Argentina-Italia: come si diventa ciò che si è

Argentina-Italia: come si diventa ciò che si è
31 Luglio 2015 diego cavallotti

Prologo: che cosa fu per noi il gol di Caniggia

Donadoni perde il pallone nella trequarti dell’Argentina, Giusti se ne impadronisce e lancia in profondità. I sudamericani, ora, si trovano a pochi metri dall’area italiana. La sfera giunge sui piedi di Olartichoechea, che crossa. E poi accade quello che mai avremmo voluto accadesse. Per ogni tifoso italiano è l’equivalente dell’omicidio di John Fitzgerald Kennedy: pochi secondi che dividono due epoche storiche, l’età dell’oro della speranza democratica – qui declinata, in maniera più prosaica, come il periodo della “migliore Italia di sempre” – e quella oscura di Johnson e Nixon e della guerra in Vietnam – qui come l’inizio dell’era sacchiana e della fine dell’innocenza.

Uno sparo, gli uccelli si alzano in volo, il cranio sfondato della Nazionale perde parti di materia grigia sul cofano del calcio italiano. Vicini, goffamente, come Jacqueline prima Bouvier poi Onassis, tenta di raccoglierne i frammenti, ma ormai è troppo tardi. Quel cross di Olartichoechea e quel colpo di testa di Caniggia, rivisti tante volte quanti sono i bulbi trapiantati sul cuoio capelluto di Schillaci in ossessivi atti di autolesionismo, resteranno lì a ricordarci che il nostro desiderio di possedere il mondo non si traduce mai in realtà. Quasi mai.

Poche settimane fa, 3 luglio 2015

Ore 19.30

Carlos Valderrama, appena uscito dalla doccia, osserva dalla finestra i grattacieli del Centro Direzionale di Milano. L’asciugamano, legato attorno alla vita, segue la curva del basso ventre, sprovvisto ormai di tono muscolare, al contrario dei pettorali ancora turgidi. Le sopracciglia e i capelli, come il torace, sono rimasti quelli di una volta: corvine le prime, biondo cenere i secondi. Vistosi e improvvidi.

Ha il gomito appoggiato all’infisso del vetro, in quella che lui amava chiamare “la posa post-scopata”. Però ora, in quella stanza dall’Atahotel Executive, è solo. Guarda le lingue d’asfalto che si intersecano in maniera apparentemente disordinata di fianco alla stazione Garibaldi e che proseguono quasi naturalmente in verticale, nelle nuove trappole di cristallo. Nonostante Milano sembri sempre più la brutta copia di Gotham City o della Los Angeles di Blade Runner, Valderrama ama tornarci, a volte solo per andare a visitare le insegne sbiadite e i vetri rotti del ristorante di Benito Lorenzi. In fondo Milano gli è sempre piaciuta, sin da quando, in quella giornata di fine primavera del 1990, Rincon aveva segnato al 93’, rispondendo alla rete della Germania Ovest segnata da Littbarski quattro minuti prima,  permettendo così alla Colombia di passare agli ottavi come una delle migliori terze classificate della fase a gironi.

Ma oggi non vuole lasciarsi andare alla malinconia dei ricordi. Valderrama, al contrario di quanto affermano le poche persone che hanno ancora la pazienza di stargli vicino, è incapace di provare nostalgia. Lui sa che il passato non è una vetrina in cui esibire l’essenza kitsch della memoria. È piuttosto un fluido non-newtoniano, la cui consistenza varia a seconda della pressione a cui è sottoposto: perché provare dolore per l’impossibilità del ritorno quando è possibile posare delicatamente la mano e lasciare che il fluido si lasci penetrare? Valderrama se lo chiede insistentemente mentre rimane lì, con la mano appoggiata alla finestra. Per un attimo spera che la superficie del vetro si trasformi in un liquido ad alta densità che gli consenta di attraversare Milano da parte a parte. Ma questo non avviene: desiderio e realtà, di nuovo, confliggono. D’altra parte non è venuto in Italia per questo. Gli hanno chiesto di portare il verbo di Valderrama. E il verbo di Valderrama vale ben più di uno stucchevole giro di giostra.

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Ore 23.00

Se si viene da Milano, per arrivare a Cernusco Sul Naviglio bisogna risalire la ciclabile costruita sull’argine della Martesana in direzione contraria rispetto alla corrente. Spesso ci si stupisce di quanto sia pulita, almeno in apparenza, l’acqua di un canale che attraversa uno dei territori più inquinati d’Italia. Valderrama ferma la bicicletta all’altezza del campo sportivo di Cernusco e distende la gamba: i jeans sono già sporchi di grasso, mentre la maglietta della Colombia presenta vistose chiazze di sudore. Ma poco importa. È dove gli hanno chiesto di essere, dove la parola di Valderrama nasce e ritorna: tra amici, nei campi sportivi dell’hinterland, in qualunque posto si senta l’odore della salamella appena cotta.

Carlos abbraccia gli organizzatori a uno a uno e li ringrazia dell’ospitalità. Si conoscono da molto tempo: vorrebbe fermarsi lì, con loro, e chiedere che cosa abbiano fatto in questi dieci anni. E, soprattutto, per quello che può valere, se siano felici. Ma non può, il pubblico è impaziente, in molti hanno già cominciato a fischiare.

“Siamo tutti fratelli e sorelle di Valderrama”, dice Carlos al microfono, prima di alzare le mani al cielo. Le livide luci mediopadane trasformano la maglia gialla della Colombia in un prisma che, come le ali di uno scarafaggio, riflette tutti i colori dello spettro. “Non esistono più dirette mondiali, moviole in campo e programmi di approfondimento: esiste solo la superdifferita” aggiunge, puntando un palmo verso il telo bianco montato sotto un piccolo gazebo. Valderrama guarda i tecnici del suono, abbassa la mano e preme il tasto Play di un videoregistratore Sinudyne appoggiato sul tavolo vicino al palco.

Una voce, familiare e perturbante al contempo, ha il sapore di due pacchetti di Marlboro rosse: “Questo è lo stadio di San Paolo, che sarà teatro di questa attesissima sfida fra l’Argentina, campione del mondo in carica, e l’Italia. È l’incontro numero 49. Comincia dunque il penultimo atto del Mondiale in due tempi: questa sera, al San Paolo, Italia-Argentina; domani, allo Stadio delle Alpi di Torino, altro scontro di gran tradizione: Germania contro Inghilterra”. Mentre Pizzul sciorina le proprie competenze linguistiche, talvolta cadendo nelle sabbie mobili di un italiano farraginosamente in linea con lo standard (“Lo stadio di San Paolo”, come se non ci trovassimo a Napoli ma a pochi chilometri dal Tropico del Capricorno, in Brasile), scorrono le più belle grafiche di sempre, quelle elaborate dalla Olivetti. Linee geometriche piene, linee punteggiate, bandiere che scorrono fino alla parte alta del teleschermo, formazioni in ordine di numero e non di ruolo: magie della grafica a pochissimi bit riportate all’interno della sfera video-analogica. Spettatori 63.525, temperatura 29°, umidità 76%.

Alla voce di Pizzul se ne aggiunge presto un’altra, più metallica e appuntita: Sandro Mazzola cerca di spiegare agli italiani quale criterio abbia condotto Vicini a schierare Vialli. Sicuramente darà più robustezza all’attacco e, siccome Bilardo ha paura dell’Italia, un giocatore simile permetterà di tenere stabilmente il pallone nella trequarti argentina, al contrario di quanto accadrebbe se giocasse Baggio, che è più portato a rientrare. Qualcuno, a Cernusco, si mette a ridere.

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Sabato 4 luglio 2015

Ore 00.35

Donadoni perde il pallone nella trequarti dell’Argentina, Giusti se ne impadronisce e lancia in profondità. I sudamericani, ora, si trovano a pochi metri dall’area italiana. La sfera giunge sui piedi di Olartichoechea, che crossa. Il pallone sembra essere destinato alla testa di Caniggia, che si sta preparando al salto. E poi accade quello che ogni tifoso italiano vorrebbe fosse accaduto. Zenga, che ha intuito l’esito della manovra argentina, si lancia verso El Pàjaro e riesce ad anticiparlo, mandando la palla in fallo laterale e cadendo malamente a terra. Mazzola e Pizzul, allarmati dalle urla del portiere interista, guardano il replay: la clavicola compie un movimento strano, simile a quello di un grissino con cui si tenta di tagliare il tonno Nostromo. Grissino che inevitabilmente si spezza. È probabile che l’infortunio comprometta la sua carriera. Caniggia tenta di consolarlo insieme a Maradona e a Ferri, tutti spaventati dalle grida di dolore dell’Uomo Ragno. Lo hanno ucciso prima del tempo.

A Cernusco, gli spettatori si guardano spauriti. Ma la palla non doveva entrare? No, non era al venticinquesimo del secondo tempo, era al trentesimo. Zenga però non si infortunava mica. Però l’azione era quella. Valderrama, che succede? Carlos guarda gli spettatori e ripete ecumenicamente “La superdifferita è testimonianza di verità, abbiate il coraggio di ottenere ciò che desiderate”. Zenga esce, Tacconi entra.

Ore 00.54

Manca un minuto. Vicini capisce che è giunto il momento di coprirsi: sostituisce anche Vialli con Baggio. Ma Baggio non entrava dopo il gol di Caniggia? Ma quanto manca? Ecco, ecco, adesso segnano. La memoria degli spettatori comincia a confondersi. Ma questa partita non l’abbiamo vinta? Forse. In Italia-Germania Schillaci dice a Voeller “ti faccio sparare”, no?

Scocca il novantesimo minuto: non la partita, ma un intero orizzonte di coscienza si sta eclissando. Vicini, sullo schermo, si passa un fazzoletto sulla bocca. Ha un colorito cadaverico e la lingua bianca. Al vecchio – già vecchio anche se ha solo cinquantasette anni – questa storia non piace. Avverte qualcosa di innaturale, un senso di destino incompiuto che lo disturba profondamente. Forse in un eccesso di scaramanzia, si era già preparato la frase da dire, in caso di sconfitta, alla fine della partita: “Tredici punti in quattordici partite. Ci sentiamo beffati: meritavamo la finale”.

Ora, mentre l’Argentina prosegue i suoi attacchi a testa bassa, sempre più disordinati e inconcludenti, sente che queste parole gli scivolano via dalla bocca, ripercorrono l’esofago irritato, riempiono di acido lo stomaco e gonfiano il fegato di presagi funesti. Azeglio non vuole ascoltarli, anche se forse dovrebbe. Ma, anche se li ascoltasse, non saprebbe che fare: è troppo tardi per tentare mosse suicide e, d’altronde, l’inerzia della partita sembra favorire l’Italia. Dalla sua bocca, allappata e maleodorante, provengono solo consigli inutili (“Tenete alto Troglio, non fatelo passare a destra”, “Non fate toccar palla a Maradona!”), mentre Vialli, insieme a Pagliuca, ride di lui alle spalle. Luca non teme che qualcuno possa leggergli il labiale. Oppure se ne frega.

“Povero Azeglio. E che brutta fine ha fatto”: i discorsi degli spettatori cernuschesi rievocano la prematura scomparsa di Vicini, nel Settembre del 1990. In piena notte aveva sentito degli strani rumori dentro casa. Aveva indossato rapidamente le pantofole ed era corso sul balcone. Forse era scivolato sul pavimento bagnato dalla pioggia di fine estate, forse era inciampato sul basamento della finestra. Forse si sentiva addosso un peso terribile, quello di avere cambiato il proprio destino. Lo avevano ritrovato il giorno dopo, all’alba, sul marciapiede. Il sangue, attorno alla testa, si perdeva in tanti rivoli quante erano le pieghe dell’asfalto poco curato e conferiva alla tinta biondiccia dei capelli un alone quasi punk, in perfetto contrasto con il pigiama azzurrino. Azeglio, con gli occhi aperti, guardava il cielo: le labbra erano leggermente incurvate, come se stesse per gridare qualcosa. Aveva la stessa espressione di quando, due mesi prima, Olartichoechea aveva calciato il pallone verso Caniggia.

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Ore 00.57

Dopo tre minuti di recupero, Michel Vautrot fischia la fine della partita. L’Italia ha battuto l’Argentina per uno a zero e si è qualificata per la finale di Roma. I giocatori, a centrocampo, si abbracciano. Loro non hanno capito, Azeglio sì. È appoggiato al tettuccio della panchina e tiene il viso tra le mani, come se fosse sabbia. Alza gli occhi e guarda la telecamera. Si avvicina all’operatore e dice: “Ma non vedete che è successo? Che ne sarà di me? Fatemi uscire da qui, vi prego. Liberatemi”. Ma a Cernusco nessuno lo sta ascoltando. Gli spettatori della superdifferita si abbracciano l’un l’altro, pensando già che il Mondiale, ormai, ce l’abbiamo in tasca. Che la Coppa la alziamo noi, tra quattro giorni.

Valderrama li guarda commosso. Vorrebbe rimanere lì per sempre, ma sa che non può. Prende il microfono, anche se sa che nessuno gli presterà attenzione. Grida: “Fratelli e sorelle, ecco come si diventa ciò che si è: Ecce Homo”. Fa cadere il microfono e si allontana.

Epilogo

Valderrama sta ritornando a Milano, sempre in bicicletta. L’aria della notte gli accarezza le braccia, il volto, i capelli. Arriva nei pressi dell’hotel, con il cuore gonfio di commozione. Mentre si appresta a parcheggiare, viene disturbato da una strana sensazione, come se ci fosse qualcosa dietro di lui che lo osserva in silenzio, senza farsi vedere. Si gira: in pochi istanti l’espressione del suo volto da stupita diviene rabbiosa.

Davanti a sé, sulle pareti della stazione di Garibaldi, nota prima un grande garofano rosso, poi una mano grassa e coperta di efelidi, poi ancora la manica di una giacca ben curata. Il suo sguardo, infine, ripercorre la linea del braccio, fino al collo e al volto: Bettino Craxi, con la faccia tirata da un lifting mal riuscito e un paio di occhiali dalla vistosa montatura nera, guarda fuori campo, verso le “magnifiche sorti e progressive” del socialismo italiano. Lo slogan recita: “Vota PSI. Un voto contro l’Europa dei banchieri e della Merkel. Un voto contro la crisi”.

La dolce commozione di prima lascia immediatamente il posto a un sentimento di sconforto. Valderrama si inginocchia e comincia a piangere. Piange di rabbia. Piange tutte le lacrime che, in questi venticinque anni, era riuscito a trattenere.

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