Toponomastica dei Pelé nel calcio

Toponomastica dei Pelé nel calcio
25 Novembre 2015 Johnny

Il sistema associativo che regola il cervello umano ci spinge a credere che qualsiasi persona di nome Pelé sia inevitabilmente la migliore nel suo campo. Qualsiasi mestiere egli faccia, qualsiasi attività svolga. Tutte tranne una, ovviamente: quella del calciatore. Chiamarsi Pelé e fare il calciatore più che uno strano scherzo dell’onomastica assomiglia a una specie di condanna. Per quanto bravo possa essere, il novello Pelé non sarà mai all’altezza del suo più famoso predecessore. E così il nome appiccicato sulle spalle, di sole quattro lettere più l’accento, pesa come un macigno che tende il tessuto sintetico della divisa verso il basso, trascinando con sé le speranze e i sogni del malcapitato omonimo. Il povero Pelé dovrà abituarsi presto alle battute degli spettatori e degli avversari, ai sorrisetti al primo stop sbagliato, al primo tunnel subito, a un rigore calciato oltre le tribune. È difficile giocare a calcio e chiamarsi Pelé.

L’equivoco che questo fosse possibile con risultati importanti lo crea Abedì Ayew, forte attaccante ghanese, che solca i campi europei a cavallo tra anni ottanta e novanta, conosciuto soprattutto con il nome di Abedì Pelé. L’africano vince tutto, tre palloni d’oro africani, scudetti e coppe. Con l’Olympique di Marsiglia, funambolica mescola di talenti (Völler, Bokšić, Deschamps, Barthez, Angloma), è capace di battere l’invincibile Milan allenato da Fabio Capello nella finale di Coppa Campioni 1993. Abedi diventa in quegli anni la più grande espressione africana nel calcio europeo, precursore dei Weah, degli Eto’o, dei Drogba, e si fa portatore dell’ascesa calcistica del continente nero, iniziata dalla nazionale del Camerun a Italia ’90, a livello internazionale.

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La sua è una storia di successo ma c’è un piccolo problema: Abedì di cognome si chiama Ayew e non Pelé. Il soprannome gli fu attribuito una volta appurato che il ragazzo con il pallone ci sapeva fare. La carriera del ghanese ha creato l’illusione, nei tanti Pelé sparsi nel globo, che si potesse giocare a calcio con il nome Pelé scritto sulle spalle. E così tanti piccoli Pelé sono nati, cresciuti e si sono diffusi con la convinzione di poter recitare un ruolo da protagonisti con il pallone tra i piedi.

Le macro-aree geolinguistiche dove i nuovi Pelé si diffondono maggiormente sono due: quella portoghese e quella francese. In Portogallo e Brasile l’apelido è molto diffuso per sostituire i nomi lunghissimi che si formano sommando i cognomi di entrambi i genitori e “Pelé” è uno dei più gettonati. Il portoghese Judilson Mamadu Tuncara Gomes, detto Pelé, si porta appresso la fama di centrocampista abbastanza completo. Classe ’91, imposta discretamente, difende benino e si inserisce negli spazi con discrezione. Di proprietà del Benfica, milita attualmente nel Pacos de Ferreira nelle prima divisione portoghese, dove finora ha collezionato solo otto presenze. Nel 2011 il suo cartellino è acquistato in comproprietà da Genoa e Milan, ma Pelé non scende in campo in gare ufficiali. L’anno successivo viene venduto in Ucraina all’Arsenal Kiev, dove gioca appena cinque partite prima di tornare in patria all’Olhanense e al Belenenses. Pelé ha fatto tutta la trafila nelle giovanili della nazionale portoghese, fino all’Under 21 con cui ha collezionato tre presenze. Con l’Under 20 è arrivato addirittura secondo al Mondiale in Colombia nel 2011, dietro al Brasile. Oggi Pelé ha 24 anni, è fermo a due reti nelle squadre di club e anche se siede in panchina ogni domenica indossa una maglia con scritto Pelé sulla schiena. “O Rei” alla stessa età aveva segnato circa quattrocento gol e vinto diversi campionati, due Libertadores, due Intercontinentali e due Campionati del mondo.

Vítor Hugo Gomes Passos, detto Pelé, è un altro centrocampista portoghese, attualmente in forza ai ciprioti dell’Anorthosis Famagosta. Nonostante un presente anonimo, Pelé può vantare un passato da futura promessa. A vent’anni, nel 2007, arriva all’Inter. Segna in semifinale di Coppa Italia contro la Lazio e si ripete in finale contro la Roma, anche se il gol non evita la sconfitta dei nerazzurri per 2-1. Ventidue presenze e due gol. Grazie e arrivederci. Viene ceduto al Porto (nell’ambito della trattativa che porta “il trivela” Quaresma a Milano) che a sua volta lo cede al Portsmouth che a sua volta lo cede al Real Valladolid, dove finalmente riesce a inanellare qualche presenza, senza gol. Si sposta in Turchia all’Eskişehirspor e poi nel campionato greco, dove cambia maglia tre volte in tre anni. In dieci stagioni colleziona un totale di 147 presenze, una media di circa 14 a stagione. Undici gol in totale.

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“Ultimo” dei portoghesi è Pedro Miguel Cardoso Monteiro, detto Pelé, roccioso difensore centrale naturalizzato capoverdiano. Gioca nell’Havant & Waterlooville FC nella sesta divisione del campionato nazionale inglese, nella Conference South. Ha trentasette anni e all’apice della carriera ha militato nel Southampton e nel West Bromwich Albion. Per i Saints ha segnato anche un gol, il 30 dicembre 2006 contro il Leicester City.

In Brasile, in attesa che nasca l’erede del Pelé originale e nonostante ogni anno venga affibbiato il pressante titolo di “nuovo Pelé” al giocoliere di turno (allo stato attuale dovrebbe essere Neymar, tra quelli del passato si ricordano anche Robinho e Adriano), c’è un giovane che sta lottando per trovare spazio nel calcio che conta. Si chiama Leonardo Pinheiro da Conceição, detto appunto Leo Pelé, classe 1996, terzino sinistro della Fluminense. Il giovane calciatore riesce nell’impresa di ricordare nel suo soprannome, oltre che Pelé, anche Leo Messi.

In Francia i Pelé sono molto diffusi, con ben tre esemplari della categoria. Il primo è il portiere Yohann Pelé. Superata la sorpresa nel vedere un Pelé in porta bisogna dare atto a Yohann della carriera senza fronzoli e tutta sacrificio che sta conducendo da quindici anni. È la colonna per sette stagioni del Le Mans (anche se è stato titolare solo nelle ultime quattro) fino al 2009, anno in cui si è trasferito al Toulouse, dove però ha giocato poco. Nel 2012 è stato costretto ad abbandonare momentaneamente il calcio per un’embolia polmonare. È tornato con la maglia del Sochaux nel 2013. Quest’anno è andato a svernare in panchina all’ Olympique Marsiglia.

Il secondo Pelé è il fratello maggiore (di solo un anno) di Yohann, Steven Pelé, rifugiatosi trentaquattrenne nelle serie dilettantistiche in cui milita l’Elvinoise Football di Elven, piccolo centro vicino a Vannes, dove ha giocato il campionato regionale della Bretagna negli ultimi anni. Nella sua carriera Pelé  ha girato diverse squadre in Francia (Rennes, Le Mans, Grenoble tra le altre) finendo anche in Romania, dove ha militato per un solo anno nel Cluj. Per chi si fosse perso la sue giocate, esiste un video su youtube intitolato semplicemente Steven Pelé: una carrellata di lanci lunghi, alcuni lunghissimi, dalla difesa, sia di piede che di testa, intervallati da qualche scivolata più o meno spettacolare.

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Ultimo Pelé francese è Bryan, classe 1992, ala sinistra dello Stade Brest 29, squadra che milita nella seconda divisione francese. Bryan Pelé è cresciuto nel Lorient dove ha debuttato anche in Ligue 1 un paio di stagioni fa, ma è nella serie B francese che sembra avere trovato la sua dimensione ideale.

Per finire ci sono i “cani sciolti”. Ovvero i Pelé rintracciabili in paesi che li vedono come unici portatori del prestigioso nome. Kingsley Pelé van Anholt è un difensore dell’Heerenveen in Olanda. Pele Koljonen è invece un giocatore finlandese, anch’egli privo della “e” accentata. Attaccante tarchiatello di ventisette anni con orecchino alla Maradona e tatuaggi alla Ibrahimovic, dopo un inizio carriera di basso profilo nella prima divisione della Finlandia è esploso nel 2012 nel Manhattan Project di Kuopio, squadra di una imprecisata categoria del suo paese. “Mahattan Project” fu il nome del team di ricerca guidato da Oppenheimer per lo sviluppo delle bombe atomiche durante la Seconda guerra mondiale, una scelta quanto meno curiosa. I numeri di Koljonen sono sbalordivi: 24 presenze, 42 gol. Al contrario dei suoi omonimi, Pele non è il cognome o il soprannome ma il nome di battesimo.

In Italia invece non abbiamo nessun Pelé e dobbiamo “accontentarci” del centravanti della nazionale e del Southampton, Graziano Pellè. Per osmosi tra la sua imponente struttura fisica e il suo cognome ha raddoppiato le  “L”, quasi a dimostrare un senso di forza e di potenza. In effetti è quello che sta ottenendo i risultati migliori tra i Pelé del nuovo millennio, anche se ha dovuto sudare non poco per scacciare lo spettro della mancata promessa che volteggiava sulla sua carcassa muscolosa e aspettava solo di planare per mangiare le sue carni. Pellè, forse grazie alla forza conferita dalla doppia L, è riuscito a sfondare prima in Olanda con il Feyenoord e ora in Inghilterra, appunto coi Saints, dove alcuni tifosi lo ritengono, per la stazza e la bellezza di alcune sue giocate, l’erede naturale di Matt Le Tissier.

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Ma cosa dicono i Pelé quando qualcuno gli fa notare che hanno scelto il mestiere sbagliato? La maggior parte delle volte sorridono imbarazzati e distolgono lo sguardo facendo finta di niente. In rare occasioni azzardano qualche scusa confusa: “Non è colpa mia, al massimo di mio padre” o del nonno o del bisnonno che hanno tramandato il nome. E ai tempi del bisnonno il Pelé, quello vero, era solo un bambino. Portoghesi e brasiliani, si sa, un soprannome devono pur averlo. Se non fosse stato Pelé probabilmente sarebbe stato Zico, Falcao o Bebeto e la questione non sarebbe risultata molto diversa. Che poi del più grande giocatore della storia del calcio ci siano solo qualche manciata di filmati che mostrano sempre gli stessi gol, la marcatura di testa all’Italia o quello alla Svezia, a ripetizione, in molti lo pensano ma pochi lo dicono. E se uno vuole essere il più grande deve misurarsi in Europa, mica può sempre giocare in campionati “minori”. Tutte queste parole consolatorie, seppur contengano qualche barlume di verità, non servono a cancellare i ghigni irrisori della gente. La partita sta per cominciare e gli spettatori sono impazienti sulle gradinate. Al primo stop sbagliato, al primo tunnel subito, a un rigore calciato oltre le tribune, hanno già la battuta pronta, calda. Fumante.