I dolori del terzo portiere

I dolori del terzo portiere
8 Giugno 2016 Johnny

La domanda più frequente è “Perché proprio io?”. La risposta è una stanza molto riscaldata, due divani comodi, arredamento generalmente spartano che privilegia la luce del sole che, si spera, verrà da fuori, un open space, sgombro di preoccupazioni, un’aria seria, professionale, che si fa attraversare da veloci pensieri di poco conto, mobili senza pretese storiche ma funzionali, moderni che servono a quello per cui sono stati acquistati. Tanto spazio, pareti poco adorne, luce esterna, vista sui monti, sui colli, sul mare, sulla pianura sconfinata buia di giorno e illuminata di notte, sullo stadio.

L’agendina è piena, quasi ogni giorno, grazie a Dio. Il borsone del calcio è davanti alla porta d’ingresso, costantemente, un monito, un fantasma, o forse più che altro un bestione immobile che vorrebbe conquistare un briciolo di libero arbitrio, uscire da solo, andare a fare una passeggiata, scappare al bar sotto casa in cui il padrone non va mai. Ma ovviamente è solo un borsone del calcio, inanimato, rassicurante, pronto per essere portato via dal suo proprietario, con calma perché non è mai in ritardo. La sensazione di normalità è suggerita da ogni superficie della casa, dalle piastrelle del bagno al comodino su cui si impone a uno sguardo curioso un libro a caso di Jeffery Deaver, una lampada raffigurante un cane o un uccello, una matita, un accendino, centesimi di rame, una scatola di pillole contro il mal di testa.

La risposta è la normalità. La vita priva di passioni pubbliche, la vita professionale, l’attenzione a come va il mondo, la concentrazione sul proprio lavoro, costante, quotidiana, incessante, altrimenti è finita. Qualcuno potrebbe notare il calo, dire due parole a chi di dovere e, in silenzio, senza alcun titolo sul giornale, l’incanto potrebbe finire. Basta davvero una crepa, notata dalla moglie con un’apprensione che è un misto di eccitazione e paura, un sentimento nuovo e non si sa se atteso o meno. Una incrinatura nella normalità e il nuovo lavoro del marito finisce in pericolo.

Se la crepa c’è, non bisogna parlarne a tavola, non davanti ai figli, non alle amiche. La moglie, che passeggia nella casa vuota, rilassata, scopre che qualcosa non va e decide, in quel preciso momento, che piuttosto potrebbero torturarla e infilarle aghi negli occhi, ma il segreto morirà con lei. In fondo non è una cosa grave, non è un tradimento, non è un desiderio di lussuria, ufficialmente nemmeno una bugia. È solo una crepa, la più agguerrita nemica della normalità, il dubbio che incupisce la risposta, la scioglie nel bicchiere d’acqua e la fa diventare effervescente, fastidiosamente rumorosa, tanto da porsi la domanda se davvero la medicina funzionerà, una pastigliona che fa frizzare l’acqua e il mal di testa va via.

Terzo portiere fiori

Possibile? Perché? Perché proprio lui? Perché proprio io? Il marito torna, tornano i figli, con la governante, la zia, la sorella, le amiche, la gentilezza del nord calibrata su un tenore di vita alto, ma non altissimo, di chi non sarebbe in fondo giustificato a vivere al di sopra delle propria possibilità, di chi è tenuto ad essere umile, riconoscente alla vita, grato al mondo intero, eppure certo di avere colto le opportunità capitate e di non vivere sugli allori, esibendo una capacità eccellente di equilibrio e sobrietà. Un bacio, la constatazione di essere diventati vecchi sul lavoro, ma piuttosto giovani nella vita reale. Nel tempo libero, che non è poco, e va speso bene. Con i figli per chi li ha, con la moglie per chi la ha (e c’è sempre una moglie), il camper per partire in famiglia, la moto per partire prevalentemente da solo.

La risposta è la normalità. Il mal di testa è spesso psicosomatico, altre volte è un indizio di qualcosa che manca, ferro, sonno, felicità. Il libro di Deaver è stato aperto, sì, ma sfogliato appena. Sulla spiaggia gli darà una chance. Quando potrà riposarsi. La moglie, il marito, i figli, il lavoro, la famiglia tradizionale. Da soli, quando i bambini sono a dormire, il terzo portiere lascia che sia la moglie a far partire una canzone dall’impianto stereo, che a malapena si distingue dal resto dell’arredamento. Lui non la conosce, crede di non averla mai sentita, anche se dal sorriso di sua moglie si sottintende che lei la metta spesso. Si lasciano cadere con un po’ di pesantezza sul divano, lei poggia i piedi nudi sulle sue ginocchia. I piedi sono piccoli, gibbosi, con unghie smaltate ma non di fresco, con un rosa che voleva essere acceso e ora si è spento. Sono i suoi piedi, desiderati piedi, ignorati piedi, piedi per camminare che non calciano nulla, piedi che non sono minacce per lui. Il contatto della pelle di sua moglie sulla sua tuta da casa trasmette un sonno improvviso.

D’altra parte, la casa è troppo calda, la luce è dentro, fuori non si vede quasi nulla, anche perché le tende nascondono lo sguardo da ogni infinito, e questo in fondo è un bene. La televisione tace, perché è un momento intimo, silenzioso. La moglie asseconda il copione della normalità, arricchendolo con la sua viva partecipazione, non è esteriorità, vuole davvero che il marito capisca che lei è presente, non fa finta, le è grato, è un bravissimo uomo, lo ama. L’amore dei talloni abbandonati ma che sfregano leggermente il tessuto della sua tuta è il massimo che lei può dargli in questo momento, mentre la sonnolenza induce a scegliere bene le parole da dire, per non aprire conversazioni troppo lunghe e insostenibili che potrebbero appesantire la notte e rovinare il risveglio al mattino dopo, per il lavoro che lo attende, il borsone, il tragitto verso il centro sportivo, la spesa al ritorno, i bambini da prendere, lo sfizio di una corsetta lungo il fiume, che non si è mai abbastanza in forma.

E allora il terzo portiere aspetta che sia la moglie a introdurre un eventuale discorso (non è mai escluso che non ci sia alcun discorso), confidando nella sua complicità: lei ha più energie, ma sana, pulita, umile, perfetta per lui. Gli chiede infatti com’è andata, stirando leggermente i piedi. I piedi piccoli e gonfi di sua moglie. L’assenza di grilli per la testa, di eccitazione sotto la propria tuta. La calma della casa. La periferia residenziale di una bella abitazione a un chilometro dal lavoro. Il terzo portiere descrive ampi cerchi nell’aria con la mano aperta, guardando la parete di fronte a lui, senza incrociare mai gli occhi di sua moglie, aprendo poco la bocca, come se assaporasse un momento importante.

terzo portiere Orlandoni

E con un sorriso che si spegne poco sotto gli angoli rugosi degli occhi stanchi racconta dolcemente di come l’allenatore, quello della prima squadra, non quello dei portieri, avesse guardato lui prima degli altri due quando aveva voluto provare un nuovo piazzamento per la difesa sui calci d’angolo, l’aveva fatto perché sapeva che lui lo avrebbe capito prima e che, meglio ancora dell’allenatore dei portieri, lo avrebbe spiegato agli altri, perché la pratica avrebbe insegnato più della teoria. È un segno di affidabilità.

Non è una novità. Ma è la sua reazione il motivo di tanta fiducia. Mai un crollo, mai un entusiasmo eccessivo, mai una cattiva parola o una risposta tagliente, a meno che non si trattasse degli scherzi nello spogliatoio. Qui il terzo portiere accetta il rischio di far intravedere un po’ di luce in fondo alla gola, mentre sorride e lancia uno sguardo diagonale alla moglie, per lasciare intendere il divertimento inevitabile che c’è tra ragazzi nello spogliatoio.

La moglie è però concentrata su altro. Il terzo portiere sa bene che nemmeno questa è una novità, ha imparato a capire che la distrazione non è un segno di indifferenza, ma anzi, di estrema fiducia, l’allenatore stesso quando prova schemi nuovi non si rivolge quasi mai agli esperti, ai veterani, dà per scontato che capiscano, per empatia, per intelligenza calcistica. Sono i giovani che lo accendono, gli cambiano il colore della voce e della faccia. I giovani e i ribelli. E gli indifferenti, l’esistenza dei quali è un grande mistero per il terzo portiere. A chi danno importanza gli indifferenti a tutto? Cosa conta per loro? La loro distanza è assenza. La sua è equilibrio, presenza.

Se accade qualcosa di brutto, non ci si abbatte, non ci si esalta per qualcosa di bello. La moglie è concentrata su altro, lo dà per scontato, perché è un veterano del benessere. In altri momenti è accesa, non è sempre così. E perciò è più facile accettare questi piedi. Ed è sui piedi che sembra concentrata la moglie, comprende il terzo portiere. Sul loro gonfiore o sullo smalto? Per fortuna non ha sentito quello che lui le ha detto, anche se ha sorriso con affetto, senza ascoltare. Il terzo portiere, sollevato, ritiene che si sia fatto tardi, la moglie si ribella un po’, ma senza forza, con calore, lui affonda così le braccia intorno al pigiama di lei e con la grossa testa tonda vicino a quella lunga e stretta della donna si sente di poter esercitare la sua supremazia. Sorride e la donna ha la bocca serrata. La bacia sulle labbra durissime, sottili pareti dietro cui una dentatura bianca e imperforabile chiude ogni possibilità di proseguire la serata con ulteriori effusioni.

Terzo Portiere Carini

La vendetta del terzo portiere è la sua stoica reazione all’avversità: un altro sorriso, più leggero e impercettibile e poi l’abbandono della grossa testa sul petto della moglie, che riconoscente della sua moderazione, lo accarezza con due dita freddissime, nonostante la casa calda. La canzone ha lasciato spazio ad un’altra e ad un’altra ancora, di genere diverso, più ritmato e forse anche più rumorosa, il che spinge il terzo portiere a suggerire di abbassare il volume dello stereo. Per il sonno dei ragazzi. Per il bene della squadra.

È lui stesso a muoversi per primo, sollevandosi con agilità, provando, almeno così gli sembra, una sensazione di sollievo, di certo dovuta all’improvvisa attività che ossigena e fortifica i pensieri. La moglie, ancora distesa, gli sembra piccolissima, da così in alto, di colore rosa e blu, la casa gialla e scura, l’aria minacciata dal rumore che viene dallo stereo. In pochi istanti, passi laterali e frontali, attacco della palla, la mano è sull’apparecchio e la scelta è abbassare il volume e ritornare sul divano dalla moglie che non ha mosso un muscolo, o almeno così sembra, oppure spegnere la musica definitivamente, stiracchiarsi ed attendere una reazione al suo segnale, vista l’ora, vista la stanchezza di tutti, di tutto il mondo che certamente dorme intorno a loro, in preparazione del giorno che segue, ovviamente eccezion fatta per tutta quella massa di poveri e diseredati che non può permettersi una fortuna del genere.

C’è tutto un mondo intorno, è la canzone. Dei Matia Bazar. A lui piace, la moglie l’aveva messa per lui. La ascoltava da ragazzino, perché piaceva a sua madre e gli piaceva il fatto che tutti i membri del gruppo cantassero, a turno, ognuno con la propria voce, ognuno con le sue possibilità, a volte incrociandosi con dei cori che sembravano venissero dal mondo dei sogni. Ma di tutto questo folto groviglio di sensazioni non ha mai fatto menzione alla moglie, limitandosi a dire che la canzone era quella preferita di sua madre. Lei ora è di spalle, seduta, che infila i piedi in ciabatte che lui non riesce a vedere.

“Ho i piedi freddissimi.” è l’unica frase che lei riesce a dire, mentre si alza in piedi, dandogli sempre le spalle. Sarà una bellissima vecchietta e lui un bel signore anziano e saranno sepolti insieme. Sorpreso da questo pensiero improvviso, il terzo portiere sente un desiderio irrefrenabile di fare qualcosa di inatteso, che ricompensi la moglie della sua decisione di chiudere la serata con la scusa del volume. Resta rigido in contemplazione del rituale stiracchiamento con sbadiglio di lei, finché non decide di lasciare uscire un po’ di aria fresca dalla propria bocca chiusa e secca, proponendole un gelato notturno, sapendo di non averne in freezer e aggiungendo persino di volerlo andare a comprare dal bar sotto casa, che è anche gelateria artigianale. La moglie rivela uno sguardo febbrile, sgrana gli occhi, lo scruta con una curiosità che è anche paura, la stessa provata al mattino, nella solitudine della casa, libera e rilassata.

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Il gelato. La crepa. Lei rilancia con una crèpes salata. Lui soppesa bene la proposta, poi si rende conto che una crépes salata potrebbe incidere sulla sua digestione molto più che un gelato e che dovrebbe ritardare l’ora del sonno. La moglie avanza verso di lui, rimasto ancora immobile come un palo, e gli propone di andare a dormire, piuttosto, lasciando perdere gelati e crèpes, anche perché domenica sera avranno una cena da amici e Marta è un’ottima cuoca e Guido un’ottima forchetta e cuoca più forchetta fa gran mangiata.

Meglio rinunciare una volta in più ed esagerare quando ne val proprio la pena, è il concetto filosofico con cui la moglie convince il terzo portiere ad andare a dormire, scivolando al suo fianco, seguendo un effetto strano, forse conseguenza dei nuovi palloni che non volano come prima. Nemmeno i portieri volano come prima. Alla lateralità è preferito il passo frontale, il salto in diagonale in avanti, alle mani sono preferiti i piedi.

Lui in allenamento osserva molti cambiamenti, quotidiani, piccoli, anzi piccolissimi, ma costanti. Negli occhi dei preparatori vede, col passare del tempo, un’attenzione eccessiva a particolari che, evidentemente, hanno dovuto imparare a loro volta da un preparatore più famoso, una sorta di moda, qualcosa che non appartiene a loro, alla loro storia, alla loro cultura. Dicono che sono vent’anni che nessun portiere italiano, a parte forse Sirigu a Parigi o il povero Roma nel Principato di Monaco, sia stato in grado di sfondare all’estero, ma è anche vero che non ricorda nella sua infanzia portieri italiani che hanno fatto fortuna all’estero, anche quando i portieri italiani erano i più forti del mondo. Forse non è mai stato vero, ma non c’è una controprova. Si sa che Albertosi, Vieri, Zoff sono la vecchia scuola. Poi Zenga, Tacconi, e Pagliuca e Marchegiani e poi Buffon e poi forse è vero che è finita. Forse è finita per sempre.

Il terzo portiere si lascia superare dalla moglie che si deposita in fondo al sacco e lo lascia per qualche istante nella sala, avvicinandosi al divano, con la scusa di sistemare la fodera stropicciata dal calpestio dei piedi nudi di lei, oltre che dal suo tentativo di baciarla, inutile. Si siede. Sfinito, tutta la sua concentrazione, e lui è capace di un’intensa concentrazione, è sull’assenza momentanea di sua moglie: ci mette pochissimo, visto che è ancora un atleta e visto che è un terzo portiere, abituato a guardare, riguardare, a stare fuori, a rendersi conto della verità dei piedi doloranti, dei denti serrati, delle dita gelate, della fuga ingenua dalle proposte improvvise di gelati notturni in bar notturni che sono anche gelaterie artigianali, probabilmente chiusi, nonostante la notte non sia ancora notte, perché la giornata dell’atleta finisce presto, prima del mondo intorno.

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Lei ha visto la crepa. Con affetto, l’ha vista. E la tiene nascosta, con la stessa dolcezza disperata con cui la sta tenendo nascosta lui. La sua grossa testa, enorme, sempre più pulsante, si volta verso la crepa sul muro, sul tavolo, sulla coppa sfregiata, sul divano squarciato, sul televisore dallo schermo rigato, sul pavimento rovinato da strisciate di armadi pesanti spostati quando lui era assente, quando era fuori casa, da addetti poco rispettosi, certamente non tifosi.

Non chiamateli tifosi, sorride il terzo portiere, mentre la testa è bollente, forse è febbre. Non può evitare di avvicinarsi alla crepa. È esattamente come l’aveva lasciata, lei l’ha solo vista, non l’ha guardata bene, non ha notato nulla. Non ha visto quant’è bella. La sua collezione di terzi portieri, rannicchiati, incastonati, paralizzati nella crepa.

Quant’è piena di successi, di gloria, di fama, di desideri. Non ha notato le tenebre di Valerio Fiori, corsaro ai tempi di Cagliari, poi ingessato in undici panchine quando vinse lo scudetto 2003/2004 nel Milan. I capelli di Fiori, i fiori nei capelli. La gioiosa rassegnazione, l’accettazione. Non ha neppure degnato di uno sguardo caritatevole la rabbia dipinta sul volto di ceramica del cadavere di Fabian Carini, che lo scudetto l’ha vinto due volte, in un paese che gli aveva promesso di essere una promessa del calcio mondiale, con due maglie diverse, senza neppure giocare un minuto, sforzandosi di dimostrare la propria talentuosa gioventù in allenamento con Buffon, Toldo e Julio Cesar.

Non un cenno di pietà per l’incompiuto Landry Bonnefoy che ha coperto il suo cuore con un mantello tricolore alle spalle dei soliti perfidi Buffon e Chimenti, per ben due volte, appena maggiorenne, per poi soffocare nell’oblio di svendite e occasioni perse fino a smarrirsi in Ligue 2 in una squadra fallita, ad allenarsi con preparatori disoccupati, per non morire, sperando di restare per sempre almeno lì, nella crepa.

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C’è chi dalla crepa è strisciato via, con disgusto e lui, il terzo portiere, l’ha lasciato andare, è il portiere brasiliano della Juventus che ha giocato quarantasette minuti in campionato vincendo quattro scudetti di seguito. Ma lui è diverso, è ancora giovane, è evangelico, vede la morte come un’occasione di trasformarsi, lui ha un altro culto, non poteva finire qui per sempre. È scappato e ora è là fuori, nella notte, che si allena, sotto la luce di un lampione, passo laterale e presa a terra, a mezzo volo, a mano aperta, in tuffo, con i pugni, febbrile, sudato, con le sopracciglia torve, che nascondono gli occhi di chi è scampato ad una malattia orrenda e vuole provare a sé stesso di poter sopravvivere e vivere di nuovo.

In fondo alla crepa c’è il padre dei terzi portieri. Lui sì, è rimasto al caldo, laggiù, come un lare domestico, lui è quell’Orlandoni che di scudetti ne ha vinti cinque più altri dieci trofei, strappato alla sua carriera per sbaglio, lui è il padre degli spogliatoi perché lui ha fatto spogliatoio. Sua moglie, che teme il peggio e spera il meglio come tutti, non può sapere, non può immaginare che Paolo Orlandoni è felice di essere chino e annerito dentro quel buco, enorme, visibile a tutti, impossibile da nascondere, come lo è quello sguardo buono, innocuo, di chi non vuole essere preso in giro perché dà tutto quello che può, dà il massimo in allenamento, non c’è stato mai nessuno come lui e mai forse ci sarà un uomo che più di lui abbia saputo accettare il destino, la sorte amica, il favore del dio distratto che gli ha regalato una gloria insperata neppure nei sogni più sfrenati, senza dolore, senza gioia, solo con quella sostanza che ricorda il borotalco e che riveste ogni momento della vita del terzo portiere, dal risveglio mite alla mite notte.

Sono tutti lì i fantasmi della crepa e, come ogni sera, lo accompagnano a letto, nel suo sonno eroico, nel calore della coperta, di fianco al corpo ghiacciato della moglie immobile, con il borsone del calcio a far da guardia nel buio della sala, davanti alla porta d’ingresso. Ed è un gemito che vale una preghiera, una debolezza giusta, in fondo umana, quella che con la bocca semiaperta e rivolta al soffitto più lontano che si possa immaginare, gli occhi chiusi e il corpo completamente abbandonato in orizzontale, si concede la gentile necessità del dubbio.

Perché proprio io?
Se per caso un giorno o l’altro
Ti trovassi solo sai
Senza una compagna che ti aiuta nei tuoi guai
E se poi il cielo blu
Si chiude all’improvviso su di te
E ti senti come un ladro che
Ha paura anche di sé
Guardati allo specchio
E guarda un poco un poco intorno a te
C’è tutto un mondo intorno che
Gira ogni giorno e che
Fermare non potrai
E viva viva il mondo
Tu non girargli intorno
Ma entra dentro al mondo
Dai…
Che gira ogni giorno
E che fermare non potrai
E viva viva il mondo
Tu non girargli intorno
Ma entra dentro al mondo dai…
C’è tutto un mondo intorno
Che gira ogni giorno
E che fermare non potrai