Vujadin Boškov, Begec, Jugoslavia

Vujadin Boškov, Begec, Jugoslavia
18 Novembre 2014 Gabriele Crescente

9 settembre 1990, domenica.

La Sampdoria è come una bella ragazza che tutti vogliono baciare. Ma vi dico una cosa, con tutti i problemi personali nel precampionato la Sampdoria non ha mai giocato una partita con la formazione tipo.

9 settembre 2014, martedì.

Il comune di Begeč si trova a metà strada tra la cittadina di Bačka Palanka, al confine con la Croazia, e Novi Sad, lungo la strada statale 12. È una giornata di sole. Arriviamo dal confine croato, in macchina, con l’andatura lenta di chi cerca qualcosa o qualcuno, o in questo caso, più precisamente, una via di mezzo tra qualcosa e qualcuno. La temperatura supera abbondantemente i 35 gradi. Nessun cartello ci accoglie né ci ricorda che qui è nato Vujadin Boškov e qui è stato sepolto, 82 anni dopo. In giro non c’è nessuno, a parte qualche anziana signora che porta a spasso un cane o un passeggino. Percorriamo la strada principale convinti che prima o poi un cartello indicherà il cimitero. Invece, sulla sinistra, quasi al termine del paese, troviamo uno stadio.

Vujadin Boškov offre un’immagine seducente della Sampdoria, che esordisce in campionato regolando il Cesena per uno a zero. Ma in realtà, anche stressata da un precampionato impegnativo, [la squadra] appare ancora lontana dai giorni migliori.

Più che uno stadio è un campo di calcio circondato da un muro di cemento alto due metri. Il muro è coperto di graffiti, dentro e fuori. Le porte sono senza reti. Sul lato ovest del campo c’è una piccola costruzione di cemento. Abbandonata, arrugginita. Un murale accanto al cancello azzurro ci conferma che siamo nello stadio dell’Fk Bačka-Begeč. I colori sociali (bianco-azzurro) e lo stemma sono gli stessi dell’Fk Bačka Palanka, squadra della vicina città di confine che milita nella seconda serie del campionato serbo. Qualcuno ha coperto il murale con una scritta rossa, Pfc. Qualcun altro ha cercato di modificare le tre lettere della scritta con uno spray azzurro. La sovrapposizione di colori rende tutto confuso ma anche perfettamente leggibile nella sua successione.

Se il buon giorno si vede dal mattino, però, va bene così. Con Vialli, Mychajlyčenko, Pellegrini, Lombardo e Branca, oggi assenti, sarà un’altra musica, dicono un po’ tutti. Restano tuttavia problemi strutturali da risolvere, anche se Mancini, Cerezo e Dossena, i più in forma, fanno i miracoli per nasconderli.

Restiamo fermi a bordocampo, in piedi, sotto l’ombra misericordiosa di un noce, cresciuto chissà come e perché a pochi metri dalla linea laterale. Poi, nella sinfonia delle cicale, distinguiamo un rumore diverso, lontano, meccanico. Dall’altra parte del campo c’è un macchinario agricolo rosso, guidato da un vecchio a torso nudo. Considerato il contesto, dovrebbe essere un tosaerba. Ma non è un tosaerba. Procede lento sulla fascia destra, indisturbato. Arriva sulla trequarti ma non scatta, non scarta. Avanza costante, a fatica.

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All’altezza del calcio d’angolo (dove dovrebbe esserci la bandierina ma non c’è), il trattore effettua una manovra complicata per curvare a sinistra e seguire la linea di fondo. Dopo secondi che sembrano interminabili il trattore si ferma, a pochi centimetri dal palo. Il vecchio scende, si mette le mani tra i capelli. Urla qualcosa. Le cicale, stranamente, abbassano la voce. Il vecchio apre il cofano del trattore e comincia ad armeggiare con una cinghia e un bastone di legno. Resta lì a lungo, bestemmia, sfida gli ingranaggi, beve da una bottiglietta di plastica. Entrare in campo e raggiungerlo alla destra del palo ci sembra irrispettoso, quasi vigliacco.

Ancora troppa inconcludenza in avanti, dove però le occasioni non mancano. Alla ricerca di un equilibrio a centrocampo, dove la confusione fa capolino sovente. Un po’ troppa distrazione in difesa, dove certi patemi vanno evitati.

Improvvisamente il trattore resuscita in un rombo pieno e gutturale. Attraversa la linea di porta, la linea di fondo, curva davanti alla bandierina assente e finalmente punta verso di noi. Alziamo il braccio in segno di saluto. Il vecchio non sembra nemmeno accorgersi che siamo lì. Ferma il trattore a due metri da noi e sempre senza guardarci si rimette la camicia e si avvia verso l’uscita. Alle nostre spalle appare un altro vecchio, che si piazza immobile davanti al cancello. Anche lui in silenzio. Siamo accerchiati. Pronunciamo timidamente (e probabilmente nel modo sbagliato) la parola Boškov. Il vecchio alza le mani e scuote il capo con un’espressione a metà tra lo spavento e la stizza. L’altro, alle nostre spalle, scoppia a ridere. Disegniamo una croce sul retro di uno scontrino croato e il vecchio sorride, ci porta fuori dallo stadio e in qualche modo ci fa capire che dobbiamo tornare indietro e girare a sinistra dopo il semaforo. Ci incamminiamo verso la macchina. Prima di fare inversione li guardiamo incamminarsi sul ciglio della strada, lentamente. Il trattore è rimasto all’interno dello stadio. Il cancello azzurro è rimasto aperto. Il noce e la sua ombra tornano a non avere senso.

In più e in meglio, per altro, c’è una determinazione maggiore, una voglia di lottare che proprio contro le provinciali l’anno scorso era mancata, costando punti fondamentali.

Giriamo a sinistra, abbandoniamo la strada maestra. Dopo pochi metri ci accorgiamo dell’equivoco. Sulla nostra sinistra c’è la chiesa del paese, non il cimitero. Davanti alla chiesa c’è un gruppo di uomini attaccati a bottiglie di birra da un litro e mezzo, di plastica. Probabilmente molto calda, nonostante l’ombra dei pini. Ripetiamo la nostra parola chiave. Qualcuno ride, qualcun altro lo rimprovera. Mentre discutono tra loro, un bambino passa a tutta velocità su una piccola bicicletta con una rotella sola. Urla qualcosa. Nessuno degli uomini gli risponde. Dopo qualche minuto e diversi sorsi di birra (sorprendentemente fresca), risaliamo in macchina con il dubbio che nessuno abbia capito che stiamo cercando il cimitero e la certezza che almeno tre persone ci abbiano indicato lo stadio.

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Il Cesena dell’ex Marcello Lippi, diligente e volenteroso ma forse ancora da perfezionare, ne ha approfittato ottimamente per un tempo. Difesa e centrocampo molto ravvicinati gli hanno consentito di contenere bene le folate avversarie, e le due punte Ciocci e Amarildo – più il primo che il secondo, in realtà – non hanno rinunciato al contropiede.

Riprendiamo a vagabondare tra gli angoli retti di Begeč, asciugando il sudore del caldo e della birra con raffiche di aria condizionata. Percorriamo la strada principale un paio di volte, da cartello di benvenuto a cartello di addio. Contiamo cinque bar (quattro chiusi) e una farmacia-edicola, dove ripetiamo il nostro rito infruttuoso di gesti e incomprensioni. La temperatura torna a salire, e anche il canto delle cicale suona come uno sforzo immane. Alla fine, per caso e perché in un paese così piccolo il caso prima o poi arriva, riusciamo a trovare il cimitero.

Il gol di Invernizzi, il primo in maglia blucerchiata, in apertura di ripresa, ha siglato il risultato e stimolato un po’ di più i cesenati, che hanno sì rischiato il contropiede doriano ma hanno anche accentuato il loro, riuscendo a creare problemi seri all’inedita difesa avversaria.

Il cimitero comunale di Begeč si trova su Vuka Karadžića, la prima traversa sulla destra appena entrati nel paese provenendo da Bačka Palanka. La strada è dedicata a un riformatore linguistico e filologo ricordato anche per una raccolta di canzoni, fiabe e indovinelli del folklore serbo. Nella famiglia Karadžić il tasso di mortalità infantile era molto alto e al bambino fu assegnato il nome di battesimo Vuk, lupo, per proteggerlo dalle malattie, dalle streghe e dagli spiriti maligni. “Scrivi come parli e leggi come è scritto”.

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Il pareggio è stato solo sfiorato, e sul finale la Samp ha pure segnato il secondo gol con Cerezo, annullato dall’arbitro per un fuorigioco molto contestato. Nel dopopartita Lippi non recrimina più di tanto, Boškov pensa alla Sampdoria vera, Cerezo è ancora insoddisfatto.

Il cimitero non è recintato, ma è circondato da un fossato poco profondo pieno di sterpaglie. Ci sono molte lapidi che riportano soltanto l’anno di nascita, in attesa della morte della persona a cui sono destinate. I coniugi Svetkovič sono nati a un anno di distanza l’uno dall’altra, a cavallo tra due secoli. Milan è del 1899, Vata del 1900. Vata è morta nel 1974. Sulla lapide di Milan non c’è l’anno di morte. Forse è ancora vivo dietro una delle persiane accostate di Begeč e cerca di difendersi dall’afa. O forse è semplicemente scomparso nel nulla, chissà dove e chissà quando. La tomba di Vujadin Boškov si trova subito dopo l’ingresso, sulla destra. È una tomba semplice. Una croce di legno riporta il nome, l’anno di nascita e l’anno di morte. Non ci sono fiori, né foto, né sciarpe.