Dejan Savicevic, due notti

Dejan Savicevic, due notti
7 Settembre 2015 scat

Non esistono prove né testimonianze precise. Nessuno sa quando sia accaduto esattamente, ma in fondo, a pensarci bene, non è difficile indovinare. È stato – molto probabilmente, quasi certamente – la sera del 19 novembre 1991, in quella che doveva essere la partita d’andata e che invece è stata la partita unica della Supercoppa europea. Manchester United contro Stella Rossa di Belgrado, finale secca giocata all’Old Trafford perché in quel momento a Belgrado era molto meglio non giocare. Finale secca per forza di cose in un tempo in cui le cose si facevano per bene, andata e ritorno e si giocava durante la stagione. Un tempo beatamente lontano dalle cafonate estive in Georgia o Repubblica Ceca e lontano anche dalle famigliole che si fermano a fare una foto ricordo davanti alle rovine della torre dell’acquedotto di Vukovar. Probabilmente, quasi certamente, è stato quella sera.

Due giorni prima il nuovo Milan aveva battuto senza troppi problemi la Sampdoria campione in carica, a Marassi, grazie a una doppietta di Ruud Gullit. Berlusconi aveva visto il suo Milan in fuga. Gullit sembrava rinato e tornava a incarnare il miraggio del numero dieci del futuro, potenza e furia imprevedibile, gamba e cannonata. Poi però era arrivato quel 19 novembre, la sera in cui – dev’essere per forza andata così – Berlusconi si è seduto davanti alla tv e ha visto la Stella Rossa giocarsi la penultima finale internazionale della sua storia e Dejan Savicevic giocare la migliore partita della sua carriera. Due fatalità, queste, che Berlusconi non conosceva e non poteva conoscere. Sapeva invece che il suo Milan aveva battuto la Samp ed era in fuga verso lo scudetto, ma ancora, come dall’inizio della sua presidenza, non aveva un vero numero 10.

Sul campo di patate dell’ Old Trafford, in un umido autunno inglese in cui faceva freddo e nessuno sapeva se l’anno successivo ci sarebbe stato ancora un campionato jugoslavo (probabilmente no, effettivamente no), Dejan Savicevic fece innamorare perdutamente Berlusconi e tutti i tifosi milanisti che per caso o per passione stavano guardando la partita. E chissà quanti, vedendolo, avranno pensato che due anni prima, nel famoso ottavo di finale di Coppa Campioni giocato in tre partite, Savicevic aveva anche segnato il gol dell’1-0 che avrebbe qualificato la Stella Rossa se non ci fossero stati la nebbia, la sospensione al 67’, la decisione di rigiocarla il giorno dopo partendo da 0-0, il recupero miracoloso di Gullit e l’errore dal dischetto proprio di Savicevic. Ma allora era ancora troppo presto.

Il momento giusto – quasi certamente, dev’essere andata per forza così, impossibile pensare il contrario – è stato il 19 novembre 1991. Da una sfida che doveva essere andata e ritorno e poi invece è stata andata e ritorno e ri-ritorno a un’altra che doveva essere di andata e ritorno e poi invece è stata di sola andata, secca, senza ritorno. Ma è bastata ed è avanzata. Una classica partita degli anni ottanta, perché gli inglesi sono sempre gli inglesi e qualsiasi cosa facciano sembrano farla negli anni ottanta. O forse perché le movenze di Savicevic sono della stessa sostanza di  quelle di Maradona e Zico, costantemente ostaggio di repentini cambi d’idea e di direzione. Tra una zolla e l’altra le intuizioni d’occhio e di pensiero disegnano linee miste, a volte acuminate, altre curve. La corsa e le traiettorie del pallone si somigliano, quasi coincidono. Savicevic  tocca il pallone con tutte le parti di entrambi i piedi, dal tacco del sinistro alla punta del destro, cercando sempre un angolo imprevedibile, nascosto a tutti gli altri.

Quella sera Berlusconi si ammalò d’amore per Savicevic anche se alla fine Savicevic la partita la perse, e per giunta la perse per un suo sciagurato errore davanti alla difesa che spianò la strada al solito gol rimpallato degli inglesi. Berlusconi portò Savicevic al Milan e migliaia di milanisti si ammalarono della stessa malattia del loro presidente. Tutti i milanisti, fin dal primo momento e quale che fosse quel primo momento (per molti, sicuramente, il 19 novembre) intuirono che c’era qualcosa di straordinario in lui, qualcosa che nonostante i trionfi degli anni precedenti loro non avevano ancora avuto. Il 10. Il genio.  Per questo lo hanno amato senza condizioni e hanno aspettato senza nemmeno sapere cosa aspettavano. Poi, due anni dopo il suo arrivo, in una serata ateniese, hanno capito cosa stavano aspettando. Da lì in poi, come è giusto che sia, è stata soltanto gratitudine.