Bollicine: il calcio di Gigi Maifredi

Bollicine: il calcio di Gigi Maifredi
20 Gennaio 2016 diego cavallotti

Cologno Monzese, 10 gennaio 2010. Ore 23.00. L’atmosfera negli studi di Mediaset è tesa. Ciro Ferrara, in collegamento da Torino, tiene bassi gli occhi con l’animo ferito di chi non riesce ad accettare la propria inadeguatezza: si guarda intorno, capisce di aver bisogno di un pretesto, solo di un pretesto. Qualcuno che possa incarnare tutto l’odio che prova nei confronti di se stesso, della Juventus, di queste interviste in cui è obbligato a mantenersi calmo e compito. In sottofondo sente una voce baritonale dall’accento bresciano. È Gigi Maifredi. Ferrara non prova una particolare simpatia nei suoi confronti. Forse perché da un anno va in giro a dire che questa squadra, a livello di valori individuali, è molto più forte della sua Juventus, sottintendendo che è l’allenatore a non capirci niente. Forse perché, quando parla del centrocampo della stagione 1990/1991 e nomina Ciccio Marocchi, allarga gli angoli della bocca in uno stupido sorriso di autocommiserazione. Forse perché continua a ripetere di essere stato, nella sua stagione in bianconero, mediaticamente maltrattato, mentre Ranieri prima e Ferrara poi sono stati sempre aiutati dalla stampa. Il loro dialogo rivela fin da subito una mancanza di stima che si tramuta velocemente in insulto: Ferrara chiede polemicamente a Maifredi quale squadra alleni e Maifredi, scaldandosi, zittisce l’allenatore juventino dandogli ironicamente del “fenomeno”.

La puntata termina, le luci si spengono; Maifredi, però, rimane incollato alla sedia. Nonostante l’atteggiamento spavaldo, l’ultima frase lo ha colpito. Quella domanda, al contempo maliziosa e disperata, continua a ripetersi nella sua mente. “Da quanti anni non alleni, Gigi?”. Ormai aveva smesso di tenerne il conto. L’ultimo incarico risaliva al 2000, ma dopo quella mezza stagione alla Reggiana in C-1 nessuno l’aveva più cercato. Per un anno aveva anche lavorato in televisione per “Quelli che il calcio…”: allenava una squadra immaginaria, il Maifredi Team, formata da ex-calciatori imbruttiti e sovrappeso che mimavano le principali azioni da gol della giornata. Una sorta di moviola vivente e grottesca. Poi, nel 2009 era arrivata la nomina alla direzione tecnica del Brescia, anche se, in fondo, non contava molto. Che cosa ne sa, infatti, il dirigente dell’odore della canfora e dell’erba appena tagliata? Che cosa può dire del dolore che si prova in panchina insieme ai giocatori e al proprio staff quando la squadra avversaria segna? E dell’attaccante che dopo il gol ti viene ad abbracciare anche se, in realtà, nutre nei tuoi confronti un disprezzo ricambiato?

Franco Ordine, che ha assistito al litigio, si avvicina a Maifredi facendogli notare che la trasmissione è finita. L’allenatore di Lograto sembra svegliarsi da un lungo torpore: gli sorride come si sorride a premure invadenti e si alza lasciandosi dietro, sul megaschermo dello studio, un fermo-immagine del volto al contempo torvo e tronfio di Ferrara.

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Poche ore dopo Maifredi sta tornando a Brescia. L’A4 è una manifestazione plastica dell’inferno. Il buio di una notte padana senza nebbia può essere tanto inquietante quanto una giornata nebbiosa. Poco prima di Bergamo decide di fermarsi in una stazione di servizio. L’amarezza con cui ripensa alle parole di Ferrara non lo abbandona.

All’interno dell’autogrill il sopore del turno di notte è una patina appiccicosa che imbratta porte, pareti e bancone, che unge lo spaccio con i pupazzetti di Hello Kitty, l’ubriaco che parla in russo davanti a un bicchiere colmo di grappa e anche Sheila, la barista in sovrappeso dai capelli ricci e radi che sta contando le monete da due euro in cassa. Maifredi entra nel bar della stazione e ordina un bicchiere di Veuve Clicquot Rich Vintage. Era da un po’ che non beveva lo champagne dell’azienda per cui aveva lavorato da giovane, anni prima di diventare allenatore professionista. Sheila, però, sembra non avere idea di cosa sia il Veuve Clicquot Rich Vintage. Maifredi, senza neanche guardarla negli occhi, le dice semplicemente: “Dammi un po’ di bollicine. Fai tu”.

Mentre attende il servizio, Gigi guarda l’ubriaco che sta ballando sul posto, muovendo a caso le braccia. Cerca di intercettare il suo sguardo e, non riuscendoci, gli si avvicina. L’odore di grappa è percepibile a un metro di distanza, ma Maifredi non se ne cura. Ha bisogno di parlare con qualcuno, non importa che sia abbastanza lucido da poter capire. Si deve sfogare, deve vomitare addosso a qualcuno le frustrazioni di vent’anni prima. “Non mi hanno cacciato dalla Juve” dice “me ne sono andato io. Montezemolo non c’era mai. E poi non mi aveva scelto lui. Mi avevano preso l’Avvocato e Boniperti”. Il russo ubriaco lo guarda per un attimo e, subito dopo, ricomincia a ballare. “Me ne sono andato io quando ho capito che la società era divisa tra bonipertisti e montezemoliani: un giorno a fine dicembre del 1990 stavo cercando di tenere la squadra in riga e poi scopro che la società ha organizzato una festa per i giocatori. Il mio rapporto con la dirigenza è finito in quel momento”.

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Sheila richiama l’attenzione di Maifredi: le bollicine sono pronte. Non si tratta però di champagne, ma di Coca Cola. Gigi la guarda deluso. La barista risponde che la Coca Cola era l’unica bevanda con le bollicine rimasta nel frigo. L’ex-allenatore prova a imbastire un discorso anche con lei che, peraltro, non fa nulla per nascondere il proprio disinteresse. “Avevo chiesto lo champagne” riprende Gigi “perché, quando allenavo, dicevano che il mio calcio frizzava come uno champagne. In realtà lo dicevano per prendermi in giro. Prima facevo il rappresentante per gli champagne Veuve-Clicquot, mica gli spumanti Ferrari”. Sheila lo guarda vagamente preoccupata: è l’ennesimo matto della serata. Un’altra grana, dopo il russo ubriaco.

“Va bene, se non ci sono le bollicine vere mi prendo queste, così arrivo fino a Brescia senza colpi di sonno. Anche se gli incidenti sono la storia della mia vita, lo sai? Quando mi chiamarono alla Juve potevo avere una squadra migliore. Il problema è sempre stato il centrocampo. Tu non sai quante volte ne ho parlato con l’Avvocato. Io all’inizio volevo Dunga. Così avrei avuto Dunga, De Agostini, Haessler e Marocchi. Poi mi hanno detto che Dunga sarebbe venuto solo se gli davamo quello che prendeva Baggio. E allora ho fatto il discorso che avrei fatto con Corioni al Bologna: lasciamo perdere, Presidente, faccio con quello che ho. Sono stato stupido”.

Intanto Sheila s’è già voltata a pulire la macchina del caffè. Tra poco finisce il turno e se trovano il ripiano sporco le fanno un richiamo formale. Maifredi, invece, ha ancora voglia di parlare.  “C’è poco da fare” prosegue abbassando gli occhi “il mio calcio era eccezionale. Nei tre anni a Bologna dal 1987 al 1990 sono stato lasciato completamente libero di sperimentare. E i risultati si sono visti. Ho preso giocatori come De Marchi e Luppi e li ho fatti diventare due dei migliori difensori italiani. In attacco sono riuscito anche a rivitalizzare quel bisteccone scaduto di Bruno Giordano. Con gli stranieri, invece, ho sempre sbagliato. Nel 1988 sono venuti due cileni a fare un provino: il primo, Hugo Rubio, mi è piaciuto tantissimo. Secondo me aveva la classe di Maradona. L’altro lo scartai: era Ivan Zamorano. Ma forse è stata la scelta migliore. Se avessimo tenuto Zamorano, Ivan forse non sarebbe mai diventato un campione”.

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Maifredi sorseggia la sua Coca Cola. Le bollicine scoppiano immediatamente a contatto con il palato, vellicandolo e preparandolo al gusto dolciastro della bibita. Per un attimo, specchiandosi sul bordo traslucido della macchinetta del caffè, pensa “Dio santo, quanto sono vecchio”, ma questo barlume di autocoscienza viene immediatamente schiacciato da un’altra riflessione: “Beh, Sacchi però è invecchiato peggio. Quando lo fanno parlare in televisione sembra un vecchio rincoglionito. Mi ricordo ancora quando tutti parlavano della sua zona. Ma nessuno ha mai detto che era una copia sbiadita della mia. Al confronto col mio modulo, il suo era per pensionati. In quella zona c’era solo ordine, c’era solo geometria. Non c’era velocità o desiderio. Nella mia sì, ma di questo non è mai fregato niente a nessuno. Solo all’Avvocato importava qualcosa”.

Maifredi cerca di nuovo Sheila che, però, si è ritirata nella cucina a preparare i panini per i camionisti che viaggiano di notte. Prova ad alzare la voce, sperando che al di là della parete in cartongesso ci sia qualcuno ad ascoltare: “L’Avvocato mi voleva bene. Voleva farmi allenare la Juve già nel 1988. Io però avevo un accordo con Corioni e non potevo abbandonare il Bologna. Quando il contratto è scaduto Agnelli e Boniperti mi hanno offerto un triennale, ma l’ho rifiutato. Mi davano la possibilità di crescere e far crescere la squadra, ma io dissi di no: chiesi solo un anno perché volevo dimostrare di essere superiore. È stato il mio più grande errore. Arrivai settimo, ma l’anno successivo avrei sicuramente vinto. Perché l’Avvocato non mi ha più chiamato? Perché ha lasciato che tornassi a Bologna? Se fossi ancora in sella con questa Juventus vincerei a mani basse”.

Maifredi si riprende dal soliloquio e si guarda intorno. Non c’è più nessuno. D’improvviso, dietro di lui, spunta il russo ubriaco. Maifredi stenta a riconoscerlo perché i suoi tratti si confondono, ora, con quelli di Ciro Ferrara. “Gigi da quanto non alleni una squadra?”. Maifredi cede al panico. Cerca aiuto, ma, vedendo solo le grate abbassate che separano il bar dal negozio e l’indicazione per le toilette, decide di scappare fuori. Si fionda verso l’auto senza pagare la Coca-Cola, mentre Sheila, che ha visto la schiena flaccida del mister sgusciare attraverso la porta a vetri, lo rincorre. Gigi entra in macchina, mette in moto e parte. Dalle casse dell’autoradio parte ad altissimo volume “Bollicine” di Vasco Rossi. Sheila rimane lì, in mezzo alla piazzola di sosta, pensando che dovrà restituire ad Autogrill S.p.A. i due euro e cinquanta della bibita.