Nicolas Anelka e la tigre

Nicolas Anelka e la tigre
12 Ottobre 2015 Johnny

Da quando l’Uomo si crede l’essere più potente del pianeta Terra, l’ordine cosmico è in pericolo. Il collo di Vishnu è adorno di una ghirlanda fatta con tutti gli esseri viventi dell’Universo. Nessuno di essi può vivere senza tutti gli altri e se l’Uomo insisterà nella sua vana presunzione, una perla della sacra collana di Vishnu si sfilerà e tutto il mondo cadrà nell’abisso di Mara, il Dio della Morte. Per ristabilire l’armonia della vita, Vishnu, chiamò nella foresta del Maharashtra, uno dei suoi potenti Avatara: Kalkin la tigre.

Una tigre femmina vaga per le foreste dei monti Ghati. Un giorno vede un uomo tra gli alberi. L’uomo ha un pallone in mano, si chiama Abdul-Salam Bilal. La fiera incontra raramente esseri umani. È stupita da quella visione. La vita della tigre è costruita su costanti ritorni quotidiani e un uomo con un pallone non l’aveva mai visto prima. Abdul inizia a palleggiare sulla riva del fiume che scorre nella radura, ha barba nera e folta. Indossa una maschera dietro la nuca. Si dice che la maschera portata al contrario protegga dagli assalti delle tigri che usano attaccare gli uomini alle spalle perché non sopportano lo sguardo delle loro prede. La tigre però si pone davanti a lui e lo fissa dritto negli occhi neri. Abdul smette di palleggiare ma non ha paura. Restituisce lo sguardo che penetra nell’iride profonda della bestia e apre la sua mente.

Il campo da calcio della scuola di Trappes, nel nord-est della Francia è spelacchiato. Il vento freddo scuote la sciarpa rossa di sua madre che lo invita urlando a tornare a casa, mentre lui  protesta perché vuole giocare a pallone fino all’ultimo respiro, fino a crollare felice e privo di energie nella terra fangosa che circonda il dischetto del rigore. Il primo allenamento al PSG nel 1995 è a soli 16 anni con leggende come Le Guen, Djorkaeff e Raì che corrono al suo fianco. Sono gli anni della generazione d’oro francese, quella dei nati a fine ’70: Henry, Trezeguet e poi lui, la promessa più luminosa. Troppo giovane per partecipare allo storico mondiale del 1998 in casa e, nonostante la vittoria, troppo giovane per essere protagonista in campo all’Europeo due anni dopo. I ricordi si fanno veloci, confusi: la maglia biancorossa dell’Arsenal si sbiadisce fino a diventare la camiseta blanca del Real Madrid per poi riprendere il famigliare blu intenso del PSG. Si colora di rosso Liverpool e poi muta in diverse sfumature dall’azzurrino a un blu caldo, dal Manchester City al Chelsea, con in mezzo chiazze di bianco Bolton e di giallo Fenerbache. Un arcobaleno di nuove occasioni per scrivere il suo destino di campione. La percezione di vivere un presente che non è mai all’altezza del futuro che il calcio ha immaginato per lui è costante. Imprigionato nel limbo della promessa incompiuta, troppo forte per essere uno qualunque, non abbastanza da divenire un fuoriclasse. Il futuro diventa presente, il presente si trasforma in passato e il passato ritorna come tormento.

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Abbracciato a un nuovo dio, sceglie un nuovo nome ma non basta per dare una sterzata alla carriera. Diventa il panchinaro di lusso, la prima riserva quando il titolare si rompe. Nel Chelsea gioca quando Drogba si fa male. Dieci anni prima, sempre a Londra sullo stesso lato del Tamigi ma in un altro quartiere, aveva approfittato dell’infortunio di Ian Wright. Una decade e non è cambiato niente, nessun passo avanti, un eterno ritorno al punto di partenza. Drogba torna in formazione e il francese cambia ruolo e da attaccante centrale, si sposta a sinistra e dalla sinistra arretra fino a centrocampo per aiutare la squadra nel ripiegamento difensivo: attaccanti moderni, li chiamano. Lo spostamento più che un’idea tattica è un estremo e vano tentativo di trovare la propria zolla, la fetta di campo dove finalmente far esplodere tutte le potenzialità ancora celate. La nuova posizione però non è altro che la rinuncia definitiva a diventare quello che sarebbe dovuto essere e che non è mai stato.

Costruisce il suo tempio d’oro in Cina a Shanghai, dieci milioni di euro annui per fare il giocatore-allenatore ma l’avventura dura pochi mesi. Il grande calcio questa volta macchiato di tinte bianconere lo richiama a sè un’ultima volta per la definitiva occasione di redenzione: un altro titolo vinto da non protagonista, come ai tempi dei Gunners come all’Europeo del 2000. Nessun passo avanti e di nuovo al punto di partenza.

Nella foresta del Maharashtra dove mito e realtà si confondo, Abdul trova nello sguardo della tigre la consapevolezza e la forza per ripartire un ultima volta. Il cerchio che imprigiona la sua carriera è spezzato definitivamente. Abdul inizia a piangere, sono lacrime di rinnovata forza, di consapevolezza. La sua anima è sincera e colma d’amore. Tutti molto presto conosceranno la forza del suo amore. La tigre chiude gli occhi, rompendo il legame magico con l’uomo, prima di sparire nella foresta. Il rumore sordo dell’acqua che nell’alveo del fiume si schianta sulle pietre lisce copre qualsiasi altro suono. Abdul rimane immobile con il suo pallone tra i piedi.

In quel momento, la perla Uomo si ricompose nella sacra collana di Vishnu, e il Dio Preservatore della Vita sorrise, dal fondo del suo nascondiglio nell’antica foresta del Maharashtra.