Samp-URSS: occhio alla perestrojka

Samp-URSS: occhio alla perestrojka
17 Agosto 2015 Federico Ferrone

Graffito per graffito, metro per metro, centimetro per centimetro. Il piccone colpisce il muro di Berlino e rincula, investendo l’improvvisato abbattitore con una forza insostenibile per il suo fisico da bevitore. La scena, comica ed eroica, inutile e grottesca al contempo, viene trasmessa da ogni telegiornale, acquisendo la stessa valenza simbolica del giovane cinese davanti al carro armato in piazza Tienanmen: la DDR arranca sotto i colpi dell’ondata riformatrice che si sta diffondendo nell’Europa dell’est; Honecker fugge senza dare il bacio d’addio a quel che rimane della potenza brezneviana; i caprioli tornano in campagna, consegnando la terra di nessuno tra i due lati del muro alla civiltà capitalistica.

Circa sei mesi dopo, la nazionale sovietica guidata dal colonnello Lobanovskij viene eliminata dal Mondiale di Italia ’90 al termine della fase a gironi. Sarà la sua ultima partecipazione a una competizione ufficiale: nel 1992, nell’Europeo giocato nella socialdemocratica Svezia e vinto dall’altrettanto socialdemocratica Danimarca di Peter Schmeichel e Brian Laudrup, sarà sostituita dalla selezione della Comunità di Stati Indipendenti (CSI). Una resa senza orgoglio. Circa un anno dopo il mondiale italiano, il putsch di agosto rappresenterà per tutti la fine dell’Unione Sovietica: il fallimento del golpe consegnerà il potere nelle mani di Eltsin rimarcando che, dagli anni Ottanta in poi, dalle crisi politiche si esce sempre e solo con un carpiato destrorso. La catena di questi eventi appare ineluttabile: una sequenza che porta su di sé il marchio del declino politico e sportivo di un intero mondo. Una linea di macroeventi che non può tenere conto dei tentativi di dare vita ad altre narrazioni, ad altri momenti di storia virtuale destinati a rimanere tali, ovvero incompiuti. Tra questi tentativi di emendare ciò che non è emendabile, di tessere relazioni quando ormai è troppo tardi, va considerata anche un’amichevole agostana. Data: 18 agosto 1990, dieci mesi dopo la caduta del muro, un anno prima del putsch. Luogo: Genova. Partita: Sampdoria-URSS.

vialliaaiaai

Sampierdarena, 18 agosto 1990, ore 20.30

“Che cazzo vuoi?” sussurra l’uomo alla propria immagine riflessa nello specchio. “Che cazzo vuoi?” sussurra di nuovo, chiuso nel bagno della sezione del PCI di Sampierdarena. Il Ruspa si siede sul cesso, sfiancato da un pomeriggio passato a pensare se fosse meglio andare allo stadio e tifare per la Samp oppure venire qui, in sezione, a guardarsi la partita in televisione. E tifare per l’URSS. Prima della partita s’è discusso molto di glasnost e Lobanovskij, di Gorbaciov, Bolognina e del fallimento mondiale. Qualcuno ha voluto dire la sua anche su un film di Castellano e Pipolo in uscita in autunno. Nessuno sa di che cosa tratterà. In molti, però, sanno che si intitolerà Occhio alla perestrojka e che avrà come attori protagonisti Ezio Greggio, Jerry Calà e Rodolfo Laganà. In molti hanno stigmatizzato l’aria di burla e di disimpegno con cui ci si vuole occupare della grande riforma dello stato sovietico. Altri lamentano il silenzio dei nostri registi. Perché Scola non gira un film sullo stesso argomento? Perché Citto Maselli non protesta? Il Ruspa, invece, rimane lì, a rollarsi una canna nel cesso della sezione, mentre la discussione affievolisce e i compagni meno inclini al dibattito e più portati all’organizzazione pratica stanno mettendo a posto le sedie per la visione collettiva della partita.

Forse mi dovrei operare al naso, pensa. O forse, per rilassarsi, l’erba non va più bene. Il problema è che qui nessuno capisce più un cazzo: sono rimasti agli anni ’70. Anzi, peggio, sono rimasti a Croce. Criticano tutto ciò che riguarda l’intrattenimento, dicono che il pubblico vuole contenuti forti. Ma non hanno compreso che l’intrattenimento, di per sé, è un contenuto forte. E che Jerry Calà è uno dei più grandi intellettuali viventi, gramscianamente parlando.  Ma il Ruspa, ora, non vuole pensare. Vuole solo rilassarsi. Torna in sala e si siede, aspettando che cominci l’incontro su Rai 3. In pieno stile lottizzatorio, se c’è l’URSS in televisione, l’unico canale che può trasmettere una sua partita è quello del PCI. E la partita sarà noiosa come i suoi programmi, dice tra sé, ridacchiando. La partita perfetta da vedere con un po’ di THC in corpo, giusto per notare meglio le note di colore: Vujadin Boskov in tenuta da tempista jugoslavo, con la camicia bianca a maniche corte, cravatta, penna nel taschino e canotta a vista, la bruttezza di Pari, il piglio aggressivo di Bonetti.

Il match inizia lentamente: i giocatori sembrano aver capito che l’impegno per la preparazione estiva non è in discussione: certo si potranno provare alcuni schemi, ma la questione è innanzitutto simbolica. La nazionale di uno stato al collasso, giocatori non ancora professionisti e non più dilettanti. Entità ibride, dallo statuto simile a quello della Comunità di stati indipendenti che non esiste ancora, ma si sta preparando. Come un virus silente che deve solo raggiungere il corretto livello di proteasi. Il primo gol, infatti, nasce in maniera sostanzialmente casuale: Mancini batte un calcio d’angolo, la palla viene raccolta da Pari che serve di nuovo Mancini, il quale crossa in mezzo all’area. Vierchowod, nell’inedita posizione di centravanti di sfondamento, anticipa la difesa sovietica e insacca. Il punto, per il Ruspa, è duplice. Da una parte, si chiede che cazzo ci facesse Vierchowod in attacco; dall’altra, gli viene in mente che suo padre era un soldato dell’Armata Rossa che, dopo essere stato internato a Bolzano, Pisa e Modena, si era rifiutato di tornare in URSS. E si era trasferito a Spirano, in provincia di Bergamo. In questo senso, il gol dello stopper può essere considerato un atto controrivoluzionario?

Di una bellezza proletaria, invece, è la risposta di Oleksej Mikhailichenko, pilastro nella nazionale sovietica e neo-acquisto della Sampdoria: il centrocampista prende palla sulla trequarti doriana e dai venticinque metri fa partire un tiro potentissimo, che si insacca alle spalle di Pagliuca. Precisione e potenza quasi meccaniche: il corpo dell’atleta sovietico non poteva essere nulla di meno e nulla di più. Proprio Mikhailichenko diviene poi il protagonista di un atto dall’alto valore simbolico, anche se forse, come sta pensando il Ruspa, nasconde una moralina alla Peppone e Don Camillo. Verso la fine del primo tempo, Mancini viene richiamato in panchina da Boskov. A sostituirlo sarà proprio il centrocampista ucraino, che uscirà dal campo con la maglia dell’Unione Sovietica e vi rientrerà con quella della Sampdoria. Indosserà una maglia nobile, quella col numero dieci. Ai vecchietti seduti intorno al Ruspa non è piaciuto questo strano avvicendamento: non si è mai visto al mondo, e poi che cosa può voler dire? Giorgio Martino, il telecronista, lascia la parola all’ex arbitro Egidio Ballerini che, dieci anni prima dell’arresto per bancarotta fraudolenta, aveva già lasciato il calcio, fondando una società di organizzazione di eventi sportivi, chiamata senza troppa fantasia Sportevents, e collaborando saltuariamente con alcune squadre di serie A nell’acquisto di giocatori stranieri, come Zanetti all’Inter e Mikhailichenko alla Sampdoria, appunto. L’abate Faria di questa serata, in fondo, è lui: sostiene di avere avuto il pieno appoggio della federazione calcistica sovietica la quale, in accordo col proprio governo, desidera lanciare all’Europa occidentale un messaggio distensivo in un momento di difficoltà politica ed economica.

Ciò che al Ruspa non torna, tuttavia, è un problema di ordine estetico: perché trasformare anche l’acquisto di un giocatore nel grande spettacolo della crisi di un mondo? E, da parte della federazione sovietica, perché implorare un po’ d’attenzione da parte del mondo occidentale, accettandone l’elemosina politica? Pensando a ciò, il Ruspa avverte di nuovo quello stesso senso di angoscia che, prima, lo aveva spinto a rifugiarsi in bagno. Ci torna, anche se gli sembra più angusto, meno vivibile. Si guarda di nuovo allo specchio. Questa volta però, invece di parlare alla sua immagine, prende attentamente la mira e tira una testata al vetro, all’altezza del suo naso. Un rivolo di sangue gli scende dalla fronte. Intinge un dito e scrive sullo specchio tre parole. OCCHIO. ALLA. PERESTROJKA.