La rivoluzione del Boro

La rivoluzione del Boro
31 Ottobre 2014 Gabriele Crescente

Omar Saleem, The Guardian

Non mi è mai importato molto del Middlesbrough Football Club. Da ragazzo pensavo che fosse una società inutile, con una squadra mediocre, uno stadio nuovo di zecca e uno sparuto gruppo di tifosi fedeli. A metà degli anni novanta, però, le cose cambiarono all’improvviso. E io cambiai idea.

Dopo la promozione in Premier League nel 1995, i vertici della società del nordest pensarono che valesse la pena di mettere mano al portafogli per aiutare il più promettente allenatore d’Inghilterra, Bryan Robson (sì, proprio quel Bryan Robson). Inizialmente si parlò dei classici giocatori senza infamia e senza lode. Poi, all’improvviso, arrivò la firma di Juninho. “Juninho?”, pensai. “Ha soltanto un nome. Interessante. Un brasiliano nel Teesside, chissà che altro accadrà?”. Accadde che il Middlesbrough comprò un altro brasiliano, Emerson, un mastino del centrocampo con una calvizie galoppante. Sembrava un essere primitivo: sciatto, disordinato e serioso fino al ridicolo. Tutto il contrario di quello che ci si aspettava da un brasiliano. Ormai ero in piena frenesia e aspettavo con ansia le prossime mosse.

Poco dopo arrivò dalla Juventus Fabrizio Ravanelli, fresco vincitore della Champions League. Mi sono sempre chiesto per quale motivo avesse lasciato Torino per trasferirsi a Middlesbrough. Poi sono andato a Torino, qualche anno fa, e ho scoperto che è uguale a Middlesbrough. Detto questo, Penna Bianca era un grande giocatore. Un realizzatore puro, intelligente nei movimenti e letale sotto porta. Calciava bene con entrambi i piedi e portava con sé tutti i trucchi che ti insegnano in Italia, oltre all’aria sospetta che hanno le persone i cui capelli sono diventati bianchi troppo presto. Da tifoso del Liverpool ricordo benissimo la sua spettacolare tripletta contro i Reds, un 3-3 nella partita inaugurale della stagione 1996-1997.

E non era finita lì. Arrivarono anche Mikkel Beck, nazionale danese del Fortuna Köln, e Branco, 72 presenze con il Brasile e una pancia grande quanto il suo salario. Fu così che nacquero le Nazioni Unite del calcio. Non ho mai scoperto chi abbia inventato questa definizione, ma mi fa sempre ridere. Robson mise assieme una squadra accattivante. Qualcuno pensò che potesse addirittura competere per il titolo. La storia però andò diversamente: l’esperimento fu un’enorme delusione. Al termine della stagione il Boro retrocesse, ma non prima di aver sbalordito i tifosi di tutto il paese e reso Clayton Blackmore e Robbie Mustoe un po’ più esotici di quanto non fossero.

Il Middlesbrough era una squadra che pensava una partita alla volta, e forse è per questo che quell’anno arrivò a giocarsi a Wembley le finali di Fa Cup e Coppa di lega. Il Boro le perse entrambe, ma sulla partita secca poteva spaventare chiunque. Vent’anni dopo è facile guardare al passato con ammirazione, ma posso soltanto immaginare quanto sia stata frustrante quell’epoca per i tifosi del Middlesbrough. Gli alti e bassi della stagione 1996-97 (e la retrocessione finale) non rendono giustizia al talento della squadra e al fatto che sia stata una delle compagini più divertenti di quell’epoca. A fine anno il Middlesbrough aveva segnato 51 gol, piazzandosi all’ottavo posto nella classifica delle marcature nonostante la retrocessione. Ravanelli segnò 16 gol uno più bello dell’altro, comprese due triplette contro il Liverpool e il Derby. Juninho ridicolizzò i difensori e i centrocampisti avversari con i suoi scatti improvvisi, il suo controllo di palla impeccabile e i suoi tiri velenosi. Il brasiliano, che condì il tutto con 12 gol, emerse come uno dei più talentuosi giocatori del campionato insieme a Georgi Kinkladze ed Eric Cantona.

A pensarci bene l’eredità di quella squadra non nasce dai risultati ottenuti sul campo, ma dalla ventata di fantasia che portò in Inghilterra. Il Middlesbrough combinava l’estrazione operaia del calcio inglese con un gustoso sapore cosmopolita, un’accoppiata che negli anni successivi avrebbe fatto la fortuna della Premier League. Il 1996-97 è uno spartiacque: la stagione fallimentare di una squadra, il Middlesbrough, portò al successo di un intero movimento. Il Middlesbrough inaugurò la prima ondata di migrazione massiccia verso la Premier League. Senza la squadra del nordest probabilmente non avremmo mai visto gente come Jay-Jay Okocha, Paolo Di Canio, Eyal Berkovic e Christophe Dugarry, giocatori che fecero capire al mondo del calcio che l’Inghilterra era pronta a voltare pagina. Per non parlare di quello strano francese dai capelli arruffati che approdò all’Arsenal e per prima cosa vietò ai giocatori di ingozzarsi di barrette Mars (Arsene Wenger). Tra le altre cose, la squadra di Robson dimostrò che anche le piccole avevano qualcosa da dire. I poteri forti del calcio inglese non avevano più il monopolio sugli sporadici stranieri che decidevano di giocare nel nostro campionato.  Anche il Riverside (o Cellnet Stadium, come lo chiamavano allora) faceva la sua parte. Il campo era perfetto e i sediolini rossi brillavano più che in qualsiasi altro impianto.

Anche se non tutti pensano che il Boro del 1996-97 sia stata una squadra di pionieri, non dobbiamo dimenticare che all’epoca Duncan Ferguson sfasciava teste al Goodison, Dion Dublin segnava gol pesantissimi per tenere in vita il Coventry, Dean Sturridge era uno dei più promettenti giovani del campionato e il Wimbledon era ancora una squadra di calcio. Oggi i contratti multimilionari per i giocatori stranieri sono la norma, ma a quei tempi si contavano sulle dita di una mano. Gli inglesi potevano farsi un’idea (vaga) del calcio europeo soltanto guardando Football Italia e James Richardson su Channel 4. Osservare da vicino la tecnica degli stranieri era qualcosa di straordinario. A volte penso che la mia generazione sia la più viziata nella storia del calcio inglese. Forse nel 1996 l’idea rivoluzionaria di arruolare gli stranieri per rivitalizzare il nostro calcio era ancora poco apprezzata, e in un certo senso lo è ancora oggi: è solo che abbiamo accettato la realtà. Comunque sia, quell’anno i sogni dei ragazzini diventarono realtà mentre guardavano i giocolieri brasiliani e i raffinati italiani portare la luce nella Premier League.

Ma la stagione finì, e con essa il sogno dei ragazzi. Il Middlesbrough fu retrocesso a causa di una penalizzazione di tre punti rimediata per aver forzato il rinvio di una partita contro il Blackburn (a causa di malanni e infortuni, la squadra non aveva 11 giocatori da schierare). Una conclusione patetica dopo un inizio brillante, e la dimostrazione che le fondamenta del progetto non erano solide. O forse non erano mai state pensate per durare a lungo. Molti si chiedono cosa sarebbe potuto accadere al Cellnet se la squadra si fosse salvata dalla retrocessione. Sarebbero arrivati altri grandi nomi? Dove sarebbe il Middlesbrough oggi se quel giorno avesse rispettato gli impegni e avesse messo in campo 11 giocatori contro il Blackburn? Per quanto mi riguarda ricordo una stagione folle ed esaltante, e immagino che i tifosi del Boro provino per quella squadra lo stesso affetto che provo io. In fondo è tutta una questione di bellezza e immaginazione.