Il bisonte fuma Marlboro

Il bisonte fuma Marlboro
14 Settembre 2016 Michele Manzolini

La nuvola di fumo della Marlboro inonda l’aria umida del tramonto. Esce dalle narici del naso ricurvo e sfiora gli zigomi prominenti del suo volto antico, prima di perdersi per sempre mischiandosi con l’odore di letame che arriva dai campi concimati. Dario Hubner, il bisonte, osserva l’ennesima sigaretta della giornata morire nel posacenere. Da quando ha smesso di giocare non è invecchiato molto, eccetto per qualche pelo bianco spuntato di recente. Il suo volto è quasi identico a quando strappò il primo contratto nel 1988, a vent’anni, con la Pievigina. La fortuna di chi a vent’anni ne dimostra già cinquanta è di invecchiare lentamente.

Assapora la sua terza birra del pomeriggio. Scende nella gola rinfrescando le parti “brasate” dall’ultima sigaretta. Per un attimo vede in controluce la pesante silhouette di un bisonte. Il maestoso mammifero fa capolino appena oltre la cascina lungo il viale deserto. Che strano scherzo della natura sarebbe stato se i bisonti invece che nelle immense praterie americane si fossero diffusi nella bassa padana. Tra una strada di campagna e la statale, sui campi avvolti dalla nebbia, con gli zoccoli nella brina, a brucare erba e zanzare non lontano da un fuoco alimentato dalle puttane in attesa del prossimo cliente. Probabilmente il destino loro riservato non sarebbe cambiato in meglio. Vittime designate di massacri pari a quelli subiti nelle praterie. Ad ogni passaggio di una mandria su un campo coltivato, i contadini che si incazzano, che le palle ancora gli girano, i forconi, i fucili e le fiaccolate della Lega Nord. Bisonti cucinati nelle trattorie, venduti sotto forma di salami nelle macellerie paesane, segregati negli agriturismi insieme a oche e conigli, per la gioia dei bambini. Hubner nota la gobba dell’animale risaltare nitida sul rosso del sole che scende dietro l’antico fienile. Forse è un’allucinazione oppure solo un gioco di ombre. Non è importante. Dario si accende un’altra sigaretta.

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L’attaccante per anni ha gestito insieme al cognato il bar Tatanka a Capergnanica, un chilometro e mezzo oltre la frazione di Passarera, dove vive. Chiusa quell’esperienza ha aperto il Type Bar a Crema. Da qualche tempo però ha lasciato la gestione anche di quest’ultimo. La piccola distanza che separava casa sua dall’attività commerciale era diventata troppo grande per il bisonte. Da sempre Dario non ha mai amato fare troppa strada per inseguire le proprie passioni. A volte è stato costretto dalla natura itinerante della carriera del calciatore ad allontanarsi dalla propria dimora, ma appena ne ha avuto opportunità, ha sempre preferito scegliere soluzioni che non lo allontanassero troppo dai suoi territori e dal suo paese.

Il paese, Passarera, è un tranquillo borgo nel cremonese. 373 abitanti, di cui 194 maschi e 179 femmine. Risiedono anche 16 cittadini stranieri per lo più di origine africana. In quel luogo Hubner si trova bene, tutti conoscono tutti e nessuno gli fa troppe domande riguardo al suo passato da calciatore. Ogni tanto qualcuno, non resistendo alla curiosità, gli chiede l’autografo o si fa raccontare qualche aneddoto della sua sorprendente carriera. Hubner potrebbe narrare di quando, durante la tournee americana del Milan, nell’intervallo dell’amichevole contro l’Ecuador, fu sorpreso da Ancelotti a fumare e bere birra nel bagno degli spogliatoi. Oppure di quando zittì San Siro con il suo gol contro l’Inter di Ronaldo al debutto in Serie A, o ancora di quando giocava in coppia con Roberto Baggio. Al bisonte generalmente non interessa più di tanto parlare di questi scontati argomenti. Preferirebbe forse chiacchierare del legame speciale con Filippo Galli o rammentare di quando militava nel Fano di Guidolin che sfiorò una storica promozione in B, oppure esaltare la salvezza raggiunta con otto giornate d’anticipo a Cesena, nella rude riserva delle serie minori.

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Nel pantano della cadetteria Hubner ci ha passato un decennio: C2, C1 e B senza apparente possibilità di fuga, dentro i confini di quei territori che sembravano averlo inghiottito per sempre. Non che la cosa rappresentasse una delusione per lui, si era sempre trovato a suo agio sui terreni sconnessi e pericolosi delle serie inferiori. Proprio quando sembrava che la sua dimensione sarebbe stata tale fino a fine carriera, all’età di trent’anni, arrivò la chiamata del Brescia. Il bisonte poté finalmente pascolare nei verdi e rigogliosi prati della Serie A. 

Un pomeriggio, sul pullman delle rondinelle, di ritorno da una trasferta a Verona persa per 2-1, aveva osservato alcuni operai della manutenzione che gettavano l’asfalto lungo l’autostrada. Aveva ammirato i visi tirati e consumati da anni di lavoro usurante, le mani callose e soprattutto la pelle inspessita dal sole. Sostavano affianco all’asfalto caldo e fumante e, incuranti delle esalazioni, si guastavano una meritata sigaretta. Fino a quando non era passato alla Pergolettese in serie C2 era stato un carpentiere e conosceva la fatica del “lavorare con le mani”. Come gli operai amava fumare, bere un bianco o un caffè corretto prima delle nove del mattino o gustarsi una grappa dopo pranzo. Come loro aveva seguito una direzione obbligata per tutta la carriera. Non quella dritta, inesorabile e faticosa della corsia autostradale, ma quella più breve e ricca di avversari che conduceva verso la porta avversaria. L’aveva percorsa, senza troppa grazia, ogni domenica fino a 44 anni. Dritto per dritto, come la corsa cieca di un bisonte. Dopo avere lasciato Brescia era andato a Piacenza dove, nel 2002, aveva vinto la classifica marcatori insieme a Trezeguet, con 24 gol. Piacenza era la sua dimensione ideale, a trenta chilometri da casa (dieci di meno rispetto a Brescia), per tornare ancora più velocemente al suo bar dopo gli allenamenti. Dalla doccia al grappino in poco più di venti minuti, cosa si poteva chiedere di più?

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Una zanzara vola verso di lui avvicinandosi minacciosa al suo braccio, ma improvvisamente cambia direzione e si perde nello sfondo. In quella zona, al tramonto, le zanzare sono molto aggressive. Salgono affamate dagli acquitrini, dai canaletti e dalle brughiere. Hubner però, per qualche strana ragione, non viene mai punto. Sua moglie spesso dice prendendolo in giro che è perché ha il sangue che puzza di nicotina. Lui preferisce pensare invece che abbia la pelle troppo spessa, come gli operai dell’autostrada, per il piccolo pungiglione dell’insetto. Un fischio attira la sua attenzione. Quasi se ne stava dimenticando. Poco distante, al campo sportivo del paese, sta cominciando l’incontro della squadra locale, il Passarera. La sua ex squadra. Dopo la serie A, quando giocava nei dilettanti dell’Orsa Cortefranca (a 37 chilometri da casa) aveva subito la squalifica di sei mesi per avere firmato un contratto da professionista per una squadra che militava però nella Lega Dilettanti.  A 40 anni di età, aveva quindi giocato proprio con il Passarera, che essendo iscritto al campionato del CSI, era fuori dalla “giurisdizione” della FGCI. Una volta finita la squalifica, Hubner era tornato a giocare per l’Orsa, ma in quei pochi mesi grazie ai suoi gol aveva portato il Passarera ad avere così tanto margine di vantaggio sulla seconda da permettergli di vincere il campionato anche senza di lui.

Il sole è sceso quasi completamente dietro l’orizzonte. Il crepuscolo sta arrivando inesorabile. Hubner si alza dalla sedia imboccando la piccola strada sterrata che porta al campo di calcio. Per fortuna non è troppo distante. La via conduce a pochi metri da dove, qualche minuto prima, aveva scrutato la sagoma del bisonte. Con la coda dell’occhio cerca la conferma di quella strana visione. Nota dei segni sul terreno dove la terra è stata probabilmente smossa da poco dagli zoccoli di qualche animale. Osserva una piccola nuvola di polvere che scende lentamente verso il suolo mentre un fortissimo odore di nicotina squarcia l’aria dell’imminente notte della prateria padana.

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