La più bella Italia di sempre – Parte terza

La più bella Italia di sempre – Parte terza
27 Febbraio 2015 Michele Manzolini

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

 

La grande tavolata dei “fuori dal giro”

Cavalier Riccardo Ferri Inter Academy in Florida

Ufficiale Giuseppe Bergomi Commentatore tv

Cavalier Roberto Baggio Fuori dal calcio

Cavalier Gianluca Vialli Opinionista

Cavalier Fernando De Napoli Proprietario di enoteca

Cavalier Aldo Serena Opinionista

Cavalier Salvatore Schillaci Proprietario di scuola calcio

Cavalier Luigi De Agostini Direttore scuole calcio per ragazzi

Cavalier Stefano Tacconi Si occupa anche di cinema

Cavalier Nicola Berti Prova a sfondare in tv con il talent sul calcio Leyton Orient

Ufficiale Paolo Maldini Imprenditore

Cavalier Gianluca Pagliuca Opinionista

Una grande tavolata di legno di castagno, dodici posti più Giancarlo. La maggior parte dei dodici rilascia opinioni in televisione e Giancarlo ha un occhio di riguardo per chi fa il suo stesso lavoro. Nessuno capisce che è un lavoro vero. Le pressioni della televisione, i tempi della televisione, le risse della televisione, la brutta fama di chi va in televisione, i soldi facili della televisione, il compromesso morale della televisione, la paura di non saper reggere la telecamera puntata.

Bergomi è un maestro. Da quando ha smesso di giocare è in televisione. Durante il glorioso mondiale del 2006 la sua voce ingenua ed educata si accompagnava a quella stridula e chiassosa del suo compagno di telecronaca. Lui è un fuoriclasse. Era impressionante vederlo parlare con Baresi in allenamento: correvano uno vicino all’altro al piccolo trotto per alleggerire la tensione e parlavano sommessamente, senza guardarsi. Una volta hanno parlato ininterrottamente per oltre mezz’ora. Marocchi faceva torello con altri tre e ogni tanto alzava gli occhi: loro erano sempre lì che giravano attorno al campo, come anime pietose nei gironi dell’inferno o come filosofi ateniesi alle prese con un nuovo metodo di analisi. Non sembravano nemmeno calciatori. Bergomi aveva la chiacchiera facile, aveva la metamorfosi facile, sapeva prendere le forme del suo interlocutore, del suo avversario, del suo compagno di reparto, del suo portiere, del suo allenatore, del suo collega di telecronaca, del suo pubblico. Eppure sembrava sempre sé stesso. Continua ad essere il commentatore principe, un punto di riferimento. Falso timido. Scommettiamo che troverà una scusa per non venire? Inattaccabile.

Chi parlava sempre era Vialli. Un ragazzo con un ego smisurato, un cuore di pietra come pochi, distaccato da ogni essere umano che non fosse seriamente interessato a lui, eppure quasi invasato dalla sua missione di diventare l’attaccante più forte d’Italia e poi del mondo. Questo doveva diventare, si era dato un tempo per farlo. Non aveva paura di niente e di nessuno. Ma tutto in teoria. Nella pratica applicava ben poco delle sue complicate elucubrazioni sul presente e sul futuro del calcio. Giancarlo stava a sentirlo per ore a pranzo e a cena. Insieme ad Aldo Serena che però, pur con grande cortesia e affabilità, aveva sempre la testa altrove.

Ad Aldo il calcio piaceva, ma piacevano un mucchio di altre cose. Era un capriccioso, un curioso, un appassionato della vita. Diceva sempre di sì. Ma aveva anche un tempo di attenzione molto ridotto. Cinque secondi, dieci, venti. Arrivava ai trenta per i compagni a cui teneva di più. Con Giancarlo, dopo cinque secondi erano già pacche sulle spalle e sorrisi. Al sesto secondo Aldo era già a chiacchierare con qualcun altro, uno dell’albergo, il portiere, un altro ospite, un accompagnatore, il ragazzo dell’ascensore, il cameriere. Con tutti, brevemente, con entusiasmo. Ripeteva che aveva trent’anni ormai ed era al suo ultimo appuntamento. Ripeteva le stesse cose, continuamente. Dopo poco tempo, nonostante la simpatia, nelle gerarchie dello spogliatoio cominciarono a trattarlo come uno zietto un po’ svitato. Vialli invece era sempre il pensatore. Produceva lunghe frasi, seguiva anche il calcio estero, tra i primi a farlo.

Una volta Giancarlo, che con Luca parlava spesso, non riusciva a dormire per la tensione pre-Mondiale. Andò nella hall e trovò Vialli e Serena che parlavano, a notte fonda, con voce fitta e bassa. Sembrava che si stessero confessando. Serena era il contrario di ciò che dava a vedere durante il giorno, improvvisamente contrito e teso, con gli angoli della bocca verso il basso in una smorfia di rinuncia. Luca sembrava un potente vescovo, un mago africano, uno sciamano, con gli occhi fissi su di lui e con un sorriso incrollabile, senza cedimenti, per fargli forza. Progettavano qualcosa per il giorno dopo. Videro avvicinarsi Giancarlo e smisero di parlare. Aldo salutò e andò frettolosamente in camera. Luca sorridendo gli disse: “Lo stavo convincendo a venire alla Samp. L’anno prossimo vinciamo lo scudetto. Ma lui è irremovibile. Non capisce che il futuro del calcio è in provincia. È vecchio”. Abile mistificatore, Luca è di quelli che magari al pranzo viene, pieno di regali, vestito benissimo e profumato da donna orientale. Aldo ha il ritmo serrato del commentatore di calcio, una cantilena stucchevole e incalzante, entusiasta. Marocchi lo ascolta con allegria, ma quello che dice durante le partite gli sembra sempre un po’ troppo sopra le righe, non riesce a seguirlo. Lo ha invitato per cortesia, ora se ne è un po’ pentito.

Giancarlo, quando gli chiedono se ha un amico ex calciatore da invitare, risponde sempre “Nicola Berti”, anche se i due erano di squadre, di culture e di teste diverse. Il fatto è che, però, Nicola sta sei mesi ai Caraibi e sei mesi in Italia, ed è difficilissimo sapere quando è qui e quando è lì. Uno fissato sulla privacy. Faceva di tutto da calciatore, ma in segreto. Dalle stanze dei suoi divertimenti uscivano fuori solo leggende. Giancarlo ci scherzava spesso, Nicola si fidava di lui, lo considerava un bravo ragazzo. Il problema di Berti era la fama che si era creato. Dovunque andasse c’era gente che gli andava incontro ridendo, scherzando, buttandola sul ridere. E chiedendo conferma di certe voci e di certi argomenti scandalosi. Nicolino rideva, cosa c’è di male? In campo corro e do tutto per la squadra, fuori faccio quello che voglio. È anche uno mediamente colto, interessato. Dicono che ascolti jazz. Una volta, per stemperare la tensione del mundial, disse a Giancarlo che assomigliava a Sean Penn. Non è che Giancarlo impazzisse per il cinema, non lo conosceva quell’attore, ma se ne sentì ugualmente lusingato. Poi una volta, dieci anni dopo, davano Non siamo angeli alla tv e qualcosa gli tornò. Forse sì, da giovane, ma poco. Quasi niente. La moglie di Marocchi a questa storia di Sean Penn non ci crede. Forse è Giancarlo che si è inventato tutto pur di somigliare a Sean Penn, al quale non somiglia. Comunque carino Nicola, grazie. Ora ha deciso di fare un programma in televisione, un talent sul calcio. È sceso in campo seriamente, non perché abbia bisogno di soldi. Ha giocato fino al 2000 e si è amministrato benissimo, altro che scavezzacollo. Lo fa perché la televisione italiana senza Berti ha perso un talento. E ora a cinquant’anni può recuperarlo. Al pranzo, ovviamente, Nicolino non verrà di sicuro.

Riccardo Ferri lo si conosce nell’ambiente come un tipo scherzoso ma non casinista, vivace ma regolare. Gli piace fare il simpatico alle feste, vuole essere il più giusto di tutti, il più tranquillo e disinvolto. Lo spaccone, un tipo anche aperto e in fondo, contrariamente a quanto suggerisca il suo ruolo di stopper, uno senza tabù, a meno che non si tocchi la sua immagine di persona seria che sa il fatto suo. Giancarlo non era tra i suoi amici più stretti ma certamente era un piacere, anche molti anni dopo Italia ’90, incontrarlo e prendere un caffè insieme. Parlavano di tutto, di mare, di vacanze, di mogli, di aziende agricole, di voglia di incidere nel calcio anche dopo averlo lasciato, di un bisogno di rientrare nel giro, che qualche volta prende e qualche volta passa. Brevi caffè, incontri presso studi televisivi, stage di giovani calciatori, premi, ricorrenze, feste e addii al calcio. Giancarlo proprio non sospettava neppure che dietro quell’immagine di persona solida ci fosse mai stato un periodo di difficoltà. E invece ha saputo, da terzi, che c’è stato eccome. Ora gli gira bene, certo, in Florida, ma tempo fa ha rischiato l’ennesimo autogol. Giancarlo ghigna, compiaciuto del proprio umorismo solitario in una fredda e silenziosa mattina emiliana. Quello lì viene solo in compagnia, sentenzia infine.

Tutti hanno assicurato che verranno, ma stamattina uno di loro ha già detto che ha avuto un imprevisto. Gigi De Agostini non può venire. Gli sono di nuovo entrati i ladri in casa. Era pronto, aveva caricato la macchina, a metà strada gli è suonato l’allarme. Giancarlo, alla notizia, si è messo a ridere: sarà stata almeno la quarta volta, non so. Non c’è più niente da rubare ormai, gli hanno tolto tutto. Gigi, persona pratica, ragazzo fortunato, simpatico, bravissimo ad organizzare campi-scuola per i ragazzi (tanto da conquistarsi la stima del Real Madrid che gli chiese di gestirne qualcuno tempo fa), vive sempre a Tricesimo, vicino Udine, dove tutti gli vogliono bene. Qualche anno fa un suo vecchio mister della primavera, il noto Enzo Cainero, aveva anche usato quella faccia buona e onesta per candidarsi a sindaco di Udine, con una lista civica, ma di centrodestra. Nulla di fatto. Giancarlo e Gigi si sono sentiti parecchio al telefono, ai tempi in cui entrambi si occupavano attivamente di calcio giovanile. Gigi continua a farlo. Come mai? Giancarlo ha una sua teoria: uno che pur di evitare la concorrenza di Maldini rinunciava a giocare nel proprio ruolo naturale non può non aver imparato a far di tutto pur di stare a galla. Perché di questo si tratta, stare a galla. Un po’ come suo figlio, doveva essere il nuovo Gigi, ora a 30 anni e passa e gioca nel Prato. Si dà una calmata, Giancarlo, mentre nota che al posto di Gigi manca una forchetta. Se si presentasse gli direi che l’hanno presa i ladri.

Ora si scopre che non verrà nemmeno Nando De Napoli. È impegnato con l’enoteca. Ha mandato un messaggio, non si è capito bene cosa dovesse fare. Ha quest’enoteca nella provincia di Reggio Emilia e Giancarlo non è ancora mai andato a berci un bicchiere. Anche perché non è facile trovare Nando. Lui ci ha messo il capitale, la passione e l’idea. Il suo socio la competenza. Poi, certo, Nando non è un ignorante in fatto di vini. Lo è diventato di calcio, invece. Amicizie comuni sostengono che non vede più le partite perché lo annoiano. Ormai se lo incontri per strada e gli chiedi di dire “Forza Palermo” o “Forza Triestina” è la stessa cosa per lui: per buon carattere ti dice di sì, si prepara e tira fuori un entusiasmo scanzonato, incitando una squadra di cui non gli importa nulla. Anche su questo Giancarlo ha la sua teoria: l’hanno insultato talmente tanto quando giocava che ha covato rancore verso il calcio. Portaborracce, asinello, quello che corre e basta, senza piedi. Appena ha potuto, se n’è andato. Uscito dal calcio e mai più rientrato. Giancarlo si è sempre sentito un centrocampista migliore di Nando, più dotato tecnicamente, più vario, meno prevedibile, meno limitato. Si sentiva migliore. E più duttile. Marocchi ha deciso: se non viene da me all’azienda agricola, io non vado da lui in enoteca. Poi, avvisare con un messaggio. Una cafonata.

Tacconi non è il tipo da venire qui in mezzo a tutti. Però è anche il tipo che potrebbe farlo all’improvviso, irrompendo con una Porsche Cayenne e una bella ragazza, dichiarando subito che è “solo un’amica”. Stefano Tacconi non ha mai detto nulla contro Giancarlo, non ha mai parlato male di lui. E, per Giancarlo, Stefano era un’autorità morale. Aveva sempre un’opinione, tanto per cominciare. Su tutto. E non sembrava mai l’opinione di un calciatore, ma di un saggio viandante medievale, un mezzo stregone condannato a non poter utilizzare i suoi poteri magici, pena la morte. Giancarlo sentiva un telegiornale, ogni tanto, e gli riferiva due o tre notizie. Stefano il telegiornale non l’aveva sentito, non lo faceva mai, ma un’idea sulle notizie ce le aveva, a differenza di Giancarlo e degli altri compagni. Tacconi era stato coinvolto da esponenti di spicco del Movimento sociale italiano in un’avventura come candidato presidente della regione. Infastidito dall’utilizzo della propria immagine, si era tirato indietro. Ma Giancarlo non ne ha mai fatto una questione di politica. Ha conosciuto gente buona e meno buona, di tutte le formazioni politiche. E per la verità dei politici non si fida. Come Tacconi.

Negli anni successivi a Italia ’90, Marocchi ha continuato a pendere dalle labbra del portierone, che però cominciava ad essere sempre più stanco, sfiduciato, un cane arrabbiato. La sfera mondana di Stefano gli interessava ancor meno di quella politica. Però certo, ogni tanto Giancarlo si chiedeva cosa volesse fare dopo il calcio Stefano Tacconi. E per rispondersi, si rigirava tra le mani quella vecchia cassetta che gli diede tanti anni prima: Ho parato la luna, un film scritto e interpretato da lui, un testamento poetico di Stefano sul calcio. Recentemente è arrivato un invito nella cassetta postale, giusto qualche anno fa. A Cannes, al festival, ospitavano Backward, un altro suo progetto, il secondo film a distanza di vent’anni. Giancarlo non ha mai visto questi film. Lui non va pazzo per il cinema. Non è il tipo che corre dietro ai sogni.

Nel 2013 Giancarlo ha tirato un sospiro di sollievo. Non tanto per un evento che riguardasse la sua famiglia, ma per l’assoluzione di Paolo Maldini da ogni accusa di corruzione. Assolto per non aver commesso il fatto. Nei tre anni precedenti aveva seguito il processo, presentandosi di persona a ogni fase, in aula. La fine ingloriosa di Maldini, l’addio tra i fischi dei tifosi, una catastrofe, dopo una carriera perfetta. Giancarlo considerava Maldini uno scaltro, ma anche un cavallo di razza, potentissimo. Scaltro perché si legava tutto il giorno a Baresi, faceva il suo allievo rispettoso. Poi però, a maestro lontano, scherzava con gli altri giovani del gruppo per alleggerire un po’ la tensione accumulata standogli accanto. Frequentava una modella venezuelana che a Giancarlo piaceva troppo. L’anno del Mondiale italiano avrebbe fatto la valletta a Telemike. Giancarlo non voleva perdersi una puntata e sperava che la storia con l’amico Paolo finisse. Non finì. Si sposarono, fecero figli e ne adottarono altri, puntarono tutto sull’immagine, sulla correttezza, sulla felicità.

Giancarlo è un tipo verace, alla felicità senza zuffe non ci crede. Il declino di Maldini lo riconciliò con quell’idea bucolica e irreale. Ma niente contro Maldini. Certo, quell’amore per l’imprenditoria, per gli affari, un po’ lo infastidiva. Ma perché non aiutare il calcio in qualche modo? Non so, talent scout, osservatore, presidente. Perché questi giochini alla Vieri, alla Inzaghi? Locali, percentuali, azioni, società. Non è un mondo per campioni di etica e di serenità, secondo Giancarlo. Perché non aprire una bella azienda agricola, invece? Dell’erede della dinastia Maldini, Cristian, Giancarlo sa pochissimo. Però sa che gioca di rado, forse per infortunio, non ha approfondito. Su di lui, però, sono tutti concordi: “Non è come il padre”. Giancarlo non lo dice ma lo pensa anche lui.

Totò Schillaci faceva schiattare dalle risate. Niente, era il suo Mondiale. Azzeccava tutte le battute, De Napoli lo metteva in mezzo e lui stava al gioco. Giancarlo però, dopo un po’, non ne poteva più. Nel senso buono, nessuno si sogna di negare a Schillaci il suo giocattolo, ma senza Giannini avremmo fatto 0-0 con gli Stati Uniti e senza il gol di Baggio contro la Cecoslovacchia non avremmo mai pensato davvero che il mondiale potevamo vincerlo. Questa è la verità dello spogliatoio, che però non si può dire. Perché alla gente resta in testa Totò, che era un attaccante motivatissimo, ma non così forte. Oggi in studio Marocchi lo attaccherebbe. Direbbe che non è da grande squadra. Fece bene a lasciare l’Italia prima di sporcare l’immagine che si era creato in un’estate, e in Giappone vinse l’unico scudetto della sua carriera. Giancarlo ha saputo che laggiù gli hanno fatto una statua. A Marocchi non gliela faranno mai, nemmeno a Bologna. Ma lui non la vuole. Queste cerimonie sono favole straordinarie, che non hanno niente a che fare con la vita reale. Schillaci ha fatto il consigliere comunale a Palermo, per due anni, per Forza Italia. È stato l’unico figlio di Italia ’90 a riuscire a farsi eleggere. Ha una scuola di calcio. Ha fatto tante cose. Nessuna di queste cose ha a che fare con la vita di una persona normale. Giancarlo ha invitato Totò, gli ha detto: “Ho saputo che hai un cugino che naviga in cattive acque! Be’, porta anche lui”. Forse non verrà.

Uno che mi aspetto che venga è Robi, pensa Giancarlo. Non può non venire. Una foto con lui sul sito dell’azienda e mia moglie sviene. Si conoscono bene, è venuto tante volte da noi, a Bologna. Sì, Giancarlo e Robi sono amici. Hanno condiviso il calcio, in modo onesto, adulto, anche divertente. Robi aveva tutti quei vezzi, tutte quelle passioni particolari. Sembrava che l’avessero abbandonato in una foresta con un pallone dai tredici ai sedici anni. Poi l’hanno tirato fuori ed era già Roberto Baggio. Ogni tanto tornavano delle abitudini strane, cupe, selvatiche, per niente cittadine. Insomma, Marocchi con lui si sentiva un borghesotto. E quindi temeva un po’ questa deriva così benestante dell’azienda agricola. Niente a che vedere con le sue enormi tenute in Argentina. Niente a che vedere con lui. Comunque si è amici anche nelle differenze, gli aveva detto la moglie, rassicurandolo. E poi una foto con Baggio per l’azienda sarebbe fantastica. Però, finito il calcio, si erano sentiti poco e niente. Aveva chiesto in giro, Baggio i ponti li aveva tagliati con tutti. Piano piano l’hanno riscoperto, come un vecchio cantautore dimenticato. Ora piace a tutti.

Se viene gli faccio fare un giro nel mio fondo. Se viene gli chiedo di restare anche a cena. Andiamo a Bologna a trovare gli amici. Se viene ci facciamo due risate. Non molte di più. Ma perché ho invitato anche Mancini? Quei due litigheranno. Con chi è che andrebbe d’accordo? Con Nando, ma Nando non viene. Con Walter, ma è troppo spaccone. Lo metto vicino a me. E a Gianluca. Pagliuca. Sì, lui è perfetto in queste situazioni. Speriamo solo che non sia pesante come l’altra volta. L’ultima volta aveva una faccia. A proposito, dov’è?

Pagliuca non si è presentato. Ed è quello che abita più vicino. Verso le cinque, in realtà, qualcuno è venuto. Oscar Magoni, un vecchio compagno di squadra. È passato a trovare Giancarlo, visibilmente nervoso. La moglie gli ha detto: “Guarda Oscar, è meglio che passi un’altra volta”. Magoni passa spesso. Gli piace la tranquillità della tenuta di Giancarlo, gli piace la sua famiglia, il fatto che Giancarlo sia riuscito a coniugare passione e lavoro. Per lui è dura. Uscendo dalla tenuta, a testa bassa, gli sembra di vedere all’esterno della casa una lunga tavola imbandita, più altri tavolini, separati, ma accuratamente apparecchiati. Tavole di legno sapientemente costruite. Stanno lì per una cerimonia o qualcosa del genere. Oscar capisce che Giancarlo ha avuto una giornata no. Attorno a quei tavolini non ci sono le persone che dovevano esserci. Povero Giancarlo.

EPILOGO

“Dopo Sassoleone un chilometro. Qua sono arrivato in Toscana. Però non è mica giusto dare quelle indicazioni qui. Mèza pugnàtta. Bagiàn. Ormai a quest’ora qui saranno già al dolce e al caffè.”
Gianluca Pagliuca a Italia ’90 faceva il terzo portiere. Guardava Zenga, guardava Tacconi. Ma il suo mito era Zoff. Per anni non smetterà di ripetere che il suo idolo da bambino è stato anche quello che lo ha estromesso dalla nazionale. Il suo Mondiale sarà quattro anni dopo. Ma quello visto dalla panchina, nella tuta da enfant prodige, nel meraviglioso ruolo che è quello del giovane che deve solo fare esperienza, non lo dimenticherà mai. Anzi, lo dimenticherà. Di lì a poco non si ricorderà neppure una partita. Fu un’emozione, ma in questo momento non ricorda esattamente chi furono i convocati, con chi dormiva in stanza.

Gianluca, finito il calcio, ha fatto di tutto, si è divertito, tanto, tantissimo. Motorshow, eventi benefici, viaggi, belle mangiate, belle serate, radio, interviste. Finire la carriera nella città in cui sei nato ti fa sentire come se un pochino fossi morto. Morto comodo. E invece la vita continua. Sarebbe meglio buttarsi alle spalle quelle lettere “ex” a inizio parola e magari buttarsi in qualcosa di bello, di intenso, di costruttivo. Perché Pagliuca non è uno stupido. Non è uno Zenga che ha la fissa, non è un Tacconi che fa il cane sciolto. Non è Zoff, che fa il saggio. Pagliuca nella tenuta di Giancarlo ci stava andando, ma ha sbagliato strada. È uno semplice, un pistulàn, che ancora non ha rimesso i pezzi a posto. È arrivato in piena notte a Genova, sul mare. Ha lasciato la macchina sul Ponte Monumentale ed è sceso verso il Porto Antico. Ha superato i Magazzini del cotone e ha trovato tutte le panchine libere, con vista sul mare nero aperto e sul cargo mercantile cinese. Lui con Italia ’90 non c’entra niente. Però l’hanno fatto Cavaliere. Cavalier Luca Pagliuca. Gli viene da ridere. Prende il telefono. “Giancarlo, scusa. Ho sbagliato strada.”