Secondo un gergo antico, chi tentava di saltare il proprio avversario su un campo da calcio si “avventurava” in un dribbling. Di chi invece tendeva a fare del dribbling un uso sistematico e fine a sé stesso si diceva, con chiaro accenno di disappunto, che fosse “innamorato” del pallone. In questo ormai dismesso vocabolario sentimentale, un dribbling era un’avventura, troppo dribbling forse era amore. E troppo amore non poteva andare bene a due allenatori come Sacchi e Capello.
Questo concetto Roberto Donadoni da Cisano Bergamasco, maestro del cosiddetto uno contro uno, lo imparò in fretta, con la stessa velocità con cui un ragazzo di provincia deve adeguarsi per meritarsi le luci della metropoli. Presto fu chiaro che la sintesi perfetta tra fantasia individuale ed esigenze tattiche Roberto avrebbe dovuto rincorrerla e finalmente trovarla sulla fascia.
Per Donadoni la fascia, destra o sinistra che fosse, era un corridoio rassicurante in cui incunearsi, abitato da avversari preoccupati, da affrontare uno per volta, forte della propria padronanza tecnica. Un luogo semplice e lineare in cui la tattica è un meccanismo che si ripete più o meno uguale, con minime varianti. Una cosa meno problematica rispetto a fare il Platini o il Gullit. Da ala basta saper correre, crossare, alternarsi con il proprio terzino nella spinta o nel rientro. Ma soprattutto dribblare.
In questo fondamentale nessuno riuscì a togliere a Roberto Donadoni il posto da titolare. Nonostante gli altri fossero di tre, quattro anni più giovani, esterni esplosivi come Attilio Lombardo prima e Di Livio poi dovettero faticare enormemente. E quanto dovette sentirsi in ombra un gentiluomo elegante come Diego Fuser… In fondo l’unica era aspettare che Donadoni, l’ala più forte dai tempi di Bruno Conti, invecchiasse. Venne il 2000 e Donadoni si ritirò dal calcio, ma nel frattempo gli altri erano già tutti invecchiati, chi prima chi dopo, defilandosi dalla fascia direttamente oltre la linea del fallo laterale, portandosi dietro il tempo delle avventure e, per alcuni, dell’amore.
La tesi con cui Roberto Donadoni si diploma allenatore professionista a Coverciano nella stagione 2001/2002 si intitola Il dribbling e parte da un presupposto elementare:
“Il dribbling è un’azione individuale che si compie in fase di possesso palla”.
Non si può fare un dribbling in tre o in quattro contemporaneamente, in effetti, perché lo fa solo chi ha il pallone e di pallone ce n’è uno solo. Per pochi decimi di secondo, il calcio diventa uno sport in cui uno gioca e gli altri guardano. Eppure il Donadoni allenatore sente di dover porre dei limiti a questa anomalia, a questa frenesia irrazionale che è il dribbling. Bisogna imbrigliarla. Ecco infatti la definizione che detta la linea fondamentale di un ex funambolo rieducato secondo l’etica dell’organizzazione di squadra:
“Il dribbling è la capacità di superare con palla l’avversario e rappresenta una soluzione che, quando riesce, dà un vantaggio immediato: la palla libera e la superiorità numerica; perciò si tratta di un’azione tecnico tattica individuale che ha grande effetto ed incisività sulla tattica collettiva”.
L’ultima frase è addirittura in grassetto. Per non lasciare dubbi sulla superiorità del collettivo rispetto all’estro individuale, poco dopo si legge un altro principio ancora più incisivo, in fondo dettato dal buon senso e conosciuto da chiunque abbia giocato anche solo una partita di calcio a 5 tra amatori. Si trova nel significativo sottoparagrafo Consapevolezza della scelta e Donadoni lo scandisce con molta severità:
“La libertà di poter eseguire un dribbling, infatti, non è un valore assoluto: essa ha dei limiti, determinati dal fatto che in caso di insuccesso non deve emergere una situazione immediatamente pericolosa per la propria squadra; quindi in generale non si deve effettuare un dribbling quando ci troviamo senza copertura alle spalle”.
Lezione valida soprattutto ora che, proprio durante il corso Master a Coverciano, Donadoni ha toccato con mano cosa vuol dire allenare una squadra e avere a che fare con un talento. Siamo nell’autunno del 2001 e la dirigenza del Lecco, un quarto d’ora da Cisano Bergamasco, gli ha affidato la prima squadra, in C1. Il talento interessato alla tesi di Donadoni è De Zerbi, stellina fioca ed intermittente degli anni Duemila. Qualche raro numero da funambolo, ma troppo fiducioso nel suo ruolo da trequartista-seconda punta per considerare Donadoni come un modello da imitare. E troppo pigro per leggersi la sua tesi.
Meglio virare su un certo Simone Pepe, piuttosto, un ragazzino svelto di gamba che punta dritto alla porta ma partendo dalla fascia. Anche lui non sembra avere molta voglia di leggere, ma gli esercizi in allenamento li svolge con cura, quasi con foga. Donadoni lo studia attentamente, elabora un sistema di gioco abbastanza offensivo che si impernia su un uomo di esperienza e fosforo come Mario Bortolazzi, agli sgoccioli di carriera. Il Lecco gioca in modo convincente, ma alla fine i risultati non arrivano e Donadoni viene così esonerato prima ancora di finire il suo corso Master. Mentre il suo successore Scanziani si prepara a sostituirlo, Donadoni ha il tempo di dichiarare: “Certo, ci mancava qualche punto in classifica ma non solo per nostro demerito. Soprattutto a causa di qualche situazione sfavorevole come la traversa di Cavalli domenica e quel rigore sacrosanto negatoci dall’arbitro. Peccato perché penso di aver dato una certa fisionomia alla squadra e quindi pensavo di poter costruire qualcosa di buono. Invece il giocattolo si è rotto. Di momenti difficili nella mia carriera ne ho passati e quindi cercherò di superare anche questo”.
Quello che a De Zerbi mancava, forse, tra le altre cose, era quanto descritto nelle parti della tesi relative alla Personalità dell’individuo, fondamentale prerequisito per l’applicazione del dribbling alla tattica collettiva. Esso consta, secondo Roberto, di tre elementi: controllo emotivo, fiducia e responsabilità.
Il primo consiste nello scegliere il momento più opportuno della gara per dribblare, focalizzandosi unicamente sull’obiettivo di superare il proprio avversario. La fiducia, più delicata, è quella sensazione di calore quasi materno che deve percepire chi compie il dribbling, attore solo in scena. Deve essere sicuro che i compagni lo sostengano e sappiano sempre che lui è lo specialista del dribbling, il più bravo e il più bello di tutti. Sempre e per sempre.
La responsabilità, quella spina sempre presente nel cuore di chi si vorrebbe avventurare troppo e non può, costituisce il limite fondamentale e necessario alla fiducia. La squadra si fida di te, ma se esageri ti molla.
Questi concetti erano piuttosto chiari a Luca Vigiani, ala del Livorno, seconda tappa della carriera da allenatore di Roberto Donadoni. Il suo rapporto con la squadra toscana avrà due round: il primo con un dignitoso piazzamento in B, pochi mesi dopo il conseguimento del diploma a Coverciano e con giocatori validi come Protti, Marco Negri, un commovente rendez-vous a centrocampo tra Ruotolo e Bortolazzi (cuori rossoblu over 35) e persino un diciassettenne Chiellini in difesa; il secondo, dopo una parentesi mai cominciata al Genoa, direttamente in serie A. Qui, oltre a Protti all’ultima stagione prima dell’addio e a Lucarelli che sarà anche capocannoniere del campionato, c’è appunto l’apporto del valido Luca Vigiani, pregevole esempio di ala destra di ottima gamba e buona tecnica individuale al servizio di un sistema di gioco collettivo. Uno come Vigiani nessuno si è mai sognato di proporlo alla nazionale perché sul più bello tendeva a sparire, salvo poi diventare una colonna delle ripartenze, dei cross, degli inserimenti. Tutto in piccolo, naturalmente, senza evocare grandi modelli del passato. Ma a Donadoni quel basso profilo piaceva molto. Dal canto suo, in allenamento, a Vigiani piaceva fare un esercizio di coordinazione che il mister aveva anche descritto nella sua tesi, chiamandolo Combinazione e accoppiamento.
Bisognava partire da due vertici di un quadrato immaginario, costituito ad hoc dal visionario mister, poi correre al centro, saltare vicini, spalla contro spalla, atterrare senza farsi male, fare una capriola e lanciarsi a caccia di un pallone: il primo che arrivava tirava in porta. Farina del sacco di Donadoni e delle sue ricerche a Coverciano. Vigiani probabilmente primeggiava nella prima parte del giochino, ma di certo Protti lo bruciava in furbizia. Furbizia che, in fondo, e il grande limite di Luca.
Per Donadoni la seconda esperienza livornese si conclude con un altro esonero, ancora più amaro. Al presidente Spinelli manca la fiducia. Donadoni deve tornare a guardare le partite dalle tribune, col telefono sempre acceso e lo sguardo che ostenta serenità. Può ripassarsi intanto la sua tesi e considerare che nei suoi primi quattro anni di panchina non è ancora riuscito ad avere un talento vero, qualcuno a cui trasmettere tutti i suoi segreti di ala, funambolo, dribblomane. Tanti uomini di sostanza, solidi, senza la febbre dell’avventura. Come si faceva a spiegare certi pruriti a gente come Passoni, Galante e Danilevicius?
Fondamentale per la riuscita del dribbling, si legge ancora nel lavoro dell’allievo tecnico, è il senso del ritmo, inteso come esatta successione e sincronizzazione dei movimenti in campo. A questa abilità è legata una competenza che diventa vitale per la carriera incagliata di Mister Donadoni.
“Adattamento e Trasformazione: permette di adattarsi ad una nuova situazione modificando, rapidamente, un piano d’azione previsto con uno più efficace”.
La telefonata di un Albertini in veste federale che conduce Roberto Donadoni direttamente dai raddoppi di marcatura di Giallombardo e Pfertzel alla gestione dei campioni del mondo in carica è stata più volte descritta come sorprendente. Ma per Donadoni, in senso calvinista, non è stato che un premio, meritato, per le proprie scelte di vita. La vetta per lui si conquista dal basso, possibilmente partendo dalle sponde del fiume Adda. Ed è per questo che il suo debutto come CT della nazionale italiana reduce dal trionfo mondiale in Germania e da voci di scandali relativi ai rapporti tra Juve, Milan ed alcuni arbitri corrotti viene bagnato da una formazione che più provinciale proprio non si poteva, del tutto priva di campioni affermati, di cui vale la pena recitare l’undici iniziale, come fosse un incantesimo:
“Amelia; Zenoni, Falcone, Terlizzi, Chiellini; Ambrosini, Liverani; Mauro Esposito, Gennaro Delvecchio, Rocchi; Cristiano Lucarelli”.
Più Totò Di Natale, che presto sarà il cavallo su cui punterà, che scalpita in panchina. Donadoni trasuda il desiderio di cambiare pelle, la foga incontrollabile di esprimere finalmente tutto il suo calcio: poter scegliere i migliori in tutti i reparti. Lo schema di riferimento è il cosiddetto “albero di Natale”, ideato forse apposta per regalare alle sue amate ali un ruolo da protagonista, spiccatamente offensivo, ma responsabili.
L’esercizio più rivelatore del paragrafo relativo ad Adattamento e Trasformazione è raccontato con dovizia di particolari e corredato con uno schemino chiarificatore, secondo l’uso frequente di questo genere di tesi a Coverciano. È un chiaro esempio del bisogno di insegnare, di trasmettere, di plasmare i propri emuli:
“Due giocatori, uno davanti all’altro. Il primo esegue un percorso di guida della palla, mentre il secondo deve imitarlo nel tempo, nel ritmo di esecuzione, nella direzione ecc. Ad un segnale prestabilito il secondo giocatore ferma la palla e cerca di rubarla al primo giocatore che eseguirà un 1contro1 per andare al tiro”.
Facile immaginare il primo allenamento: Bortolazzi fa l’istruttore-allenatore, Roberto fa la guida, Mauro Esposito l’allievo che deve rubargli il pallone. Poi maestro e allievo si invertono le parti.
Il risultato non è un granché. Esordio con umiliante sconfitta contro la Croazia. Ritornano dalle vacanze i campioni e bisogna fargli posto. Ma Donadoni non smette di cercare. Vuole godere con quelle ali che ha in mente. Vuole volare. Rimette il dribbling e la tecnica individuale al centro del suo progetto, con il recupero del grande talento di Antonio Cassano al quale sarà sempre legato da un rapporto silenzioso ed ostinato. Passa in rassegna tanti prototipi di ali: il piccolo Marchionni contro la Lituania, Franco Semioli (una versione lambrusco e pop corn di Fuser e Vigiani) contro la Francia, poi ripropone Camoranesi, imposto dalla stampa come simbolo mundial. Tocca l’apice quando si lancia in un fallimentare esperimento contro il Sudafrica con Pasquale Foggia e Rosina, scalpitanti in campionato, a cui alterna di nuovo Semioli, che evidentemente gli piace molto. Ma non c’è verso, i risultati sono discreti ma non esaltano e il gioco latita. Gli esercizi sui dribbling si diradano. Bisogna essere pratici, tenere a dritta la barra. La sua tesi finisce nel cassetto, mentre piovono sulla scrivania contestazioni, stralci di interviste piccate e fraintese, pressioni federali, pretese di vincere gli Europei, rigori sbagliati. Anzi il rigore sbagliato.
Contro la Spagna, dopo il celebre 0-0 in 120 minuti che Donadoni in futuro rivendicherà come un grande successo visto il valore degli avversari, sbagliano Guiza per le Furie Rosse e De Rossi per i compassati azzurri. Un buon Cassano è stato sostituito, il rigore decisivo lo tira Di Natale. La storia è nota, Di Natale manda l’Italia a casa. Camoranesi e Grosso, eroi lippiani, il loro invece lo avevano segnato. Donadoni se ne va mentre tutti gli riconoscono frettolosamente la difficoltà del suo incarico, l’educazione dimostrata, la confusione creata dalla sua ossessione per le ali offensive per poi proporre un campionario di centrali in mezzo al campo nelle partite decisive. Arrivederci Semioli, Vigiani, Fuser, Marchionni, Foggia e Rosina.
Il Mister 1contro1 se ne va, 1controtutti.
Rimasto solo, Donadoni si gode per un po’ la fama di ex C.T. incompreso e, di fatto, entra nella lunga malinconica lista dei buoni allenatori liberi, tipi da salvezza o, perché no, da metà classifica, un traghettatore di lusso. In questa veste si presenta sulla panchina del Napoli, con cui conclude la stagione 2008/2009 e assaggia appena quella successiva, provando a dare due cenni di dribbling al volo, senza troppa convinzione, a personaggi oscuri come il galoppatore Daniele Mannini e un illusorio Jesus Datolo che, al pari di un altro grande “minore” di quegli anni napoletani, Ignacio Pià, toglieranno alcune castagne al fuoco dal complicato calderone di esperimenti rimesso in piedi dal tecnico di Cisano Bergamasco.
La parte più filosofica e corposa della tesi è racchiusa nei lapidari paragrafi che chiudono le tappe di apprendimento del gesto tecnico del dribbling: Valutazione spazio-temporale e Anticipazione.
Saranno due grandi stampelle concettuali per il suo periodo cagliaritano, felice e pieno di sorprese.
“La valutazione spazio-temporale permette l’esatta percezione delle traiettorie e della velocità della palla”.
“Anticipazione: consente di intuire lo sviluppo dei movimenti dei giocatori e della palla”.
Apparentemente banali, sono due pensieri che affondano nel profondo bisogno del Donadoni-allenatore di controllare l’animo umano di chi compie il dribbling. Niente deve essere lasciato al caso. La palla deve essere percepita con esattezza matematica, immagine assai poco conciliante con il folle volo di un dribbling. Chi compie questo gesto così geometrico, con tanto di schemi raffiguranti rettangoli e triangoli e linee tratteggiate, deve possedere anche un sesto senso, profetico, impossibile da ottenere senza la perfetta conoscenza della tattica del proprio allenatore, che predispone tutto affinché i suoi giocatori possano sviluppare le loro competenze.
È un mondo perfetto, dove tutto funziona, ma solo se si segue il tecnico. Una macchina. Come sarà una macchina il Cagliari.
Matri e Cossu saranno quasi telecomandati da Donadoni. Il primo è una punta giovane che si adatta anche a fare il corsaro di fascia in appoggio ad Acquafresca pur di sfondare in serie A. Il secondo rivive una terza o quarta giovinezza defilandosi e sgusciando con pieno senso della responsabilità e fiducia della squadra.
Donadoni sa di avere leggermente snaturato Cossu che è nato come uno Zola e invecchia come un centrocampista offensivo in cerca di identità, ma sa anche che il piccolo grande talento di Cossu è ormai un concentrato di umiltà e rassegnazione in un corpo di professionista: si adatterà con educazione e disponibilità a ogni cosa che dice Donadoni. A loro presto si aggiungerà Missiroli, ragazzo enigmatico, insoddisfatto, sprecato sulla fascia, sprecato in attacco, inespresso e frainteso come pochi. Ma con un’intelligenza tecnica e tattica che sembrava presa pari pari dal capitolo 2 della sua tesi, quello sui prerequisiti. Con uno come Missiroli viene voglia di rivivere l’entusiasmo degli esercizi sognati anni prima. Ma il tempo è poco, una stagione passa presto e Donadoni, memore degli esoneri passati, acquisita ormai autorevolezza, lascia lui per primo, a fine anno, con la correttezza con cui vuole solitamente essere ricordato. Valutazione spazio-temporale. E anticipazione.
Comincia il regno nel Ducato di Parma. Qui la storia si fa recente. Il tecnico, ormai lontano dall’albero di Natale, è diventato moderno, funzionale, senza mai rinunciare all’idea di proporre un calcio d’attacco ma responsabile, creativo ma nei ranghi, in linea con quello che si chiede a una realtà di provincia, defilata sulla fascia rispetto ai Gullit e ai Platini della serie A. In quel formicaio di brillantezza che Parma sembrava tornare a essere, Donadoni costruisce un castello assai caratteristico, da cartolina, poggiato però su insospettabili sabbie mobili.
Il suo unico obiettivo di allenatore, a questo punto, è imbrigliare il talento, trasformare il romanticismo in illuminismo, uccidere il chiaro di luna. Regolare l’individuo in un ingranaggio. Esaltare l’organizzazione di gioco. Persino Valdés e Marchionni (un ritorno di fiamma) diventano sorprendentemente registi in una metamorfosi fatta di tecnica, passo breve, verticalizzazioni e lavaggio del cervello. La sfida è diventata Antonio Cassano, che non è un’ala e non lo sarebbe stato mai nemmeno se, con le stesse qualità tecniche, fosse nato a Cisano Bergamasco in una famiglia borghese e cattolica. Eppure è proprio con Cassano che la tesi di Donadoni raggiunge paradossalmente la sua perfetta applicazione, la massima aspirazione per un intellettuale che vedesse effettivamente messe in pratica le sue idee più sfrenate, andando così in crisi piena.
Cassano, senza naturalmente aver letto né saputo nulla degli studi del suo allenatore di dieci anni prima, ha interpretato nel Parma il senso profondamente collettivo di chi si accinge a compiere un’azione individuale, saltando l’uomo. Se Donadoni nella tesi sostiene che “è ovvio che carenze di tipo coordinativo sono difficilmente recuperabili dall’atleta adulto, per quanto evoluto dal punto di vista fisico e tattico”, Cassano dimostra l’esatto contrario, che cioè un artista del dribbling, spesso fuori forma, fa fronte alla propria carenza fisica reagendo in modo creativo. Per il costante rischio di perdere il pallone, infatti, è costretto a liberarsene prontamente, sviluppando così un brillante istinto da uomo-assist. E lo fa in modo imprevedibile, coniugando estro e generosità. Per qualche motivo poco comprensibile, la mancanza di atletismo di Cassano lo aiuta ad essere più utile per la squadra, con grande stupore di Donadoni.
Donadoni prepara accuratamente le tappe per il consolidamento del dribbling come fondamentale, scomponendolo in fasi come ritmo, orientamento, reazione motoria e le altre già citate. Antonio Cassano, pur senza alcuna applicazione in allenamento, incarna il risultato finale dello studio del suo allenatore, riassunto nel concetto di “fantasia motoria, che permette di utilizzare efficacemente tutti i movimenti presenti nella propria memoria, esprimendo un proprio stile personale e la necessaria imprevedibilità”. Dieci anni prima, mentre assisteva ai blandi ritmi lecchesi di De Zerbi, Donadoni aspettava Cassano senza saperlo.
A leggere e rileggere la tesi, in effetti Antonio Cassano parrebbe essere (stato?) il più grande interprete del dribbling in senso Donadoniano in serie A e forse anche l’erede ideale del Donadoni giocatore, pur caratterialmente all’opposto. Si potrebbe giustamente obiettare che Cassano non ha mai avuto un istinto da ala, ma è altrettanto vero che, in certi momenti ben noti a chi ha seguito con attenzione Cassano negli anni e nelle sue varie versioni, il talento barese tendeva spesso a defilarsi, ad allargarsi, soprattutto quando le cose in partita non andavano molto bene. Cassano andava a cercare istintivamente rifugio in un corridoio, un posto più piccolo, più controllabile, alla ricerca per lo meno di avventure, in un rettangolo di gioco violento, da cui è stato bandito il sentimento più spontaneo, quello imparato sulla strada e odiato da tutti quelli che non lo conoscono: l’innamorarsi del pallone.
POSTILLA:
Nel calcio di Donadoni la fanno da padrone schemi ordinati, attacchi ben regolati, equilibri oliatissimi. Ma nel calciatore che rinunciò all’anarchia per rientrare nei ranghi furoreggia ancora la splendida carrellata di dribbling, che da aspirante allenatore prova, forse divertito, ad elencare alla fine della sua tesi, come una litania misteriosa di un repertorio quasi del tutto perduto.
-Taglio di interno ed esterno
-Forbice semplice di interno ed esterno
-Richiamo della palla a 180 gradi e forbice composta
-Affondo e doppio affondo
-Sospensione e ripartenza
-Giravolta
-Forbice a rientrare di 180 gradi e forbice composta
-Doppia forbice e suola con forbice
-Cambi di direzione con palla dietro la gamba di appoggio
Giocatori dotati di dribbling a cui Donadoni avrebbe potuto far leggere la sua tesi:
ALI: Vigiani, Esposito, Marchionni, Semioli, Camoranesi, Esposito, Foggia, Rosina, Mannini, Datolo, Biabiany, Rodriguez-Varela, Missiroli, Pepe
TREQUARTISTI CENTRALI: Mauri, Aquilani, Perrotta, Valdes, Cossu, Lazzari
PUNTE: Palladino, Cassano, Del Piero, Pià, Giovinco, Di Natale, Di Michele, Lavezzi, De Zerbi
A quanto si dice, ma forse non è vero, El Cebolla Rodriguez ne ha una copia sul comodino, foderata in pelle e due lacrime come dedica. Un ricordo di un’avventura.
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