Chi vuol esser negro sia

Chi vuol esser negro sia
19 Gennaio 2015 scat

“Cazzo”. Il proprietario del negozio di articoli da regalo si butta giù dal letto in una litania di bestemmie. È mattina presto. La sveglia del telefono non ha suonato perché il telefono, sul comodino, non c’è. L’avrà preso suo figlio per smanettare con qualche videogioco o qualche sito porno. L’uomo si veste in fretta, si lava in fretta e si dimentica in fretta di svegliare la moglie, che a sua volta deve svegliare i ragazzi, preparare la colazione, portarli a scuola e fare visita di nascosto a una vecchia amica per confessarle le sue fantasie sul cugino del marito. Ma tutto questo il proprietario del negozio di articoli da regalo non lo sa. Seduto sul water, mentre la fretta gli impedisce di dare all’evacuazione il suo ritmo naturale, cerca di pensare al negozio che sta andando bene, al figlio che almeno ha portato a casa una buona pagella, alla macchina nuova che dovrebbe arrivare a giorni. Ma non ci riesce. La faccenda tra lui e il water si complica, i pensieri si imbizzarriscono e vanno dove vogliono loro. Non riesce a non pensare alla sveglia. Le 6.40 ogni mattina, che con un tocco sul telefono diventano le 6.43 e con un altro le 6.46, in un disperato e inutile tentativo di prolungare il riposo. Non riesce a non pensare alla dieta che lo sta mandando ai matti: niente pane, niente formaggio, niente maiale. Solo tanta, troppa verdura. Tanta, troppa carne bianca. La pesca sbucciata e tagliata a pezzi e messa in un bicchiere. Senza vino, niente vino. Non riesca a non pensare a quella stronza della moglie che continua a prendere multe sulla tangenziale, una alla settimana, sempre il giovedì e sempre nello stesso punto. Imbecille. Non riesce a non pensare alla tettona che ha lasciato il curriculum tre giorni fa al negozio. No, non se ne parla, non può assumerla. Una così manda all’aria il negozio. Meglio di no.

Intanto, in una camera d’albergo, Mario Barwuah dorme un sonno tranquillo, appena scalfito da un sogno in cui tiene in mano la fototessera di uno sconosciuto, un nero, coperta di cenere. C’è caldo e c’è puzza di bruciato. Poi il sogno se ne va da dov’era venuto e Mario non sogna più niente. Avrebbe potuto dormire a casa. Avrebbe potuto andare a ballare di nascosto. Ma non aveva voglia. Meglio di no.

 

balooo

“Sveglia, cazzo, sveglia!” Sono le dieci e mezza di sera e lo stadio è mezzo vuoto. È una bella serata di primavera, qualcuno avrà preferito andare a passeggio. Oppure, più semplicemente, molti non avevano voglia di venire a vedere questa partita. L’urlo arriva dalla tribuna coperta. Violento, cattivo, esasperato. In campo, Mario Barwuah trotterella sulla fascia sinistra, vicino all’area di rigore. È stato appena anticipato da un difensore avversario che poi ha provato a far ripartire l’azione con un lancio lungo, ma l’ha svirgolato malamente e la palla è finita sugli spalti. In tribuna, l’uomo che ha appena imprecato, che è anche il proprietario del negozio di articoli da regalo, accartoccia il giornale e lo lancia verso il campo. La palla di carta non fa molta strada. Atterra poche file più in basso senza fare danni e senza che nessuno l’abbia seguita con lo sguardo. L’uomo, l’urlatore, il proprietario del negozio di articoli da regalo, chiude gli occhi e cerca di calmarsi. In campo, Mario Barwuah passeggia in mezzo ai difensori. Svogliato, nervoso.

La partita non è particolarmente importante. La prima posizione in classifica è lontana anche se non ancora irraggiungibile. Serve un mezzo miracolo ma oggi non sembra giornata di miracoli. Mancano pochi minuti alla fine, il risultato è bloccato. Mario Barwuah riceve palla, sempre sulla fascia sinistra. Si guarda intorno. Uno dei suoi compagni gli offre un appoggio semplice, un altro si inserisce alle sue spalle. Ma lui non li vede o non li vuole vedere. In mezzo all’area il secondo attaccante si sbraccia e chiede palla. Mario si accentra, fa un paio di finte senza troppa convinzione, alza la testa e tira da 45 metri. La palla si alza, prende velocità e poi si abbassa all’ultimo momento. Troppo tardi. Sorvola la traversa. In tribuna coperta, il proprietario del negozio di articoli da regalo ha un sussulto. Senza volerlo e senza rendersene nemmeno conto, pensa al suo lancio del giornale. Moscio, ridicolo. Poi scuote la testa e urla ancora “Che cazzo fai, negro, la devi passare!”. Mario non alza la testa. Gira le spalle alla porta e torna nella sua posizione preferita, a sinistra, defilato. Non visto, gli scappa un mezzo sorriso tra il prato e la sua testa bassa. “Di un soffio”, pensa.

 

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A Palermo è l’una di notte. In via generale Cadorna c’è una donna africana stesa per terra al centro della strada. Grida, chiede aiuto in una lingua gutturale. È visibilmente incinta e non ha più di 25 anni. Le macchine, sporadiche, la schivano. Dopo un po’ qualcuno si ferma e le chiede cosa è successo. Lei, in inglese, racconta di essere stata spinta giù dalle scale dal marito ubriaco, poi ricomincia a piangere e gridare nella sua lingua. Le dicono che l’ambulanza sta arrivando, ma la cosa non sembra interessarle. Ha gli occhi arrossati e chiede insistentemente una sigaretta. 

Nel frattempo, il proprietario del negozio di articoli da regalo sta guidando per tornare a casa. È quasi arrivato. L’autoradio è accesa, parlano ancora della partita, l’ennesima occasione persa. Dicono che nello spogliatoio Mario Barwuah ha litigato con un compagno ed è andato via dallo stadio senza parlare con i giornalisti. Il proprietario del negozio di articoli da regalo spegne la radio con uno scatto di rabbia. “Negro di merda”, si lascia sfuggire nel silenzio dell’abitacolo. “Nessuna umiltà, nessun rispetto, giocatore inutile.”

A Palermo, in via generale Cadorna, i carabinieri sono arrivati prima dell’ambulanza. Sono in due e cercano di convincere la donna incinta a togliersi dalla strada. Lei non li ascolta, resta per terra e grida, negli intervalli chiede una sigaretta a chiunque le capiti a tiro. Un carabiniere commenta: “Ma perché fanno sempre sto casino? Ogni sera ce n’è una. Questa non è nemmeno caduta, fa scena. E troviamogli sta cazzo di sigaretta che non la posso più sentire”. L’altro non risponde, guarda la donna incinta, in silenzio, spaesato. Arriva l’ambulanza. Improvvisamente la donna smette di parlare. Si alza in piedi, si divincola dai due carabinieri che cercano di fermarla e scompare in un vicolo buio. Dalla finestra aperta di un appartamento affacciato sulla strada, con le luci spente, qualcuno urla “una galera!” con un forte accento africano. Gli infermieri restano immobili accanto all’ambulanza, ancora in moto. Uno di loro si accende una sigaretta.

Nel frattempo, Mario Barwuah è in macchina con la musica a tutto volume. Anche se non lo sente, sa che il telefonino sta squillando nella borsa sul sedile posteriore, ma non gli interessa. Supera il cartello che annuncia il controllo elettronico della velocità. Accelera, si avvicina ai duecento all’ora. Tra cinque chilometri c’è l’Autogrill, forse è il caso di fermarsi. L’uscita dell’autogrill arriva e passa e Mario non si ferma. Non ha così tanta fame e ha voglia di arrivare a casa. Ricomincia a pensare a quel tiro. I due passi verso il centro del campo, l’impressione che il portiere fosse distratto, la gamba che carica e la sensazione, quando il piede tocca il pallone, che sia partito bene. “Dieci centimetri più in basso e spaccavo la traversa”. Mario scoppia a ridere, nel frastuono dell’autoradio a tutto volume. La sua macchina si mangia la strada.