O’ President

O’ President
22 Aprile 2015 diego cavallotti

Le lezioni di lingua straniera hanno una funzione concreta per quelli che all’estero non hanno nessun’ambizione di conversazioni futili e borghesi, le lezioni di lingua straniera si possono limitare all’apprendimento di poche parole, le lezioni di lingua straniera sono sufficienti a “O’ President” per imparare l’unica parola a cui è veramente interessato: birra.

Alla fine degli anni Novanta la parabola calcistica dei giocatori dotati fisicamente stava per giungere all’apice massimo di notorietà. Il calcio stava cambiando, si sentiva ripetere che nuove doti erano richieste a quelli che tutti, da quel momento in poi, cominciavano a chiamare professionisti. Il dinamismo, l’eclettismo e la mobilità venivano celebrati come mai prima nella storia del calcio. Le immagini di Platini, con la maglia fuori dai pantaloni, con le cosce incollate per miracolo a due ginocchia ossute, facevano bella mostra in qualche Juventus Club della provincia di Catania e sembravano essere ancora più rachitiche se messe a paragone con quelle di Zinedine Zidane vestito con la stessa maglia a strisce bianconere. Così il mito romantico del giocatore talentuoso, la fondazione archetipa del calciatore bambino che palleggia ai lati di una porta la cui traversa pende pericolosamente a sinistra, sono parte di una letteratura agiografica che serve a costruire solo l’immagine nostalgica di un calcio che, come spesso si sostiene sul mezzi di informazione, “non esiste più”. Sono gli anni in cui Maradona ha smesso e non ha smesso di giocare, a fare notizia sono i suoi chilogrammi e qualche montatore scocciato della RAI riprende il footage dei suoi palleggi ogniqualvolta deve dare notizia di uno scandalo, di uno sparo, di un ricovero, di un abuso. Con l’automatismo associabile alla ripetizione aneddotica della tradizione orale El Pibe de Oro povero e talentuoso diventa una figura retorica piuttosto che un riferimento storico. Il calcio sembrava aver preso una strada diversa e quello che restava del passato poteva essere tranquillamente conservato a modo di ricordo di un tempo in cui le accelerazioni di gioco altro non erano che orrendi lanci lunghi.

Eppure tutto è iniziato con una vera e propria ristrutturazione tattica impostasi a partire dall’inizio anni Novanta. Una rifondazione dogmatica basata su reparti offensivi composti da due uomini d’aria di rigore in cui una seconda punta fa lavoro di raccordo e di movimento (memorabile gli incroci/scambi tra Del Piero e Nedved sulla fascia sinistra) e una prima punta pronta a presidiare topograficamente tutta l’estensione dell’aria di rigore. Questi sistemi offensivi erano favoriti dal modulo di gioco più in voga di quei tempi, il 4-4-2, prima con centrocampo in linea e poi con centrocampo a rombo, e da un numero infinito di esterni con il compito di guadagnare il fondo campo e rifornire di cross l’attaccante o gli attaccanti d’area. Nell’organizzazione marziale e astratta del 4-4-2 i passaggi tra le linee erano visti come tentativi sgrammaticati di dialogo e niente provocava più dolori di un lancio lungo o un cross dalla trequarti. Così mentre le prime punte sostenevano il peso dell’attacco, le seconde punte maturavano una capacità di corsa sconosciuta ai loro diretti predecessori, quelle mezzale talentuose che vivevano oramai solo negli RVM della televisione di stato. Nella partita metonimica del calcio della seconda metà degli anni novanta, in quel Piacenza Milan 3-2 del primo dicembre 1996, Roberto Baggio fa panchina, Tabarez non gli concede nemmeno un minuto, i due goal del Milan li fa un certo Christophe Dugarry, che, subentrato a Tomas Locatelli, va ad occupare stabilmente il centro dell’attacco rossonero. Ma come ogni dissertazione argomentativa anche questa nostra è piena di falle e tranelli e così, a dispetto delle transizioni orizzontali e delle accelerazioni sulle fasce, quasi per contrappasso il goal vittoria del Piacenza lo realizza un certo Pasquale Luiso da Aversa, che raccoglie un improbabile cross dalla trequarti, controlla la palla e segna con una rovesciata che è tutto e il contrario di tutto.  

Ma cosa ha significato quel goal in rovesciata nato da una manovra antidogmatica e confezionato da un undici tutto italiano ai comandi di mister Bortolo Mutti? Il goal di Luiso potrebbe essere letto come il colpo di genio di un calciatore sottovalutato che, nonostante una carriera dignitosa, non è mai riuscito a raggiungere i livelli e le “piazze” – per usare un gergo classicisticamente popolare – che avrebbe meritato, ma quest’analisi sarebbe erronea e soprattutto non terrebbe conto del diktat calcistico de “O’ President”. Stiamo parlando di Franco Monteforte, presidente, fondatore, mister e autista della società Sportiva Calcio Sant’Arpino (I nomi della società si sono alternati negli anni quindi si terrà per buona la versione generica) nonché ex operaio della Texas Instruments di Aversa. Franco Monteforte era un uomo di calcio e un ottimo bevitore di birra, una persona costantemente a contatto con la gente e con un numero imprecisato di moduli per constatazioni amichevoli sul cruscotto della sua Ford Escort di quarta generazione del 1990. A quattro anni esatti dalla scomparsa de “O’ President” – 27 Marzo 2011 – sembra doverosa una rilettura storica della sua lezione di vita che, pur non essendo mai stata articolata in una formulazione precisa, può essere riassunta con il motto: lavoro e spirito di sacrificio per entrambe le punte. L’idea di lavoro per Franco Monteforte è da considerarsi estremamente moderna, flessibile e modellabile. Lui, operaio in cassa integrazione (o mobilità?), è vittima indiretta della scarsa competitività della Texas Instruments nella corsa sfrenata alle nuove tecnologie. A colpirlo è l’andamento ciclico del mercato dei semiconduttori che, stando a quanto dice Wikipedia, ha alternato momenti di euforia a istanti di profonda depressione e instabilità, ed è così, che “O’ President” subisce senza appello o diritto a interlocuzioni sindacali la decisione dell’azienda che sceglie di uscire dai settori commerciali a maggiore volatilità come quelli legati alla fabbricazione di componenti per personal computer, di software e di memorie DRAM, concentrandosi su settori strategici in cui riesce a garantire a se stessa e ai dipendenti una stabilità e una supremazia strategica.

franco monteforte

La Texas Instruments chiude definitivamente lo stabilimento di Aversa e “O’ President” si ritrova a dover esercitare esclusivamente il suo lavoro di presidente, fondatore, mister e autista della società Sportiva Calcio Sant’Arpino. In quegli anni, siamo all’inizio dei Novanta, “O President” matura, forse per spirito di avversione, un’idea tutta sua sul talento. Circondato da padri di ragazzini con il sinistro incerto e da mamme dalle scollature sudaticce che insistono nel sottolineare le doti straordinarie delle loro creature, “O’ President” arriva a negare l’idea stessa di talento innato e a propendere per l’etica del lavoro come unico strumento in grado di superare i limiti fisici e gli ostacoli tecnici. Un poco di buon senso gli basterebbe a capire che la quantità non è quello che conta, gli basterebbe dare uno sguardo alla sua Ford Escort carica di ragazzini raccattati nella GESCAL o al Parco Verde o avere un briciolo di pietà per il braccio tumefatto di colui che, seduto dal lato passeggeri, è costretto a tenere la rete piena di palloni appesa fuori dal finestrino. Ma “O’President” in realtà lavora su tutti e adora i grandi numeri e quando gli capita di incappare nell’ennesimo incidente stradale, quando a tamponarlo è una giovane ragazza che corre verso un’esame alla facoltà di Architettura di Aversa, quando è costretto a rimettere mano al blocchetto per le constatazioni amichevoli riposto nel vano portaoggetti del cruscotto della sua Ford e frugando trova per caso nella foto sorridente di Pasquale Luiso, in quell’istante gli si ripropone di nuovo l’occasione per rendere palese a tutta la sua classe stipata nell’abitacolo la sua teoria incontestabile che “calciatori si diventa”. Ecco quindi che lo sventolio della faccia solcata dalla cicatrice letterariamente sudamericana di Luiso altro non è che un incentivo iconico a lavorare e sputare sangue e sabbia come aveva fatto Pasquale ai tempi dell’allora Normanna 80 (oggi Real Aversa). “O’ President” aveva domato il “toro”, l’aveva convinto che era meglio menare calci a un pallone che pugni per strada; il ragazzo, a quanto diceva il presidente, aveva letteralmente imparato il gioco del pallone, completando sul campo una redenzione personale che gli avrebbe, di li a poco aperto una dignitosa carriera professionale.

Nella teoria montefortiana si possono rileggere le tracce di un pensiero sportivo che, a livelli ben più blasonati, sono state la base della rivoluzione tecnico/tattica degli anni Novanta. Gli uomini al servizio del modulo, il modulo come centro copernicano della costruzione di gioco, la copertura totale delle fasi di manovra, la duttilità tattica al servizio degli schemi. Dati comuni rielaborati in narrazioni personali dagli interpreti vincenti di quegli anni; ecco quindi l’esaltazione dell’umiltà di Arrigo Sacchi o il racconto della forza dei sistemi di gioco di Marcello Lippi o la ferma esaltazione della disciplina marziale nel credo di don Fabio Capello. Nonostante i racconti provino a essere differenti, quello che resta comune alle squadre di vertice è la volontà di incrementare e razionalizzare il costo al chilogrammo della massa muscolare dei propri tesserati. La programmazione atletica dei futuri super atleti porta alla nascita di laboratori tecnologici o alla pianificazione post-umana della cantera “blaugrana”. Ma la teoria montefortiana scimmiotta solo superficialmente le grandi narrazioni dell’invincibile serie A: “O’ President” appartiene a un altro calcio, i suoi ragazzi sono lavoratori pendolari, con un occhio al campo e uno ai concorsi in aeronautica. Il sistema calcio diventa un modulo binario in cui la frammentazione del lavoro del calciatore si basa stabilmente su una divisione in due blocchi paralleli in cui il divario fisico diventa divario socio-economico. L’idea di mucchio su cui “O’ President” lavora è destinata a naufragare verso una forma degenerativa che oggi ci si presenta sotto la forma della costellazione di prestiti e comproprietà dei calciatori-lavoratori del Parma di Ghirardi e poco ha a che vedere con l’idea romantica del talent scout suburbano.

SantArpino 

Nell’estate del 1996 “O’ President” viaggiava verso la Francia con il suo piccolo plotone di ragazzi, a ogni autogrill provava a familiarizzare con la lingua straniera ordinando una birra locale. Lo stupore nello scoprire che la Peroni non fosse tra quelle a disposizione si infrangeva con la sensazione di soddisfazione che gli arrivava dai primi sorsi della bevanda straniera. Intorno a lui la gente continuava a parlare di soldi, mazzette indefinibili dalle somme incalcolabili fatte di cartellini di giovani aspiranti calciatori in attesa di essere timbrati da qualche miliardario con disfunzioni erettili. La birra scendeva sempre alla stessa maniera, la schiuma faceva da tappo per qualche istante, poi il liquido riprendeva il suo flusso. Gli occhiali de “O’ President” erano sempre gli stessi, una montatura che ricordava polizieschi ambientati sulle stesse strade dove lui raccattava i suoi piccoli lavoratori. “O’ President” aveva i suoi ragazzi da far crescere, le sue birre da bere e un avvocato a cui recapitare fasci di constatazioni amichevoli. Quando il primo di dicembre del 1996 tornò a casa dall’ennesima trasferta con la sua Ford, sapeva già cos’era successo quel pomeriggio a Piacenza. Nel televisore c’era l’immagine in movimento del suo vecchio ragazzo di ventisette anni. Quel ragazzo che in quel pomeriggio pieno di sole aveva controllato non al meglio di petto un cross dalla trequarti appoggiandosi con le spalle a Billi Costacurta. Quel ragazzo per un attimo aveva sperato che Billi lo agguantasse. Forse per un momento aveva pensato di tirarsi giù, crollare simulando un abbraccio da rigore, ma poi accortosi che la palla scappava lontana dal corpo correndo lontana a tal punto da non poter essere né il perno su cui girare né l’oggetto che il difensore provava a contendergli, si era alzato di destro spingendo ogni cosa a mezz’aria e, con la schiena in posizione parallela al terreno di gioco, le gambe a quasi due metri dall’opposizione di un Billi spaventato, aveva trovato una rovesciata in grado squarciare lo spazio tra i mondi. “O’ President” dopo aver visto il Milan superato dal suo ragazzo sarà uscito di casa per prendersi una birra (lui a casa non beveva mai) e il barista gli avrà detto: “E’ vist a Pasqual”. Lui, “O’ President” aveva visto tutto anche quello che gli altri non erano riusciti a vedere. Aveva visto i due binari diversi del pallone, si era rivisto nelle sue giacche a vento e nei panni del suo mestiere, si era visto non tanto diverso da un intermediario ortofrutticolo. “O’ President” sapeva molto di calcio e nemmeno nel vedere il suo ragazzo urlare alla telecamera a fine partita ha avuto l’illusione che quel giorno a Piacenza le cose sarebbero cambiate. D’altronde quel primo dicembre 1996 l’interstizio che rispondeva al nome di Pasquale Luiso ha provato a mettere un piede tra le due parti, ha provato, con quel goal in rovesciata, ad aprire uno spiraglio tra due universi, a stabilire un punto di contatto, a porre le basi per qualcosa che poteva essere e che non è stato. Quel goal al Garilli è la storia di un pallone in parabola discendente che ha saputo superare il metro e novantotto di Sebastiano Rossi, ma che si è carbonizzato a contatto con l’aria della rete di porta.