Sebastiano Rossi: com’è profondo il mare

Sebastiano Rossi: com’è profondo il mare
25 Gennaio 2016 Federico Ferrone

È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce
e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. 

L’uomo chiude gli occhi e ritorna a un ricordo d’infanzia. La scena, abbagliata dal sole d’estate, ha luogo sulla spiaggia di Cervia e ha un tempo indefinito, da qualche parte alla fine degli anni settanta.

La domenica, a Cervia, i ragazzi di Cesena ci andavano per giocare a bocce, pescare e sbirciare i bikini delle turiste tedesche. Di questa domenica particolare l’uomo di oggi, allora bambino, ricorda che il sole era immobile e le lenze erano in fila lungo il molo d’attracco. Poi tre uomini, vestiti in giacca nera e cravatta nonostante il caldo afoso, si erano avvicinati con l’aria minacciosa a un adolescente che stava in piedi vicino a un campo da bocce. Il ragazzo, girato di spalle, si era accorto solo all’ultimo momento dei tre uomini neri, che si erano avventati su di lui e lo avevano portano via, chissà dove.

L’uomo, allora bambino, era rimasto immobile, paralizzato dalla paura. Poi quando i tre uomini e il ragazzo erano ormai lontanissimi, un puntino all’orizzonte, si era improvvisamente accorto che qualcuno aveva approfittato della sua distrazione per rubargli il secchiello con i pesci. E in quel momento, l’ultimo momento del ricordo, aveva immediatamente dimenticato i tre uomini neri e il suo terrore e aveva giurato a se stesso e a dio che non avrebbe permesso a nessuno di passargli dietro le spalle e derubarlo. Nessuno, mai più, per nessun motivo.

È la notte tra il 7 e l’8 maggio del 2001. L’uomo siede inquieto in una stanza del commissariato di Cesena. Il suo respiro risuona affannoso dentro la sua enorme cassa toracica. L’ubriacatura sta passando e sente sulla camicia l’odore di sudore e di sigaro, il sigaro che stava fumando poche ore prima quando ha chiesto alla cameriera del bar Mascherpa di fargli un caffè. Lei si è rifiutata e lui non ci ha visto più. Prima l’ha chiusa in bagno, poi ha dovuto prendere a pugni un cretino che si è messo in mezzo. Alla fine si è scoperto che era un carabiniere. Ma io non l’ho chiusa a chiave, poteva tranquillamente uscire invece di restare lì a piangere.

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La notte è ancora lunga e l’uomo sa che gli sbirri non hanno nessuna fretta di farlo uscire. Ora è triste, pensa che non avrebbe mai dovuto lasciare la sua Cesena ma che è stato ancora peggio tornarci a fine carriera. Adesso è diventato un gigante cattivo e imbolsito, su cui i vecchi amici invidiosi e la moglie sfogano le loro frustrazioni. Minacce gravi, continuate e in concorso, con porto d’armi improprie, lesioni, ingiurie e sequestro di persona con tentata violenza privata, una formula che ha già imparato a memoria. La gente già lo guardava con diffidenza, adesso sarà ancora peggio. E probabilmente gi toccherà restare in carcere più di una notte. Lui che ha vinto tutto e poi è tornato a casa, in provincia, spinto dal miraggio della gioventù e della passione per la pesca.

È tornato vicino al suo mare, agli amici di sempre e alle domeniche come piacciono a lui. Stare in famiglia, tutti riuniti, mangiare, bere. Un buon bicchiere di vino, un gioco di società, una partitina a carte, la famiglia. Per questo aveva lasciato la società che non lascia mai a piedi i suoi vecchi figli andati in pensione, neanche i più scemi. O almeno è questo che diceva alla gente. Ma la verità è che la pesca gli piaceva di più da ragazzo, allora sì che era una passione, la sua vocazione, il suo destino. Ora è tardi. Il calcio, Milano, Sacchi, Zenga, Pagliuca e quella presenza in nazionale mai arrivata gli hanno tolto il gusto di tutto, anche dei ricordi.

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L’uomo si sdraia su una panca, troppo corta e fragile per contenere il suo metro e novantotto. La panca scricchiola minacciosamente sotto il suo peso. Lentamente, alla rabbia subentra la stanchezza. Nel dormiveglia i pensieri corrono veloci, spinti dall’alcol, tra i ricordi e i rimpianti. Gatteo a Mare. Da solo sulla sua barca a motore, con il sigaro in mano e la canna tra le ginocchia, in attesa di un branzino. Se abbocca un pesce piccolo lo ributto in mare, anzi lo ributto pure se è grosso, così, perché mi va. Non mi dovete rompere il cazzo. Da soli si sta meglio in barca, nessuno che ti passa dietro. E comunque la sua stazza occupa metà del piccolo scafo. Il pesce quando arriva va preso. Il pesce è come il pallone. Quando è alle spalle non c’è più possibilità d’intervento o salvezza.

Chissà i portieri di pallanuoto come fanno, cosa gli passa per la testa, cosa gli passa dietro, cosa gli passa sotto i piedi, sotto il pelo dell’acqua. E se ci fossero i pesci? I pesci e la porta da calcio, nel mare, prendere tutto perché tutto va preso, assicurarsi che dietro le spalle non ci sia assolutamente niente, nessun furto, nessun gol. Perché dietro le spalle è già troppo tardi. E poi ancora il sigaro, la canna che tira, un grosso branzino. Ci potrebbero mangiare in quattro o potrebbe anche mangiarselo tutto lui, da solo, magari lì sulla barca. Nessuno mi deve rompere il cazzo. 

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I pensieri rallentano, il respiro si fa più sereno e l’uomo trova il sonno, e nel sonno il sogno. È a San Siro, il giorno in cui ha battuto il record. Il volto di Kolyvanov è in primo piano, illuminato a giorno da un sole eccessivo. Qualcosa che non torna, Il volto di Kolyvanov è deformato, sembra un pesce d’acqua dolce, o forse uno storione. Poi il sole se ne va, e un’attimo prima di scomparire Kolyvanov ha la faccia dell’adolescente rapito dagli uomini neri.

L’uomo si risveglia, ormai è quasi l’alba. Perché nessuno viene a dirgli niente? Fuori di lì nessuno gli darà pace. Forse per evitare il carcere dovrà andare ai servizi sociali. Lavorare, mettersi a dieta, smettere di fumare. Ha un conato di vomito. Si sdraia di nuovo e torna ancora una volta al grande litorale di Cervia, a quella calda domenica di un tempo lontanissimo in cui lo hanno strappato al suo amore per la pesca e se lo sono portato via.