Sergio Busquets, lo straniero

Sergio Busquets, lo straniero
14 Ottobre 2015 scat

Sergio dilata le narici e inspira l’aria che sa di erba tagliata e di shampoo delicato. È una splendida mattina di maggio, come ce ne sono solo nelle città di mare. Il cielo è puro e l’aria è trasparente nonostante il sole gagliardo. Chissà che caldo farà lassù, pensa sbuffando via la caligine degli altipiani che già sente calargli sul volto. Accarezza la testa del bambino – un ceceno di 9 anni appena strappato dalla squadra di un orfanotrofio di Grozny – e guarda di nuovo verso il fotografo, sgranando i denti nel suo sorriso migliore. Sergio ci tiene alla sua fama di professionista, anche se si tratta delle foto per la pubblicità della Masia. Anche se la sua non servirà a nulla. La sua mascella si irrigidisce per il disagio e si chiede con ansia se chi vedrà quella foto si accorgerà di qualcosa.

Ma per fortuna la sessione è finita. Sergio si stira e si massaggia le palpebre, fa per avviarsi ma urta qualcosa. Il piccolo ceceno è ancora di fronte a lui e lo guarda con quegli occhi vuoti e fissi. Sergio cerca una frase scherzosa con cui liberarsi, ma non trova niente. Resta lì un paio di secondi, poi taglia fuori il suo marcatore con un movimento da calcio d’angolo e si allontana senza salutare nessuno.

Appena fuori dal cancello della Masia la dolcezza della mattinata lo tranquillizza di nuovo e Sergio, che ha il giorno libero come tutti dopo lo stato d’emergenza e la sospensione del campionato, decide di congedare l’autista e tornare a piedi. Controlla il cellulare e vede un messaggio di Josep, il suo procuratore. Ma non lo legge. Oggi non vuole seccature, così toglie la suoneria e infila il berretto e gli occhiali da sole anche se in giro non c’è nessuno che potrebbe riconoscerlo. La travessera de les Corts è deserta, i negozi sono tutti sbarrati. Nel pomeriggio è in programma una grande manifestazione e dopo gli incidenti dei giorni scorsi il clima si è fatto molto pesante. Nessuno sa cosa succederà. La secessione unilaterale della Catalogna, che fino a qualche mese fa nessuno prendeva sul serio, sembra ormai inevitabile. Sergio ha cercato di starne fuori, ma ora non può più fare finta di nulla. Adesso è quasi certo che la società non potrà iscriversi né alla Liga né alla Champions League. In consiglio un dirigente ha ventilato l’ipotesi di spostare la squadra a Valencia per il tempo necessario a trovare una soluzione, ma gli azionisti popolari stavano per gettarlo da una finestra della sede.

I giocatori si sono ritrovati con le spalle al muro. Puyol ha subito fatto sapere che è pronto a tornare. Messi è sparito in Argentina per imprecisati motivi familiari. Iniesta sembra voglia rimanere. Ma Iniesta ha 33 anni suonati e quest’anno ha fatto mezza stagione in panchina. Sergio invece è all’apice della carriera e non può perdere i suoi anni migliori a giocare contro i muratori del Cerdanyola mentre gente che vale metà di lui corre per il Pallone d’oro. Questo glielo ha detto Josep e Josep ci ha sempre visto giusto. Per questo ha accettato la sua proposta. Il nuovo Real di Guardiola sarà un simbolo di tolleranza contro la follia della guerra civile. Stanno già organizzando una tournee della pace in Ucraina orientale, in Kurdistan e nel Kashmir con il patrocinio delle Nazioni Unite. E lui, che finalmente avrà la fascia da capitano, sarà il volto di questa squadra che entrerà nella storia. Altro che Figo, ha detto Josep. Questo è un gesto di responsabilità. Ma nessuno deve saperlo finché non sarà tutto pronto. Dovrà continuare a farsi fotografare, a baciare la maglia. Non è stato proprio lui a dire che la simulazione non è disonestà, ma intelligenza tattica?

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Per cui Sergio continua a camminare lungo i viali alberati godendosi la pace irreale che gli ricorda le sere in cui il Barça giocava qualche partita importante e tutti erano allo stadio o davanti alla tv, prima che le partite importanti cominciasse a giocarle lui. Arriva alla Diagonal e continua verso nordest, ma ancora non si vede anima viva, davanti agli edifici pubblici sono sparite le camionette della Guardia Civil, probabilmente per evitare provocazioni. Dicono che hanno messo un cecchino su ogni palazzo, ma Sergio non può vederli da sotto i platani. Ogni tanto il silenzio è rotto da un boato distante, forse un petardo, forse uno sparo. In lontananza un elicottero ronza sul centro storico, poi anche quello scompare. Il cellulare invece continua a vibrare, ma Sergio non ha alcuna intenzione di discutere con Josep sui dettagli del contratto o sugli sponsor personali. Oggi è il suo addio alla città e ha tempo solo per lei.

Arrivato all’incrocio con il Passeig de Gràcia, Sergio si affaccia sul lungo viale che scende verso il mare e vede una macchia sfocata e brulicante. Stringe gli occhi contro il sole e si rende conto che è una massa enorme di persone e bandiere che si sta raccogliendo in Plaça de Catalunya. Non ha mai visto una folla simile, nemmeno quando sfilava per la città in pullman con la coppa. La manifestazione è ancora più grande di quanto dicevano, saranno due milioni di persone, forse di più. Istintivamente Sergio fa un passo in quella direzione, ma poi il senso della posizione gli suggerisce di fermarsi. Lo riconosceranno, gli chiederanno di prendere la parola, di compromettersi, e lui non deve farsi risucchiare. Così continua dritto per un altro centinaio di metri, poi svolta a destra lungo gli isolati regolari dell’Eixample. I rumori si fanno più vicini, ma Sergio accelera il passo, lasciandosi guidare dal vento che porta dalla Barceloneta il solito odore dolciastro, come di minestrina, che tutti gli stranieri notano con disgusto appena arrivano in città e poi imparano ad accettare.

Quando sbuca nella piazza di fronte alla cattedrale, ormai con il fiatone, Sergio vede finalmente qualcuno, un gruppetto di ragazzi che si affretta in direzione del corteo. Uno di loro ha indosso la maglietta del Barça. Sergio pensa di avvicinarsi: in piazza non c’è nessun altro, al massimo gli chiederanno un autografo. In quel momento l’elicottero spunta di nuovo e si ferma proprio sopra la piazza. I ragazzi lo notano, uno di loro gli grida qualcosa in un tono che pare minaccioso, ma il frastuono gli impedisce di distinguere le sue parole. Disorientato, Sergio si mette a correre verso il vicolo più vicino. Quando il rumore cessa di nuovo, controlla che nessuno l’abbia seguito e si ferma a riprendere fiato nell’arcata di un portone. Nelle strette viuzze di pietre scure non filtra neanche un raggio di sole, l’aria improvvisamente fredda gli dà i brividi.

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Sergio riprende a camminare. Mi avranno scambiato per qualcun altro, pensa. Nessuno sa niente. Ma dopo pochi passi si rende conto che le gambe non lo reggono, la testa gli gira. Si trascina verso la prima piazzetta, si siede su una panchina e alza gli occhi in cerca d’aria, ma si ritrova a fissare un volto scuro e severo. Sergio si ritrae, poi riconosce la piazza e il monumento ai martiri dell’indipendenza. Le figure di bronzo sembrano gravate dallo stesso peso che schiaccia il suo cuore, eppure paiono rischiarate dalla luce rosata degli angeli di marmo che le sovrastano. Porgono una corona, ma a Sergio sembra una fascia. La fascia gialla e rossa. L’oro dei trofei. Il sangue degli eroi.

L’eco del corteo che scende lungo la rambla gli giunge alle orecchie. Sergio si alza di scatto e si mette a correre estaticamente verso il rumore, lasciando cadere il cappello e gli occhiali da sole. Stasera stessa chiamerà Josep per dirgli che salta tutto. Ma adesso vuole abbracciare la sua gente, dimenticare i calcoli, prendere il posto che merita. Appena sbuca nel viale, semiaccecato dalla luce, Sergio spalanca le braccia e grida con quanto fiato gli resta:

“Eccomi, fratelli!”

Intorno a Sergio si fa silenzio. Quando comincia a distinguere la scena, la prima cosa che vede è una figura sospesa sopra la folla. Un pupazzo. Ha il numero 5 sulle spalle, ma la sua maglia è bianca, ed è impiccato a una forca di cartone. Sergio abbassa lo sguardo e vede le facce prima esterrefatte, poi deformate dalla furia. Improvvisamente capisce: è un incubo. È il mio senso di colpa. La città deserta, il bambino, l’elicottero. Non c’è altra spiegazione. Poi un altro pensiero gli attraversa la mente. Tira fuori il cellulare e apre il messaggio di Josep:

“È successo un casino. Sanno tutto. Chiamami subito”.

Il cuore gli precipita in fondo alle viscere. Le bandiere si stringono su di lui, coprendo il cielo. Sergio indietreggia ma sa che è inutile, l’azione è già troppo avanti, non riuscirà a ripiegare. La prima pietra lo manca, ma Sergio si lascia cadere lo stesso.