Alberto Malesani: una vita da pioniere

Alberto Malesani: una vita da pioniere
27 Maggio 2015 Johnny

Produrre vino è un arte che permette all’uomo di vivere la terra in modo più diretto, più autentico. È un lavoro duro, che richiede grande attenzione, dal quale si ricavano molte soddisfazioni, perché ogni vite è diversa dall’altra, è un essere umano con la sua storia da raccontare.
Alberto Malesani 

Il vino gira nel bicchiere creando un piccolo vortice in senso orario. La pratica di roteare il calice prima di bere gliel’ha insegnata Lorenzo, l’enologo della sua casa vinicola nell’alta Val Squaranto. “In questo modo il vino sprigiona i suoi aromi” gli ha spiegato. Alberto Malesani ha preso l’abitudine di compiere ogni giorno questo rito e di perdere lo sguardo dentro al bicchiere. Osservando il liquido girare vorticosamente pensa a quando era ragazzo, ai primi amori, al sorriso delle figlie. Spesso tra le onde rosse dell’Amarone, quasi come un’ossessione che non lo vuole abbandonare, scorge un campo di calcio.

Malesani non ha mai smesso di credere di poter allenare ancora ad alti livelli, anche ora che il mondo del calcio sembra poter fare a meno di lui. Ha sempre avuto fiducia nelle proprie capacità, in fondo si reputa qualcosa in più di un semplice allenatore. Quando nel 1993 divenne tecnico del Chievo in C1 e poi in B, fu il primo manager “all’inglese” del calcio italiano. Oltre a guidare la squadra, stilava i contratti dei calciatori e gestiva gli acquisti: nessun allenatore in Italia lo faceva. È grazie a lui se il Chievo è diventato quello che è oggi, ne è convinto. Poco importa se oggi è odiato dalla tifoseria clivense, quando nel 2001 ha accettato la panchina dell’Hellas sapeva che si sarebbe fatto dei nemici in città. Malesani quell’anno portò il Verona in B. All’ultima giornata sarebbe bastato un pareggio con il Piacenza, invece perse 3-0. Fu la sua prima retrocessione.

Le ombre sulle vigne al tramonto diventano prima gialle poi rosse per poi sprofondare nell’oscurità della sera. È quello il momento preferito di Malesani, in cui si siede nel patio e osserva la calma della natura sprigionarsi in tutta la sua potenza e tranquillità. Alla Fiorentina nel 1997 allenava Rui Costa, cercando di inculcargli i tempi giusti per trasformarlo in un centrocampista centrale. Spesso litigava con Edmundo: o’animal era stanco di sedere sempre in panchina. Ora invece gli unici animali che popolano la sua vista sono i fringuelli che cinguettano su un mucchio di legna poco distante. Senza farsi sentire dagli altri ogni tanto prova a imitarne il fischio, sperando di richiamare la loro attenzione. Stormi di rondini volano coordinate. Lontane nel cielo rossastro compongono in formazione traiettorie che richiamano gli schemi del suo modulo preferito, il 3-4-3.

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Ricorda sovente una frase di Simon Bolivar letta in qualche libro di cui non ricorda il titolo: L’arte di vincere si impara nelle sconfitte. Spesso l’ha usata nello spogliatoio per risollevare il morale della squadra reduce da una partita persa. Nella sua carriera però è stato più vero l’assioma contrario: l’arte di perdere si impara dalle vittorie. Quando a Parma nel 1999 vinse Coppa Italia, Supercoppa Italiana e Coppa Uefa, si sentì contestare da parte della tifoseria la mancata conquista del campionato, chiuso al quarto posto. La squadra di quegli anni avrebbe oggettivamente potuto competere anche per la vittoria del tricolore, tuttavia Malesani ritiene che l’astio nei suoi confronti sia ingiustificato. Forse furono i litigi con Asprilla e Veron o le sue esultanze spropositate a minare l’ambiente. In fondo dopo di lui il Parma ha vinto solo una Coppa Italia ed è pure fallito per la seconda volta in dieci anni. Eppure quegli ingrati della curva celebrano ancora Prandelli e intonano cori contro di lui. “Ma cosa ha vinto Prandelli con il Parma? Confrontate i palmares, cazzo” dice a bassa voce tra sé.

I terreni collinari, calcarei e ventilati sui quali lui e le sue figlie hanno fondato l’azienda vinicola La Giuva (acronimo dei nomi delle figlie di Alberto, Giulia e Valentina Malesani) sono perfetti per far maturare le uve autoctone: la Corvina dai grappoli medi, il Corvinone dal grappolo spagnolo, la Rondinella con acini sferoidali e l’Oseleta. Ha imparato a memoria tutti i nomi delle varietà di acini, si diverte nella sua testa a schierarli su un campo immaginario con i numeri dall’1 all’11. Malesani ha sempre sofferto le critiche per il suo modo sopra le righe ed esagitato di vivere la partita. Ricorda i mesi infernali dopo la famosa conferenza stampa ai tempi del Panathinaikos. Telefonate, polemiche, giornalisti impazziti. Ma lui, che non è fatto di plastica, ha sempre detto in faccia quello che doveva dire, senza filtri. Ciò che lo disturba ancora oggi è il ricordo di quando è arrivato Mourinho, che con modi e atteggiamenti simili ai suoi era considerato un genio, tutti pendevano dalle sue labbra. Malesani la vive come una terribile ingiustizia. Lui si considera un precursore anche nel campo della comunicazione, il suo stile però non fu mai compreso fino in fondo.

Orgoglioso, ammira le bottiglie della sua azienda disposte ordinatamente su una mensola sopra le botti. Il Valpo, vino fruttato e fresco, è perfetto per l’aperitivo dei veronesi. Il Rientro, un Valpolicella superiore, si chiama così in onore del termine calcistico che definisce una squadra compatta e armoniosa, caratteristiche proprie di questo vino. L’Amarone è il suo preferito e la varietà più pregiata, il Recioto, è prodotto in un numero di bottiglie limitato. “Altro che Mourinho, cazzo! Vorrei vedere Mourinho a fare il vino, cazzo!” dice improvvisamente ad alta voce.

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Dopo il biennio in Grecia nel 2005 e nel 2006, in cui è arrivato consecutivamente secondo in campionato e disputato una discreta Coppa Campioni uscendo ai gironi ma togliendosi la soddisfazione di pareggiare con il Barcellona, la carriera di Malesani è scivolata via in un vortice di esoneri, retrocessioni e subentri a stagione iniziata. Da allenatore dinamico e innovativo è passato ad essere considerato uno dei tanti traghettatori. Lo hanno chiamato a salvare situazioni più o meno disperate: Udinese, Empoli, Siena, Palermo e Sassuolo. L’unica stagione portata a termine è stata quella con il Bologna nel 2010, classificandosi sedicesimo. Nel 2011 con il Genoa venne esonerato per ben due volte nella stesso anno. Dopo essere stato sostituito in autunno da Pasquale Marino, è ritornato per poche partite in primavera, prima di essere rimpiazzato da Luigi De Canio. Con Palermo e Sassuolo è subentrato a campionato iniziato ed esonerato rispettivamente dopo sole  3 e 5 partite.

Malesani ha dimostrato di non essere un buon traghettatore. Ci sono professionisti ben più abili in quella particolare arte. Lui è il primo a saperlo. Le sue idee calcistiche sono come i semi d’uva e hanno bisogno di tempo per essere piantate nella testa dei giocatori. La squadra deve conoscerlo, capire i suoi schemi, fidarsi della sua mano e delle sue cure. Non è uno di quelli che in due allenamenti serra le difese, imposta il contropiede e porta a casa la salvezza. Ma non ci sono rimpianti nel suo animo. Per amore del calcio si è buttato a capofitto in avventure che sapevano di fallimento prima ancora di cominciare, e spesso, quando ha ottenuto buoni risultati, non è riuscito a farsi amare dall’ambiente. Forse avrebbe dovuto ponderare meglio alcune scelte professionali. Ma lui è una persona genuina che non fa calcoli.

Nel salone buio, appoggiato ad una botte, aspetta che il chiaro di luna entri dalla finestra sopra la porta d’ingresso. Fare il vino gli piace. Lavorare fianco a fianco alle sue figlie gli riempie il cuore. Ma qualcosa gli manca, lui lo sa bene, anche se a volte cerca di nasconderlo anche a se stesso. Colpito da un raggio lunare vede scintillare il tubolare di una delle bici da corsa color argento appese alla parete. Si sente fremere, i battiti accelerano. Il corpo inizia a sudare. Le mani appoggiano il bicchiere vuoto e scivolano meccanicamente nelle tasche della tuta. In quella di destra stringe un fischietto e nell’altra un cronometro da appendere al collo.