L’impero del sole

L’impero del sole
5 Agosto 2015 diego cavallotti

Iwata, Giappone, marzo 1994

“Ma come minchia si dice ‘Pronto’ in giapponese? Come? Moscì moscì? Che cazzo è, un prodotto per capelli?”. Totò Schillaci, illuminato dalle lampadine che seguono il perimetro di uno specchio, cerca di capire dove, sotto il riporto, siano caduti altri capelli. La calvizie ha lo stesso decorso di una malattia mortale. Non progressivo, ma a improvvise riacutizzazioni: ogni ricaduta porta via più globuli bianchi, più capelli, più possibilità di sopravvivere. E com’è possibile sopravvivere a Pressing, alla Domenica Sportiva e a Mai Dire Gol se il cuoio capelluto diviene sempre più visibile e il riporto sempre più grottesco?

Totò è sicuro che, dopo il biennio interista, non avrà molte possibilità di sopravvivere in Italia, almeno non ad alto livello. Secondo una teoria molto diffusa i giocatori danno il meglio di loro stessi tra i ventisette e i trent’anni: prima è solo un lungo periodo di preparazione alla fase in cui si tenta di passare dall’anonimato alla notorietà. Dopo, per chi riesce a giocare tra i professionisti, comincia la corsa a strappare il contratto migliore e a mantenere inalterato il precario equilibrio tra tenore di vita e ultime possibilità di guadagno. E Totò, nel 1994, ha ormai sulle spalle trent’anni e una stagione non particolarmente felice all’Inter: nove presenze, cinque gol e molti infortuni. A febbraio, poi, dopo l’esonero di Bagnoli, si comincia a respirare aria di smobilitazione: il presidente Pellegrini, che lo ha voluto a Milano dopo il fortunatissimo periodo juventino, è alla fine del suo ciclo (cederà la società a Moratti un anno dopo) e per la stagione 1994/1995 si sta già preparando all’arrivo di Ottavio Bianchi.

“E che dovevo fare, Ramon, dovevo stare lì a fare panchina con Marazzina? Molto meglio venire qui, a Iwata, anche se i giapponesi sono tutti uguali e io non capisco una minchia”. Ramon, il suo assistente nippo-filippino, lo guarda alzando leggermente lo sguardo dalle Lettere da Sodoma di Dario Bellezza e fa spallucce. Gli hanno detto che c’era un italiano, uno importante che aveva bisogno di un traduttore e aveva accettato subito. A lui l’Italia piace: ha studiato per sei anni a Roma. Laurea in Lettere, 103. Tenendo conto che le uniche parole che sapeva quando si era iscritto erano quelle più simili allo spagnolo, non poteva non essere soddisfatto. E ora è qui, a fare il badante a questo italiano che continua a guardarsi i capelli.

Con Schillaci i problemi sono due: continua a ripetere che i giapponesi sono tutti uguali e che, a lui, gli arrusi lo innervosiscono. Cioè, non è che lo rendono nervoso davvero, è che non condivide certe loro manifestazioni. Questo era quello che aveva detto a Ramon quando si erano visti per la prima volta, dopo che aveva capito che Ramon, forse, un po’ arruso era. L’interprete nippo-filippino, da parte sua, non aveva battuto ciglio: era abituato a battute goffe che venivano immediatamente corrette da battute ancora più goffe.

Ora, però, Schillaci è lì con lui in quel camerino. E sta letteralmente impazzendo: ha paura che tra pochi minuti i giornalisti giapponesi notino il vistoso riporto e lo massacrino proprio durante la presentazione organizzata dal Jubilo Iwata. Ramon, a cui quella figura di calciatore ormai in declino comincia a fare un po’ pena, tenta di rassicurarlo: “Tranquillo Totò, qui nessuno ha il tuo talento. Ricordi che cosa diceva Mister Scoglio: ‘Non ho mai visto nessuno che abbia la stessa voglia di fare gol di Totò Schillaci’? Tu sei ancora quello, Totò”, e aggiunge con la precisa volontà di spargere sale sulla ferita: “il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Totò lo guarda corrucciato: la battuta non è casuale, l’ha fatto apposta. Vorrebbe spaccargli la testa contro il muro ma non può, gli serve. E poi s’è appena messo a posto il riporto. Basta un movimento brusco a scombinare la capigliatura.

“Dai, ToTokio, ti stanno aspettando”, gli dice Ramon e Schillaci si lascia convincere. Si è segnato a biro, sulla mano destra, le cose da dire. Ha il palmo madido di sudore e l’inchiostro sta sbiadendo velocemente, ormai è possibile leggere solo pezzi di frasi:

Sono molt(…) o(…)glioso di (…) qui, nella terra dell’Impero del Sole. Io sono un grande professionista. Qua(…)o ho saputo che qui in Giap(…) la puntualità conta più di tutto, ho (…) a venire agli appunta(…) con m(…)’ora di anticipo. (…) al Jubilo Iwata mi troverò benis(…), perché mi troverò in (…)miglia. Solo (…) capisco: qui siete tutti uguali, ma come minchia fate a riconoscervi?

Genova, Italia, luglio 1994

Miura Kazuyoshi aveva fatto molta fatica a capire che cosa gli avesse detto veramente Aldo Spinelli, il presidente del Genoa. Se si doveva basare sulla traduzione di Kantaro, il suo assistente-interprete, il messaggio suonava più o meno così: quando arrivi allo stadio, devi presentarti ai giornalisti con un vibratore in mano, sorridendo e porgendo il fallo a tutti in segno di rispetto e di reciproca amicizia. Kazuyoshi era un po’ preoccupato. Gli avevano descritto gli italiani come persone decisamente stravaganti e un po’ disinibite, ma questo gli sembrava troppo. Aveva viaggiato per il mondo da quando aveva compiuto quindici anni: nel 1982 si era trasferito in Brasile per giocare nelle giovanili della Juventus di San Paolo, mentre nel 1986 aveva esordito nel campionato paulista con il Santos.

Era tornato in Giappone solo nel 1990, portandosi con sé il fascino di chi aveva imparato a giocare a calcio nella sua Mecca. Ma non c’era solo questo: in quegli otto anni Miura era riuscito a ripulire la propria identità, scrollandosi di dosso la reputazione di figlio della yakuza (suo padre, Nubu Naiya, era infatti implicato negli affari della mafia giapponese) e adottando il cognome della madre. Era stato ingaggiato dalla Yomiuri, una squadra fondata a Chofu nel 1969 con il nome di NTV Soccer Club all’interno di un progetto di sviluppo e promozione del calcio in Giappone della holding editoriale Yomiuri Shimbun. Durante la permanenza di Miura, nella stagione 1991-1992, la Yomiuri, in previsione della creazione di una lega professionistica giapponese (la J-League) si era data la denominazione commerciale di Verdy Kawasaki: da qui Miura parte alla conquista del calcio europeo, arrivando direttamente nella Genova rossoblu.

Sembrerebbe una storia a metà tra Charles Dickens e Holly e Benji se non fosse per una questione di assoluta rilevanza. Miura arriva a Genova non per ineguagliabili meriti sportivi ma perché Spinelli capisce che il giocatore è un affare di marketing a costo zero. L’ingaggio non verrà pagato dalla società ma dagli sponsor, e in più, il Genoa riceverà enorme visibilità sui mercati televisivi orientali.

Il problema è che a Kazuyoshi, nonostante abbia passato otto anni in Brasile, tutti gli occidentali sembrano uguali. Anzi, tutti gli italiani gli sembrano uguali. Non riesce a distinguere le fisionomie, non ci è mai riuscito. Tutti con i capelli scurissimi o brizzolati. E pieni di peli in faccia: sembrano cavernicoli urbanizzati da poco. E ora è lì, in camerino insieme a Kantaro, terrorizzato dai giornalisti italiani, che, come gli è stato detto da alcuni suoi amici, sono dei terroristi con la penna in mano. In più Kantaro sembra non essere molto a suo agio con la lingua, come dimostra la traduzione del discorso di Spinelli, anche se gli hanno assicurato essere il migliore sulla piazza.

Kazuyoshi lo guarda perplesso: dove recupera il vibratore da mostrare in segno di rispetto ai giornalisti italiani? Kantaro sta consultando il suo piccolo dizionario giapponese-italiano, in evidente affanno. No, non deve mostrare un vibratore, ma la maglia. Ora è Kantaro a essere in difficoltà. Come fa a dire a Miura di avere completamente sbagliato la traduzione? Le alternative sono due: o fa finta di niente e lascia che il giocatore faccia una figura di merda alla sua prima apparizione italiana (salvo poi fare finta che sia stato Kazuyoshi a capire male) oppure glielo dice adesso, correndo il rischio di venire licenziato in tronco.

“Kantaro, sei proprio sicuro?”, chiede Miura. Kantaro lo guarda e, sorridendo, annuisce. Miura, corrucciato, sprofonda nella poltrona. Non pensava che in Italia potesse essere così difficile. Aveva lasciato il Giappone da star, a ventisette anni, quando un giocatore entra nel suo migliore periodo di forma psicofisica. E poco importava che il suo arrivo fosse legato a una scorciatoia, a una manovra di marketing di una società in crisi: aveva comunque la possibilità di dividere lo spogliatoio con ottimi giocatori come Tacconi e Skuhravy e di essere guidato da Franco Scoglio, uno dei migliori allenatori in circolazione. Anche se, quando lo aveva incontrato, il Professore non era stato particolarmente affabile: Kantaro continuava a ripetere “ad minchiam”, sogghignando e dicendo che si trattava di un’espressione intraducibile.

Kazuyoshi si alza dalla poltrona, deciso ad andare a prendere personalmente il vibratore. In Giappone è partito da zero ed è arrivato a sposare una popstar, Shitara Risako. Non sarà poi così difficile trovare un sexy shop a Genova, nella Bangkok italiana. Miura guarda Kantaro, che gli sembra sempre più spaesato. In maniera deferente, facendogli un inchino, il traduttore gli porge un biglietto. È la conclusione del discorso da tenere davanti ai giornalisti:

Dopo avere visto all’opera Juve, Inter e Milan mi sono detto che dovevo venire qui per misurarmi con i campioni più forti e realizzarmi come calciatore: i soldi contano fino a un certo punto. Ho deciso di venire in Italia perché questo è il campionato più bello del mondo: sono sicuro che diventerà il mio Impero del Sole. Non riesco a capire, però, una cosa. Voi italiani mi sembrate tutti uguali: ma come fate a riconoscervi?