Coppa delle coppe, coppa di tutte le coppe

Coppa delle coppe, coppa di tutte le coppe
18 Maggio 2016 scat

Coppa delle coppe, coppa di tutte le coppe e di tutte le cose, stella più luminosa della galassia, galassia più luminosa dell’universo, coppa delle coppe, coppa che unisce tutte le coppe e le mette d’accordo, ultimo sforzo sovrumano verso la vittoria assoluta, incontestabile, irripetibile. Ci sono i campionati, ci sono le coppe e poi c’è la coppa delle coppe, e dopo la Coppa delle coppe, come dopo tutte le galassie, c’è il nulla, l’oblio, il non essere. Questo evoca il nome, questo è quello che sarebbe la Coppa delle coppe in un mondo ordinato con criterio, dove a segno corrisponde concetto.

Ma questo mondo non è quel mondo. Questo è un mondo che da migliaia di anni invecchia e perde la testa, si rincoglionisce e sbaglia le parole, s’incarta e poi deve fare i conti con i suoi incartamenti. In questo mondo la Coppa delle coppe è stata – e già la sua morte è simbolo di follia, di errore, di confusione – una coppa strana, fuori luogo, senza un suo posto preciso nel firmamento. Un astro che risplende a intermittenza, una strada di campagna parallela all’autostrada, senza svincoli, senza scintillanti autogrill, senza troppi fronzoli, una strada strana che spesso la prendi per sbaglio o per noia o perché a volte si vive nascosti e non c’è bisogno di spiegarlo.

La Coppa delle coppe ha smesso di esistere da diciassette anni, e diciassette anni dovrebbero bastare abbondantemente a guardare le cose con distacco, a valutarle, a trarne le dovute conclusioni e ad archiviarle per quello che sono. E invece no. Ancora oggi, a pensare alla Coppa delle coppe, non si sa cosa pensare. Che cosa è stata la Coppa delle coppe? Che senso aveva? Che valore aveva? Le risposte, nella loro disarmante semplicità, compongono un paradosso: La Coppa delle coppe è stata una coppa riservata ai vincitori delle coppe nazionali. Come le coppe nazionali, anche la Coppa delle coppe non aveva molto senso, almeno nei suoi ultimi anni di vita. E come le coppe nazionali, anche la Coppa delle coppe aveva un valore variabile, perché variabile era il valore delle squadre che via via superavano (per caso o per passione) i vari turni eliminatori.

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 È qui, in questo senso inafferrabile e in questo valore indeterminabile, il paradosso. La Coppa dei campioni, come i campionati nazionali, ha sempre avuto un senso indubitabile e un valore preciso: chi vince la Coppa dei campioni conquista la gloria, assume in sé il prestigio del trofeo e brilla di luce riflessa. La Coppa dei campioni la vincono le grandi squadre, e se fino a pochi mesi prima non erano considerate grandi squadre lo diventano automaticamente alzando la coppa. Con la Coppa delle coppe accadeva esattamente il contrario: era la coppa a brillare della luce riflessa del vincitore. Se la vinceva il Barcellona era una grande coppa, un’annata buona. Se invece la vinceva il Mechelen era una cosa da poco, un inutile distrazione dal calcio che conta e dalle sfide che sarebbero rimaste nella memoria di tutti.

La Coppa delle coppe era la coppa in cui tutti potevano solo perdere. La vinco io, che sono un re, ed è una macchia sul mio regno. La vinco io, che sono un povero fornaio, e vale meno di un tozzo di pane. Il valore della vittoria che dipende dal nome del vincitore, e in ogni caso non ci sono conseguenze, non c’è una storia da riscrivere, un’opinione da cambiare. Si alza la coppa e ci si dimentica in fretta di chi l’ha vinta, come ci si dimentica di qualcosa che non abbiamo mai capito e quindi non abbiamo mai potuto amare né odiare.

Per questo oggi, a soli diciassette anni di distanza dall’ultima finale, ci sembra tutto così lontano, così indistinto. Negli ultimi vent’anni di vita la Coppa delle coppe è stata alzata al cielo da squadre di ogni blasone e di ogni passato e di ogni futuro. Gli stadi e le città che hanno ospitato la finale – Stoccolma, Copenaghen, Berna, Strasburgo, Basilea, Rotterdam – testimoniano nella maggior parte dei casi questa incertezza, questa specie di vergogna malcelata, come di chi scrive una canzone nella notte, senza troppa ambizione e senza farla ascoltare a nessuno, per non fare troppo i conti con quello che si sta facendo, per non fare il passo più lungo della gamba.

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Poi ci sono le partite, le finali surreali tra grandi squadre deluse per non aver partecipato alla festa che conta e piccole squadre che sono arrivate lì per uno scherzo del destino e già che ci sono provano a ballare, con passo incerto e sguardo basso. Aberdeen contro Real Madrid. Ajax contro Lokomotive Leipzig. Parma contro Anversa. Chelsea contro Stoccarda.

Ma perché sono venuto a questa festa? Cosa diranno domani gli altri? Va tutto bene, serata tranquilla e vado a casa presto. Chissà come si stanno divertendo da quell’altra parte. Anche qui va abbastanza bene. Ma cosa mi sta succedendo? E poi, alzando lo sguardo con la solita fierezza che però qui è fuori luogo, incrociare i pensieri dell’altro. Ma come ho fatto ad arrivare fino a qui? Che cosa si dice e si fa in queste occasioni? Si capisce che mi sono imbucato? Devo concentrarmi sulle cose positive, dove vivo dicono che ho un bel corpo. Io muovo bene il corpo, mi concentro sul corpo. Mi stanno guardando tutti.

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Nel 1981 il Rheinstadion di Düsseldorf è stato il teatro dell’improbabile sfida tra la Dinamo Tbilisi e il Carl Zeiss Jena. Nessuno straniero da entrambe le parti, nessun nome destinato a entrare nell’olimpo del pallone. Vinsero i georgiani, in rimonta, e questo è tutto quello che serve sapere. Oltre al fatto che la Dinamo non ha mai vinto nessun’altra coppa europea, che alla fine a picchiarsi tra fornai ci si diverte di più che a vergognarsi di aver pestato l’alluce a una principessa e che l’autore del gol decisivo, Vitaly Daraselia (che in georgiano si scrive così ვიტალი დარასელია), è morto sei mesi dopo quella partita in un incidente stradale.

Nel 1999, quasi vent’anni dopo, la grande Lazio è tornata da Birmingham con l’imbarazzante sensazione di aver dovuto battere il Mallorca per dare mezzo (o meno di mezzo) prestigio alla sua stagione. L’ultima Coppa della coppe la Lazio la vinse quasi allo scadere, e questo è tutto quello che serve sapere. Oltre al fatto che Sven-Göran Eriksson ebbe il coraggio di perdere più tempo possibile facendo entrare due campioni come Attilio Lombardo e Fernando Couto negli ultimi minuti, che il camerunese Lauren sarebbe passato alla storia perché gli avrebbero ritrovato il Rolex sei anni dopo il furto e che Leonardo Biagini, trascurabile bomber argentino che rappresenta una delle pochissime eccezioni alla regola dell’apodo (l’apodo di Biagini, a quanto pare, è Biagini), fu sostituito da un esasperato Héctor Cúper al settantatreesimo per far posto all’altrettanto trascurabile Veljko Paunović, attaccante macedone inconcludente e arrogante come tutti gli attaccanti macedoni di cui non si abbia alcuna notizia.

Nei quasi vent’anni anni che separano queste due partite non c’è molto che aggiunga senso al non senso, valore al non valore, dettaglio al ragionamento. Al contrario, ci sono soltanto altre grandi squadre e altri grandi campioni, altre squadrette in stato di grazia e altri giocatori da serie minore, campionato minore, costellazione minore.

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E poi, costante, c’è quel nome: Coppa delle coppe, coppa di tutte le coppe, abbinato a quell’oggetto chiaramente troppo piccolo, chiaramente troppo leggero e poco credibile, con orecchie grandi ma non abbastanza. Come una coppa inventata in un pomeriggio di sole da un gruppo di bambini, da giocare tutti contro tutti nella polvere con una pallina di scotch e fogli di giornale. Una coppa di cartone, coppa di tutte le coppe di cartone dell’infanzia passata, ambizione smisurata davanti a una realtà inclemente. Una coppa di cartone vinta a spintoni e colpi di tacco, tra avversari degni e indegni, bambini obesi in porta e giovanissimi campioni che si aggiustano i capelli senza fare troppo caso al risultato. Una coppa di cartone, di tutti i cartoni e di tutte le aspirazioni.

E il bambino grasso che se la porta a casa fiero, anche se in fondo sa che per gli altri bambini non vale niente, è solo uno scherzo di un’ora. E poi il giorno dopo, nella seconda edizione della Coppa di tutte le coppe di cartone, il bambino più bravo che se la porta a casa deluso perché nessuno è venuto a guardarlo, la butta in un angolo e va a lavarsi le mani, e mentre si lava le mani sa benissimo che da qualche parte c’è il bambino grasso di ieri, che la coppa l’ha persa e non si dà pace, perché non avrà mai più un’occasione così. La Coppa di tutte le coppe di cartone, prima o poi, verrà dimenticata a casa dal vincitore del giorno prima, e nessuno, nel campo di polvere, verserà una lacrima. 

Niente di personale, niente di collettivo. Solo cartone, musica troppo forte, animatori a disagio e fornai paonazzi che guardano pieni di desiderio, ma da lontano, principesse imbarazzate in una pista da ballo vuota.