Il sogno di Cassano

Il sogno di Cassano
13 Gennaio 2017 diego cavallotti

“Questi futili, patetici tentativi di conservare traccia di noi! Come se ogni momento fosse veramente importante!”, Antonio Cassano si tolse gli occhiali dalle lenti spesse e li appoggiò di fianco al suo portatile. Era sera e una lampada da tavolo in stile art nouveau illuminava perfettamente il suo volto butterato. Davanti a lui, L’occasione storica di Guido Dorso e La rivoluzione liberale di Piero Gobetti dialogavano perfettamente con la Storia del Partito d’Azione di Giovanni de Luna. Da alcuni anni, ormai, Antonio si era dedicato allo studio del pensiero liberale tra gli anni Dieci e gli anni Quaranta in Italia. Per lui era stata la naturale prosecuzione della propria esperienza politica, condotta nelle fila dei Radicali Italiani. Negli anni della militanza, infatti, era giunto a conclusioni lapidarie: il problema italiano è sempre stato di natura culturale e ha sempre rimandato alla mancata egemonia del pensiero liberale. Simili mancanze, a suo avviso, avevano condotto all’ascesa del fascismo prima e a cinquant’anni di governo democristiano della repubblica: l’incapacità di assumersi responsabilità, la necessità di addossare agli altri tutte le colpe, la mancanza di libertà che diviene mancanza di fantasia gli sembravano le costanti della sua esperienza lavorativa e relazionale.

“Guarda sto qui” pensò scorrendo la propria pagina di facebook “ha sempre avuto una faccia da cazzo prima, quando stava alle superiori, ‘mo adesso a Milano si veste con camicie bianche e c’ha lo sguardo da geometra assassino”. La persona ritratta nella foto, un suo compagno di ginnasio, sorrideva in maniera imbelle e stupida insieme ad altri piccoli dirigenti di una nota società finanziaria. Una posa che Antonio, sempre molto attento alla propria immagine come tutti gli introversi narcisisti, non avrebbe mai assunto. Inoltre, non avrebbe mai accettato di farsi fotografare con così tante persone. Non erano attacchi di panico: era più una sensazione di fastidio, come se avere altre persone intorno fosse automaticamente squalificante. Una sorta di perpetua limitazione della propria libertà, a cui reagiva con uno sprezzo capace di ferire profondamente gli altri.

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Le gocce di diazepam, prese poco prima di mettersi a spulciare i profili dei propri contatti su facebook, cominciarono a fare effetto. Antonio si addormentò e, dopo pochi istanti di immagini affastellate e confuse, cominciò a sognare un film francese degli anni Sessanta. Immaginò di essere in Le Grand Amour di Pierre Étaix: in una strada di campagna, con un pigiama rosso e su un letto mobile. Di fianco a lui altri letti lo superavano e lo guardavano: e lui era lì e al fianco una donna con la calottina da pallanuotista che gonfiava la gomma da masticare senza farla esplodere. Antonio urlò: “Sono stato malato di sesso; mia moglie mi ha guarito”, con un accento barese decisamente pronunciato. Dopo pochi metri il letto si fermò. Cassano sentì un forte impulso a scendere dal materasso, togliersi il pigiama e scoprire di essersi messo la maglia e i pantaloncini del Bari: davanti a lui, una folla lo invitava a entrare. Superò lo stretto tunnel e si trovò di fronte al campo e alle tribune del San Nicola. Era il 18 dicembre del 1999 e la squadra biancorossa stava giocando contro l’Inter. Fascetti, come al solito era in piedi a camminare nervosamente. Ora gli sembrava di capirne ogni gesto: in quel momento stava stranamente condividendo le sue convinzioni politiche e la sua visione del mondo. Quando il mister lo vide, gli fece il gesto di chi vuole far pesare all’altro il fatto che sia in ritardo. Antonio si avvicinò, il mister lo squadrò dapprima con un’espressione seria di rimprovero e poi sogghignando, come se alla fine, a persone come Cassano si potesse perdonare tutto. Perché sono naturalmente simpatiche e perché hanno quei lampi di genialità che fanno passare in secondo piano tutto ciò che di respingente ci sia nella stessa persona.

“Dai Antonio, non ti dico un cazzo perché tanto tu non capiresti comunque un cazzo. Vai dentro e gioca come vuoi. Sei un idiota, ma, se si parla di calcio, sei abbastanza intelligente per capire da solo quello che devi fare”. E Antonio effettivamente non capì un cazzo: era come se le sue facoltà intellettive, soprattutto per quanto concerneva la sua capacità di cogliere le connessioni tra le parole e di formulare pensieri astratti, si stessero progressivamente comprimendo fino agli esiti più dissocianti. In compenso, gli sembrava di essere più giovane e più in sintonia con se stesso, cosa che, ultimamente, gli capitava dopo aver fumato un po’ di erba fingendo che fosse oppio in omaggio a Walter Benjamin. Si sentiva al centro di una rete di possibili relazioni di gioco (cosa più ampia del concetto di passaggio): dietro e davanti a lui spazi che si potevano riempire di sombreri e di rabone, alla sua sinistra il dio dello scatto e a destra il dio del piede buono.

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Ma avere il favore degli dei non significa avere tutto e subito. Per diversi minuti – o forse ore? o forse giorni? mesi? anni? – Antonio non toccò palla. Fino a quel momento disperso nel tempo, nell’istante in cui i pianeti si allineano e tutto va bene. Fino al momento in cui un grande giocatore si rivela. Una palla lunga lanciata dalle retrovie. Un calcolo matematico compiuto senza far conti dal corpo. Il pallone che si fa accarezzare dal tacco e decide che non contrasterà questo disegno planetario. Sei gambe che si incrociano, mentre lui rimane sempre lì, attaccato allo scarpino di Cassano. Antonio che guarda per un attimo Ferron in uscita e fa quello ognuno di noi avrebbe fatto: chiude gli occhi, tira e spera che tutto vada bene. Li riapre: riesce a notare solo il rigonfiamento fluttuante della rete e del pallone, l’unico che, tra tutti, non ha mai smesso di guardare.

In quel momento Antonio non capì più niente, forse perché non aveva mai capito niente. Corse sotto la curva a esultare con persone che conosceva da sempre: i suoi compagni di scuola, i ragazzi di Bari Vecchia che lo avevano visto crescere, i genitori degli altri che pensavano non avrebbe mai combinato niente, le sue ex-ragazze. Niente poteva più fermarlo. Poi sì, ci sarebbero state le ingenuità, il dileggio perché, nella sua vita, non aveva mai aperto un libro (“Eh, ma pure Cassano è madrelingua”, come si diceva spesso nei bar e nelle strade del Salento), le sbruffonate senza senso di quando s’era messo in testa che avrebbe cacato in testa a tutti, l’ingrassamento, le battute sul “gordo” Cassano e gli impermalimenti di un giocatore destinato a un lungo tramonto.

“E perché, poi, il tramonto dovrebbe essere una cosa negativa in sé?”, si chiese risvegliandosi di colpo e gettando l’occhio su un altro libro-cardine del pensiero liberale italiano, La rivoluzione meridionale di Dorso. Anche la cosa che lo spaventava di più, l’invecchiamento, la perdita di tutte le possibilità che la giovinezza offre, non gli sembrava poi così cupo. Anche se il tramonto comincia quando ha solo trentaquattro anni. In quell’istante gli sembrò che ogni fase della vita fosse ricca di potenzialità creative e che invecchiare non significava necessariamente diventare anziani: ogni decade è uno strato geologico che non si accumula soltanto, ma scivola sotto e sopra gli altri, portando l’individuo a essere molto più giovane e molto più vecchio in punti della cartografia molto diversi tra loro.

Antonio si passò la mano sulla faccia, massaggiandosi le tempie. Il primo raggio di luce penetrò la persiana e si posò su un post-it giallo, che utilizzava quando doveva scrivere i propri saggi. Su un lato c’era scritto “Il golf è uno sport da sfigati” per quattro volte, con interventi calligrafici sempre diversi. Sull’altro, invece, aveva annotato il possibile titolo di un libro di racconti che stava scrivendo da molto tempo e che, secondo lui, avrebbe rappresentato una vera e propria svolta per la narrativa italiana: “Le mattine non servono a niente”.