e probabilmente continuerà a esserlo per qualche tempo. La società cercava una faccia conosciuta e ha scelto la sua, ma nessuno si occupa più di tanto del suo lavoro. Lo tengono buono e sempre pronto per una foto ricordo. El Tiburón cammina lentamente e non cerca nemmeno di mettere un ordine ai suoi pensieri confusi. Un po’ gli secca aver dovuto riprendere il treno un’altra volta e tornare a Munro, ma non è che a casa avesse molto da fare. Qualche birra, un panino, un paio di serie di flessioni che non riesce mai a finire.Fa freddo, la stazione si svuota in fretta.

El Tiburón cammina e poi si ferma davanti a un chiosco per comprare una bevanda energetica e una copia del Clarin. Non l’ha mai letto e non comincerà adesso, ma è sempre bene arrivare a un incontro di lavoro con il giornale in mano, o almeno così gli hanno detto. In questo momento non ricorda chi gli ha dato quel consiglio, ma continua a sembrargli un buon consiglio. L’uomo del chiosco allunga la mano per dargli il resto ma poi si ferma e lo squadra. “Sei El Tiburón, giusto?” Serrizuela sorride e annuisce. “Lo sapevo! Scusami, è la terza volta che ti vedo ma non ero sicuro. Che ci fai da queste parti, hai un’amante nascosta?” L’uomo ride, el Tiburón abbassa lo sguardo e si chiede perché l’abbia riconosciuto proprio oggi, oggi che fa freddo, ha piovuto tutto il giorno ed è quasi buio. “No, jefe, alleno le giovanili del Collegiales e domenica prossima giochiamo…” L’uomo del chiosco lo interrompe alzando la voce in un modo che al Tiburón da istintivamente fastidio e gli fa sbattere le palpebre ripetutamente. “Ma hai visto quella porca della figlia di Ruggieri a Bailando? Guarda, qui su Gente dice che non vuole fare la figura della botinera e poi si fa le foto al culo. Certo, certo. Non è nemmeno tutta questa gran femmina. Molto meglio la figlia di Caniggia, quella si che è una maiala. Ma loro che dicono? Io mia figlia la mandavo a calci in culo se mi diceva di volersi spogliare così. Vi sentite ancora col Pajaro e il Cabezón?” Serrizuela continua a sbattare nervosamente le palpebre e tiene la mano allungata in attesa del resto. “No, no, non li sento da anni. Non allenano, Caniggia credo che viva in Spagna”. L’uomo del chiosco ha ritirato la mano e non sembra voler chiudere la conversazione. Arriva il rumore di un tuono, lontano, lontanissimo. El Tiburón si mette una mano in tasca con rassegnazione e riesce a smettere di sbattere le palpebre, ma lo sguardo gli cade sulla copertina di Gente con le foto di Charlotte Caniggia. Serrizuela quelle foto le conosce già, le ha viste su internet più di una volta. Senza farci caso, si domanda se quella rivista era già lì quando è arrivato o l’abbia appoggiata l’uomo del chiosco per fargliela vedere. È un pensiero che non porta da nessuna parte.

L’uomo del chiosco ha appena finito di fargli una domanda, ma el Tiburón non ha sentito. “Sì, proprio una bella porca – risponde a caso – el Pajaro è un uomo fortunato.” Serrizuela si rende conto di quanto sia assurdo quello che ha appena detto. Non ha il coraggio di guardare in faccia il tizio davanti a lui e ricomincia a parlare, quasi per difendersi. “Però io mia figlia non la vorrei mai vedere così. Sai, avevamo aperto un ristorante insieme a suo marito e a mio suocero. Poi però lei ha divorziato, e anche io. Così siamo rimasti solo noi due a gestire il ristorante. Non è andata bene, meglio il calcio, jefe”. El Tiburón si fa forza e alza lo sguardo. L’uomo del chiosco non dice niente, abbozza un sorriso e gli da il suo resto. Serrizuela prende le monete e si allontana rapidamente, con la testa calva incassata tra le spalle. Un altro tuono, questa volta più vicino, più forte. El Tiburón si accorge di aver dimenticato di prendere il giornale, ma non ha voglia di tornare al chiosco. E non ha nemmeno voglia di incontrare i dirigenti. Stringe il pugno nella tasca sinistra, poi torna indietro, verso la stazione.

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Ore 21:05

In un appartamento spazioso del quartiere San Telmo, Nestor Fabbri è seduto sulla tavola del water e guarda l’oblò della lavatrice. I vestiti bagnati e insaponati girano e si capovolgono, uno sull’altro. In bagno c’è puzza di sigaretta e un posacenere vicino alla finestra. La finestra è chiusa, fuori ha ricominciato a piovere. Il rumore meccanico della lavatrice si sovrappone a quello delle gocce di pioggia sul vetro della finestra. Squilla il telefono. Fabbri lo guarda e legge il nome di Juan Simón, direttore tecnico del Boca e suo ex compagno di nazionale. Fabbri sa benissimo perché lo sta chiamando. Si aspettava questa telefonata, ma non così tardi. Probabilmente Simón ha chiamato un sacco di gente, prima di lui.

– Dimmi, Simón
– Che fai, Fabbri, guardi le repliche di Bailando? Che figura di merda Ruggieri. Sai che risate che c’eravamo fatti sulla figlia di Caniggia…
– Stavo cacando.
– Ah, scusa, potevi pure non rispondere.
– Sei tu quello che non risponde. Cos’è questa storia del Palermo?
– Ecco, bravo, hai capito. Hanno venduto Dybala e vogliono tuo nipote Calleri.
– Voi che dite, lo volete vendere?
– Venderlo lo vendiamo, ma quelli pagano poco. Però almeno pagano. Tu che dici?
– Non lo so, io leggo soltanto i giornali. Potevi chiamarmi prima.
– Non ho avuto tempo, qui è un casino. Hai parlato con il ragazzo?
– No, tu ci hai parlato?
– Sì, dice che…
– Non avresti dovuto, prima devi parlare con me e poi, forse, ne devi parlare con lui.
– Dai, Fabbri, non ti incazzare, avevo fretta e…
– Al Palermo c’è sempre Lo Monaco?
– No, c’è un tizio che si chiama Ceravolo. Mi ha chiamato tre volte e parla sempre della Cina. Non capisco che cazzo c’entra la Cina. È un casino, con quello.
– Non lo conosco. Hai il numero di Dybala?
– No.
– Quello di Vasquez?
– Nemmeno.
– Prima di parlare con Jonathan voglio sentire qualcosa sul Palermo, da qualcuno che c’è stato quest’anno. Se li chiamo io mi fanno parlare con questo Ceravolo.

Nestor Fabbri allontana il ricevitore dall’orecchio per non sentire la risposta di Simón. Beve un sorso dalla lattina di Coca-Cola che si è portato in bagno. La lavatrice si è fermata. La pioggia no.

– Senti Simón, chiamo Diego. Poi ti richiamo. Non parlare con nessuno prima di risentirmi, altrimenti faccio saltare l’affare. E soprattutto non chiamare mio nipote. Fabbri aggancia, scorre la rubrica e trova il numero di Diego.

Il telefono di Diego Armando Maradona squilla insistentemente. Diego non risponde, sta dormendo sul divano di casa. Ha preso un sonnifero nel pomeriggio e non si è ancora svegliato. La luce del salotto si è accesa automaticamente da due ore. Da qualche parte, in un’altra stanza, c’è una finestra che sbatte. Diego non si sveglia. Ha un cuscino sulla faccia per proteggersi dalla luce, e in un sonno turbato da sogni senza aria le sue mani stringono il cuscino, sempre più forte, sempre più pressato contro la sua faccia. Il telefono smette di squillare.

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Sabato 23 maggio

Las Vegas, ore 02:15

In una sala appartata del Bellagio, Abel Balbo sta giocando a poker con quattro investitori del Las Vegas F.C. Non conosce nessuno di loro e sta perdendo più di 5mila dollari. Sopra la sua testa il condizionatore emette un soffio d’aria fredda che gli va a sbattere proprio sulla nuca. Fuori dal casinò, nonostante l’ora, fa molto caldo e in cielo non c’è una nuvola. Bingham e Pagniello lo hanno convinto a giocare questa partita ma poi all’ultimo non si sono presentati. Balbo pensa che non avrebbe dovuto accettare e si chiede se può alzarsi adesso e chiuderla qui. Alza lo sguardo alla ricerca di un pretesto, ma gli altri quattro sembrano non accorgersene. Continuano a giocare in silenzio. Un paio di volte Balbo è stato anche rimproverato dal dealer perché ha saltato un turno. L’uomo alla sua destra, un messicano, ha appena rilanciato forte. Balbo beve il suo bourbon annacquato. È indeciso, ha una doppia coppia di assi e otto. La mano del morto.