La SPAL, dall’oratorio alla Serie A

La SPAL, dall’oratorio alla Serie A
11 Luglio 2016 Daniele Tiraferri

È esistito un tempo in cui il mondo di un ragazzetto di 10 anni orbitava lungo un ellissi perfetta nei quali fuochi si stagliavano immobili due centri di formazione fondamentali per l’adolescenza: la scuola e l’oratorio. Queste due palestre di vita, spesso fonte di conflitto interiore per chi le viveva, rappresentavano tutto il mondo conoscibile da un ragazzo di provincia. La scuola rappresentava la legge degli uomini, con le sue regole ferree e la didattica impostata, mentre l’oratorio era la legge di Dio, che con il suo amorevole sguardo paterno vegliava sulla vita dei suoi figli più piccoli.

All’oratorio i giovani, tra un Padre Nostro e un Ave Maria, imparavano ad apprezzare lo sport come fonte di divertimento e ne apprezzavano la sua utilità sociale. All’oratorio si iniziavano a dare i primi calci al pallone, nei polverosi e assolati campi di periferia. Già perché il pallone italiano nacque anche con il supporto della periferia, Casale e Pro Vercelli su tutte, e lì, in periferia, nacque la storia di una squadra che è un po’ diversa da tutte le altre. Primo su tutti il nome che non contiene la città di appartenenza e soprattutto viene sempre citato come acronimo di Società Polisportiva Ars et Labor, o più precisamente SPAL. La SPAL è la squadra di Ferrara, la più profonda provincia dell’Emilia e la più di confine, con la fierezza storica e la sua bellezza senza tempo. I suoi tifosi sono chiamati “spallini”, un nome quantomeno buffo se associato alle figure poco raccomandabili che sono talvolta gli ultras di una squadra di calcio.

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In secondo luogo la SPAL non nacque in un bar della città o in una palestra dove già si praticava sport. No, la SPAL nacque in oratorio, per volere di un prete salesiano che voleva creare un centro di aggregazione sana per i ragazzi della città. Nel 1907 Pietro Acerbis fondò un circolo ricreativo Ars et Labor, dove si coniugavano arti come la pittura e la scultura e lo sport. In principio furono ginnastica e ciclismo e solo nel 1912 fu aggiunto il calcio come sport del circolo. Don Pietro era uno di quei preti che credeva che i ragazzi andassero educati vivendo l’esperienza della socializzazione; agli occhi di tutti era un padre salesiano di quelli tosti, talvolta inflessibile, ma con un cuore grande capace di perdonare anche il peggior discolo.

Nel 1913 il ramo sportivo si staccò dal circolo e fondò la Società Polisportiva Ars et Labor, che come scopo fondante aveva quello di far avvicinare i giovani della città allo sport. Ma il legame con Don Pietro e la congregazione dei salesiani era così forte che la SPAL scelse come colori sociali il bianco e l’azzurro, che erano anche i colori dei salesiani, come ricordo delle proprie origini oratoriali, mai dimenticate e tanto care agli spallini delle origini. Forti degli insegnamenti salesiani, improntati sull’insegnamento e il rispetto delle regole come pilastri su cui fondare l’educazione dei ragazzi dell’oratorio, i primi associati della polisportiva mossero i primi passi in quello che sarebbe diventato pochi anni dopo lo sport nazionale: il calcio. Ma nel 1913, con una guerra alle porte, era pressoché impossibile iniziare a giocare a pallone, perciò per avere notizie delle prime attività calcistiche della neonata SPAL si dovette attendere il 1919, a guerra finita, quando il calcio divenne sempre più veicolo di coesione sociale e amor patriottico. Il 17 maggio dello stesso anno l’assemblea dei soci nominò il ragionier Santini primo presidente della SPAL ed esattamente 30 giorni dopo si giocò la prima partita ufficiale della storia, SPAL – Triestina, persa 1-4 con gol di Bombonati per i ferraresi.

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La storia della SPAL non è ricca di antichi successi, come fu per altre squadre di periferia del tempo. L’apice fu un quasi titolo nazionale nella stagione 21/22, conclusasi in semifinale contro la Sampierdarenese (formazione di un quartiere di Genova) pochi giorni prima che Benito Mussolini e le camicie nere marciassero su Roma. Dopo un periodo di grigiore fatto di serie minori, fango e retrocessioni, interrotto solamente dalle bombe alleate, i ferraresi riuscirono a tornare in serie B nel 1945 dando vita a un ventennio di grandissima qualità con ben 16 campionati consecutivi di Serie A: un grande lusso per una piccola squadra di periferia. Anche se tanto piccola e di periferia non lo era poi davvero, grazie al grande lavoro del presidente Mazza che riuscì a portare grandi giocatori del tempo come Badiali e Frizzi, capaci di segnare in tandem 44 gol in una stagione, oppure Del Vito e Di Giacomo, poi venduti a peso d’oro a squadre ben più blasonate.

Alla corte estense mossero i primi passi due che sarebbero diventati anche grandi allenatori: Edoardo detto “Edy” Reja e Fabio Capello. Entrambi presi per il settore giovanile, tanto caro al presidente che volle sempre tenere fede ai colori salesiani e fare della SPAL una palestra di calcio per giovani promesse, rispettarono i canoni del giocatore romantico anni ’60 di periferia tutto polmoni, sudore e scarpe impolverate.

E alla fine, come ogni grande storia che si racconti, il ciclo d’oro del dopoguerra finì e la SPAL, complice la difficoltà nel rimanere sempre in alto puntando esclusivamente sui giovani, iniziò il lento oblio che dura fino ai giorni nostri. Tante retrocessioni e promozioni tra serie C2, C1 e B, tanti cambi al vertice e soprattutto un cambio di proprietà negli anni ’90 che portò al doppio fallimento degli anni 2000.

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Si può definire la SPAL una nobile decaduta del cacio italiano? Forse no, in fondo un quinto posto come miglior piazzamento in A e una finale di Coppa Italia persa con il Napoli sono troppo poco per ottenere un titolo nobiliare. Ma se la nobiltà fosse definita da una storia che si abbevera a piene mani dagli insegnamenti salesiani, oppure dal fascino di una città medievale quasi inespugnabile oppure dalla semplicità e genuinità del calcio di periferia, allora sì la SPAL nobile lo è stata per davvero. E se dopo 23 anni la SPAL è riuscita a tornare in serie B si può solo sperare che riesca anche l’ultimo passettino, il ritorno in A: una sintesi perfetta di storia, romanticismo, orgoglio e passione per uno sport che ancora, da qualche parte, soprattutto in provincia e in periferia, si inizia a giocare in oratorio.