Osteria al Cannibale

Osteria al Cannibale
16 Ottobre 2015 Michele Manzolini

La tavola è imbandita, ma l’ospite tarda ad arrivare. L’oste è un uomo attempato, sulla settantina, tarchiato, piccolo di statura. Un ometto irrequieto. Ha spesso l’aria corrucciata di chi fatica a capire l’interlocutore, anche durante le conversazioni più frivole. Non ha mai amato parlare con gli altri e tantomeno davanti a un microfono. Non ha mai amato granchè, in effetti. Da ragazzo sembrava già un anziano, uno di quelli che al bar vengono ammirati o sopportati, a seconda dei punti di vista. Uno di quelli che stanno sempre a criticare il gioco della squadra, le convocazioni del CT, il sermone del parroco, i prezzi della troia del paese. Ma in chiesa, e a troie, continuano ad andarci ogni domenica. E la partita la guardano, sempre. Muti, fra il calcio d’inizio e la prima azione saliente. Frementi, in sublime attesa del primo liscio, della prima papera del portiere, per iniziare la propria tiritera. Indemoniati, fino al fischio finale.

Gli ultimi minuti vissuti in un silenzio irreale, senza guardare la partita ma con lo sguardo fisso sui volti degli altri spettatori. Per leggere un tic, un’espressione di estasi o afflizione, allo scopo di adattare il giudizio finale a quello della moltitudine. “Ve l’avevo detto, io”, sempre e comunque. Una sola volta nella sua vita è stato sicuro di vincere. Ha preparato il discorso in anticipo, ha parlato senza guardare le reazioni di nessuno, ha tenuto il mento, uno dei menti, alto, quasi littorio. Forse senza accorgersene ha assunto una posa vista sull’illustrazione di un libro di storia, alla scuola d’avviamento. Quella di un altro piccolo gigante: il piccolo caporale, il “rapato”.

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Da quando ha ricevuto la nomina a presidente della Federcalcio ha anche cambiato occhiali, per assumere un’aria più moderna, giovanile. Eppure il titolo col quale la sua vittoria è stata venduta ai giornali è proprio quello di un ritorno al passato, al calcio pane e salame. Ecco, una cosa che gli piace sono le metafore culinarie. Le banane fanno bene, sono piene di potassio, in fondo. Mangiare gli piace, come piace ai suoi amici più intimi, i suoi angeli custodi, come gli capita di chiamarli in privato. Loro dicono “magnare” con l’accento romano che l’oste finge di adorare. “Ma chi lo vota a quer’ regazzino. Vole cambià tutto, ma che vole cambià? ‘Na vorta che te famo presidente se magnamo tutto, Carlé. Nun te scordà de chi so’ l’amici tua.”

Forse per i bocconi di troppo, durante i discorsi sembra masticare le sillabe, più che scandirle. Spesso si interrompe per un fastidioso reflusso gastrico. La sua espressione diventa allora ancora più ottusa: lo spazio al di sopra della bocca si gonfia, per poi rilassarsi, ributtando giù il gas e le particelle di acido. Raggiunge a fatica, con la lingua rasposa, un filamento di carne, un nervetto, un ossicino intrappolato nella angusta regione fra l’ugola e il dente del giudizio. Ma c’è ancora un ultimo nervetto, scoperto, del quale si vuole liberare. Lo aspetta ansioso, nella sua osteria.

Nelle sue orecchie il rumore della cucina è coperto dal ticchettio metallico dell’orologio a cipolla che porta nel taschino. Lo strutto ha già iniziato a sfrigolare nella casseruola e la cucina è pervasa dall’odore acre e dolciastro, misto a quello dell’aglio e dell’alloro. Le padelle tintinnano pronte ad accogliere tagli pregiati, rari e di origine misteriosa. È arrivato il momento di scendere in cantina, nelle celle frigorifere. Il suo momento preferito. Sulla grata di ferro della prima cella, quella della carne più fresca, campeggia una targhetta con il numero 2 0 1 6. Sotto i numeri, a matita, quasi impercettibile sul legno fradicio, un piccolo scarabocchio dice “Francia”. La cella consiste di una ghiacciaia improvvisata, un tavolaccio di legno, ventitré ganci da macellaio arrugginiti. 

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Al primo dei ganci è appesa una grossa costata, dalla quale penzolano ancora un cuore, due polmoni e una milza. I polmoni sono scuri, probabilmente quelli di un fumatore. L’oste la guarda e sorride. Quasi con scherno si mette sull’attenti, facendo il saluto militare e sbottando: “Capitano!”. Col passo dell’oca, ancora ridacchiando, l’oste si appresta a ispezionare i tagli poggiati sul tavolo. Le teste appuntite di De Sciglio e Darmian sembrano ancora più uguali, ormai livide e dissanguate. Ne prende in mano una più piccola, con lo scalpo aperto e gli occhioni chiusi in un’espressione pacifica. Con precisione chirurgica l’emisfero cerebrale destro è stato asportato e fritto qualche giorno prima. Quello sinistro, più sviluppato e con la corteccia visibilmente ispessita dall’uso del piede destro, è ancora intatto. Da qualche parte, nell’ippocampo, forse sono ancora presenti i tagli, i lanci in profondità e le aperture della testa pensante all’ultimo Europeo, quella di Marco Verratti. 

L’oste riposa la testa sul tavolo, si lecca le dita e un po’ contrariato si dirige verso il gancio successivo. Il corpo appeso all’uncino di ferro è stato quasi del tutto consumato. Un ultimo piacevole taglio è ancora là, ben preservato. Si tratta dei glutei torniti di Candreva, ben sviluppati dalle frequenti contrazioni sui tiri dalla distanza. “Muscoli fibrosi, ottimi per il bollito.” Sotto alle chiappe due corpicini, il ventiquattresimo e venticinquesimo dei preconvocati, giacciono in una vasca piena di ghiaccio, intatti, inviolati. Uno è giallino e glabro, l’altro scuro e setoloso. “I miei piccoli me li tengo per me, io i giovani li valorizzo”, sussurra l’oste un po’ emozionato, leccandosi le labbra e ricordando Sebastian e Lorenzo trotterellare sui prati di Coverciano. Per terra, un corpo floscio, senza occhi e privo di tono, sembra essere stato ignorato del tutto se non per le orbite svuotate. “Monto, Monto. Te lo diceva il prete che si diventa ciechi.”

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Una possente coscia dalla pelle scura pende, infilzata attraverso il piede destro, dall’ultimo degli uncini. “Te, eri cattivo. Hanno fallito tutti: Roberto, Cesare, Sinisa e poi Antonio. Ma io, con le mie manine di fata, t’ho fatto diventare buono. Che profumo quel Suya nigeriano sulla brace, in giardino. Ho imparato a farlo appositamente per te. Gli amici ancora se lo ricordano. Grazie Mario.”

Un rumore distrae l’oste e ne interrompe le reminiscenze culinarie. Un giovane uomo sta scendendo le scale della cantina. Il vecchio si affretta a chiudere la porta, pulendosi le mani sul grembiule bianco ormai rosato. Il giovane è un segaligno, allampanato, con la faccia cavallina. Guarda l’oste e si passa una mano fra i folti capelli neri, contraendo le labbra carnose in un sorriso di circostanza. 

“Benvenuto, Demetrio. Andiamo su, è quasi pronto.”

Dopo le prime diffidenze, le chiacchiere sull’Europeo perso ai rigori con la Germania e qualche bicchiere di vino, i due commensali iniziano a scaldarsi. Il cibo è abbondante e il giovane ospite sembra stupito dalla raffinatezza dei piatti. Si scambiano qualche complimento, per la prima volta. L’oste racconta un paio di barzellette sconce sugli spogliatoi del calcio femminile, pruriginoso retaggio dei tempi in cui era il re della Lega Dilettanti. 

“Lo sai cosa ci vuole adesso? Un bel cognac. Scendiamo in cantina.”

Mentre scendono le scale la conversazione si affievolisce, fino ad ammutolire. Nel buio della cantina, si sente solo il ticchettio dell’orologio. 

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“Prego, vieni, vieni, un po’ più in là.” 

L’oste indica una grata di ferro, il cui catenaccio, coperto di grasso e polvere, sembra essere rimasto intonso da decenni. 

“Purtroppo, sai, alla mia età non funziona più niente. E non solo qui sotto” dice scoppiando a ridere e indicando la regione del pube, ingrossata come quella di una donna anziana e incontinente. “Guarda un po’ se ci vedi te, che sei giovane, cosa c’é scritto sulla porta?”

Il giovane sorride e volta le spalle all’oste. Sgrana gli occhi. Inizia a leggere, senza capire o porsi domande, ad alta voce.

“Mille…novecento…novanta…quatt…rrrrrrrr.” Le labbra del giovane gorgogliano mentre un fiotto di sangue schizza sulla grata. 

Il vecchio guarda compiaciuto il corpo dell’ospite afflosciarsi al suolo, la gola perfettamente tagliata da orecchio a orecchio. Apre la porta e lo trascina nella cella. Si siede per terra, come un bambino, carezzando la testa dell’ospite. 

“Questa si che è una bella annata. Guarda qua, i Baresi, i Tassotti, ce li invidiavano in tutto il mondo, ce li invidiavano. Non ci son più i difensori di una volta, in Italia. Povera Italia. Povera Italia. Non c’é rimasto niente. Nemmeno il calcio.”

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