Mitropa – Party sotto le bombe

Mitropa – Party sotto le bombe
28 Settembre 2015 Damiano Cason

Da quando il placido Impero austroungarico ha rischiato di sfasciarsi a furia di sommosse organizzate dalle borghesie nazionali, il temperamento dei viennesi non è più stato lo stesso. Del resto nessuno, prima di quella ambigua esperienza, aveva mai pensato che potessero essere gli austriaci il popolo designato a guidare l’Europa e quindi l’Occidente. Non fosse stato per una città la cui posizione geografica e culturale è ben definita da come i tedeschi di Prussia chiamano questi luoghi: Europa di Mezzo. La città è Vienna, il fiume è il Danubio, le cui acque trasportano lingue, teorie, assurdità e guerre fino poi a lavare per l’eternità gli antichi peccati e dare i natali a epifenomeni letterari come Elias Canetti. Le belle città, le montagne intervallate dal verde e la passione per i palazzi dallo stile regale, sono sicuramente un sintomo della mollezza che s’era insinuata in quei germanofoni d’altitudine, ma nulla vietava di continuare a dedicarsi alle teorie economiche, psicologiche, alle lettere e al teatro. Francesco Giuseppe infatti se ne interessò eccome, con una speciale predilezione per le attrici. Tanto da farsi sfuggire per un po’ le cose di mano.

Molto prima che Bobby Charlton soprannominasse il suo stadio di casa “Teatro dei sogni” e che ciò fruttasse quattrini, qualcuno aveva cominciato a pensare che il calcio potesse avere una dimensione europea ufficiale. Insomma che gli stadi, ancor più che nei campionati nazionali ancora giovani e in procinto di essere riformati, potessero diventare dei teatri di massa influenzati dai colori avversi, dalla posizione geografica, dai confini e dal clima. Costui era Hugo Meisl, guarda caso proveniente dalla Boemia, crocevia di montagne, metalli, amanti e carri armati. Forse dimentico che l’Europa si odiava, forse filantropo oltre ogni umana accettazione, fu lui ad avere l’idea di fare incontrare le squadre più forti della Mitteleuropa nella Coppa dell’Europa Centrale. Forse fu solo opportunista, visto che nell’Austria giocavano i più forti calciatori dell’epoca.

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Terra di confine, quindi di passaggio. Ma cosa attraversi se in mezzo non c’è niente? I lunghi viaggi si prestano a sbronze e puttane, oltre che a scambi di passaporti. Qua non importa molto dove stanno i mari e i monti, le acque del Danubio e le sconfinate pianure polacche portano il calcio, come tutto il resto, in territori d’industria pesante o d’agricoltura ambo i lati. Tutto questo è esso stesso un confine, il confine del “Secolo breve”. Nelle enclave senza diritto, città-stato in salsa imperiale, ognuno fa quel che gli pare, compreso essere comunisti odiando l’URSS. I vicini che fanno feste fino a tardi, oppure quelli che non escono mai di casa. Quelli con i quali è impossibile avere un rapporto che non sia di sopraffazione. La comunicazione attraverso i biglietti lasciati appesi nell’ascensore, come le influenze della borghesia francese, le rigide gerarchie naziste, la soppressione di qualunque libertà da parte delle polizie sovietiche. Col vicino disinteressato ai rapporti con l’amministratore, alla fine si finisce sempre col chiamare la polizia. In attesa che gli agenti arrivino, però, nulla vieta di continuare la festa.

La prima squadra a partecipare alla festa, nel 1927, fu lo Sparta Praga. E ben presto a festeggiare fu una squadra proveniente dal territorio centrale della terra di mezzo, il Ferencvàros. Hugo ebbe probabilmente sentimenti misti di tristezza e malinconia. Solo pochi anni prima quel grande agglomerato politico che includeva tutte quelle terre era stato disfatto per ordine di alcuni trattati redatti laddove si finisce sempre per decidere le cose: altrove. A Londra, a Parigi, forse ancor più lontano. E ora era proprio dal centro del centro che arrivavano i vincitori: da Budapest, la città divisa in due dal Danubio. A Hugo si sarebbe dovuto chiedere: “Ma perché non ci sono i tedeschi? E i polacchi? Partecipano persino gli italiani alla festa, forse per qualche sorsata d’acqua che Livigno ha rovesciato nel grande fiume. Ma la verità è che tu hai nel cuore l’Impero, la vecchia gloria, la Challenge Cup, il vecchio torneo tra squadre dell’Impero austro-ungarico organizzato nel 1897  dal vecchio amico inglese Gramlick. Amico di tutti quegli inglesi, Chapman, Hogan… Che ne penseranno i vicini?”. La puzza di bruciato comincia a coprire i profumi delle donne, il rumore dei pugnali risuona più di quello dei boccali di birra. Forse Hugo ha già capito che la polizia sta per arrivare, e che arriverà proprio da lì. Nasconde in fretta e furia le cose più imbarazzanti, fa le valigie prima che sia troppo tardi e, nel 1937, lascia questo mondo. Un anno dopo l’Austria è annessa alla Germania come provincia e la spartizione della Polonia sembra dare il via a un’altra guerra, dopo quella che aveva posto fine al sogno di mezzo dell’Impero Austro-Ungarico.

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E alla fine la guerra arrivò di nuovo. E arrivò la Germania, e arrivò l’URSS. Nel 1940 già Italia e Cecoslovacchia non poterono partecipare. Infine la finale tra Rapid Bucarest e nuovamente il Ferencvàros fu cancellata. Ma come quando si vive per tanto tempo in una bella città, non la si può dimenticare. Lasciarla è fallimentare, tornarci è patetico. La vita post-bellica non dà altre alternative. Allora alcuni scelgono di rimanere ragazzi, continuare ancora la festa come se nulla fosse accaduto. Come se Francesco Giuseppe fosse ancora a teatro a guardare le attrici, come se Freud potesse analizzare col senno di poi l’eccesso di violenza che il mondo aveva conosciuto. Continuare così ha il sapore di un revival stanco e morente, all’ombra di quei giovani e belli che poi stanno sempre dove si decidono le cose: a Londra, a Parigi, forse ancor più lontano.

Nel lentissimo agonizzare della festa, con gli ultimi ubriachi alle prima luci dell’alba di un giorno di pioggia, in ritardo per via delle nubi nere che attendono il mondo, anche il Milan del calcioscommesse ha conosciuto la gloria, raccontando una delle poche cose divertenti della lunga passeggiata verso casa. La casa? Un monolocale in periferia fatto di interminabili preliminari di luglio per accedere a Coppe senza gloria decise là dove ci sono i francesi e gli inglesi. L’ultima goccia prima di spegnere le luci l’ha bevuta nel 1992 il Borac Banja Luka quando ormai erano rimasti a giocare solo i campioni della serie B. Quando il Secolo breve aveva posto il suo sigillo sull’Unione Sovietica e l’alba non prometteva nient’altro che una giornata grigia, destinata a continuare.

Nella casa sul Danubio le luci si sono ormai spente ma un grammofono continua debolmente a suonare Mozart, mentre nella testa di Hugo rimbomba con il mal di testa un coro di voci confuse, che gli sembrano riprodurre in polifonia le parole: Mitteleuropa, Zentropa, Mitropa. Von Hayek vorrebbe spiegargli l’economia, Pauli dissente, Wittgenstein sostiene che non abbia ben colto segni che erano già presenti, Popper prova a farli tacere tutti. Hugo farfuglia di avere amici inglesi che forse possono ancora risolvere le cose: ma ormai stanno a Londra, Parigi, forse ancor più lontano.