Völler e Rijkaard, guerra e pace

Völler e Rijkaard, guerra e pace
7 Ottobre 2015 scat

Sono le dieci della sera del 21 giugno 1988. Un ammasso informe e arancione di tifosi olandesi impazziti di birra e gioia rischia di far crollare le gradinate dello stadio, che per il momento reggono. In mezzo al campo ci sono Frankie, che come sempre ha l’aria di uno che non ha nemmeno sudato la maglia, e Rudi, che come sempre ha l’aria di uno che è stato mandato a comprare il latte e si è trovato davanti un plotone d’esecuzione. Per 90 minuti Frankie e Rudi si sono rincorsi, insultati e soprattutto picchiati. O meglio, Frankie ha rincorso, insultato e picchiato Rudi, che non ha fatto una piega. La partita è appena finita e Rudi sta pensando soltanto che i tifosi olandesi rischiano di farsi male se non si danno una calmata, perché sono troppi, troppo ubriachi e troppo felici. Li osserva e si guarda intorno per capire se qualcuno sta controllando, se qualcuno è pronto a intervenire.

In quel momento incrocia per caso lo sguardo di Frankie, lontano meno di cinque metri, con le braccia alzate. Per un attimo Rudi pensa che è meglio guardare altrove e ignorarlo, tornare alle preoccupazioni di prima, molto più importanti di una partita di calcio. Ma qualcosa, dentro di lui, lo convince che non può farlo, che è giusto subire l’ultimo sfottò, l’ultimo insulto. La Germania ha perso. L’Olanda aspettava questa vittoria da troppo tempo. Mentre il boato degli olandesi canta la rivincita attesa per 14 anni e sale costantemente d’intensità, Rudi decide di ricambiare lo sguardo di Frankie e aspettare l’insulto. Frankie però, invece di aprire bocca, fa soltanto un gesto con il braccio e indica qualcosa in direzione del settore occupato dai tifosi olandesi. Per un attimo Rudi si vergogna delle sue presunzioni e si convince che anche Frankie è preoccupato per l’incolumità dei tifosi olandesi. Poi guarda meglio. Davanti al muro arancione c’è Ronald Koeman che si sta strofinando la maglia di Olaf Thon tra le chiappe, come fosse carta igienica. I tifosi sono completamente fuori controllo. Le tribune dello stadio continuano a reggere, per miracolo. Frankie ride fragorosamente e la sua risata, nella mente di Rudi, si mischia con i cori, lo scherno, la sconfitta e la speranza che nessuno si faccia male.

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Sono le nove di sera del 24 giugno 1990. Fa caldo, molto più caldo di quanto non facesse ad Amburgo due anni prima. Rudi comincia la partita lavorando per la squadra e lasciando che sia Klinsmann a fare da riferimento in avanti, ma fin dall’inizio sente che c’è qualcosa che non va. Ogni volta che i neri dell’Olanda toccano il pallone lo stadio rimbomba di ululati razzisti, soprattutto quando la palla ce l’ha Frankie. Rudi corre, pressa, entra duro e intanto si chiede cosa stia succedendo, perché lo stadio insulti i neri e perché lui si senta così strano. Ha voglia di lasciare il piede per far vedere a tutti che con lui oggi non si scherza. Ha voglia di simulare come Klinsmann per vedere se riesce a fare ammonire qualcuno o a strappare un rigore. Ha voglia di umiliare, di provocare, di schiacciare. Intanto lo stadio continua a ululare contro i neri. Rudi si ferma per respirare ma non riesce a mettere i pensieri in fila. Da qualche parte, in fondo alla sua testa, sa bene che quegli ululati dovrebbero farlo pensare, come ha pensato tante volte, che tutta questa rivalità con gli olandesi non ha senso, che non vale la pena, che è solo una partita di calcio e che l’importante è stare bene e in salute. Ma è un pensiero lontanissimo, quasi inafferrabile, totalmente fuori sincrono con l’istinto.

Questa sera Rudi ha un istinto diverso. Gli ululati contro Frankie gli sbattono in testa la maglia di Thon, le dichiarazioni degli olandesi e gli insulti dopo la semifinale di due anni fa. Sente gli ululati e sente il sangue che gli pompa nelle tempie, rabbioso e freddo. I negri, la festa sregolata sugli spalti, i pericoli inutili, quei ricci naturali, i corpi che odorano di terra e non di cipolla, un sudore dolce, la spudorata cattiveria talmente stupida da apparire innocente a tutti, anche a lui. Rudi corre, odia, provoca tutti, simula come non ha mai simulato e ogni volta che si avvicina a Frankie cerca il suo sguardo, per capire se gli ululati lo stiano facendo infuriare, per capire come stia reagendo alla sua rabbia. Ma Frankie è sempre lo stesso. È lo stesso di Amburgo, è lo stesso del riscaldamento ed è lo stesso di tutte le altre volte. Frankie lo marca stretto e gli fa sentire i tacchetti tutte le volte che può. Per il resto corricchia in mezzo al campo con la solita eleganza, ridendogli in faccia e insultandolo tutte le volte che gli capita a tiro senza il pallone.

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“Perché non si accorge del mio odio? L’odio che mi pervade, io che non ho mai odiato nessuno. I riccioli bagnati, le spalle larghe, ho sentito dire troppe cose in questi anni, non possono essere tutte false. Sta andando di nuovo tutto in malora, non capiscono, non rispettano, provocano e non si può stare sempre lì e perdonare. Tutto lo stadio lo odia, anche io lo odio. Perché non se ne accorge?” Al ventunesimo minuto del primo tempo Rudi va a prendersi un pallone sporco sulla sinistra, scarta un avversario e punta l’area olandese, ancora lontana. Accanto a lui si presentano prima Klinsmann e poi Matthäus. Restano lì, a meno di due metri, chiedono palla e suggeriscono uno scambio stretto per superare la difesa. Ma Rudi non li vuole vedere, non sono loro che cerca. Sta cercando Frankie, la porta, gli spalti, i negri, gli italiani vigliacchi o tutte queste cose insieme, che sono tutte nella stessa direzione, dritto davanti a lui. Si allunga la palla e scatta. Davanti a lui appare Frankie, con il solito tempismo e con i ricci fluttuanti e le spalle larghe e come diavolo fa a non faticare mai. Frankie entra basso per contrastare. Rudi lo salta secco e si butta, con tempismo perfetto. Non è stato toccato ma a tutti sembra di sì. L’arbitro, stanco di placare gli animi ogni venti secondi, ammonisce Frankie. Rudi si alza, cammina verso l’area come se avesse ancora il pallone tra i piedi, poi si ferma, torna indietro, cerca Frankie. Non capisce, non pensa, vuole soltanto vedere sulla faccia dell’altro l’effetto della sua giocata, la squalifica per la prossima partita, sempre se ci sarà una prossima partita.

Rudi ora si sente spinto da migliaia di persone, migliaia di ululati, migliaia di urla che gli dicono di distruggere l’avversario, con ogni mezzo, senza mai fermarsi. Vuole vedere negli occhi di Frankie la paura del suo odio. Vuole vincere, picchiare, sottomettere, conquistare. Invece Frankie lo sfotte, ride. Gli sputa nei capelli. Improvvisamente Rudi perde completamente un filo che era già mezzo strappato. Protesta, si tocca continuamente lo sputo tra i capelli e lo mostra all’arbitro, che imbarazzato lo ammonisce e comincia a farsi la sua idea sul come risolvere la faccenda.

Rudi tocca lo sputo e corre verso l’area mentre un pezzo infiammato della sua coscienza gli suggerisce di assaggiare lo sputo per cercare una risposta nel sapore, la risposta che nella testa non è mai stata così lontana. Rudi corre, salta addosso al portiere avversario, sbatte i piedi per terra come se volesse distruggere il campo, viene espulso, capisce che rischia di chiudere il mondiale e cerca disperatamente gli ululati del pubblico contro Frankie. Non li trova più, nel frastuono di fischi e insulti dagli spalti e dal campo. Frankie, espulso anche lui, gli sputa di nuovo sui ricci biondi e se ne va, corricchiando, totalmente indifferente a tutto ciò che accade attorno a lui. Rudi fa per rincorrerlo, poi rallenta, poi si tocca di nuovo lo sputo tra i capelli, poi riprendere a correre verso l’uscita, verso un buio qualsiasi. Il sapore.

Sono le undici del mattino del 4 aprile 1996. Rudi indossa un accappatoio color panna sopra una maglietta bianca ed è seduto all’aperto davanti a una tavola apparecchiata per una colazione abbondante. Esegue gli ordini del fotografo che gli dice di sorridere e di imburrare una fetta biscottata, di bere un sorso di succo d’arancia, di voltarsi verso il suo interlocutore. Accanto a lui c’è Frankie, con indosso lo stesso accappatoio color panna. Frankie sta parlando già da un po’ ma Rudi non lo ascolta, continua a cercare di sorridere e concentrarsi sulle fette biscottate da imburrare. All’improvviso sente qualcosa cadergli dall’alto sulla testa e di scatto si gira verso Frankie, con gli occhi infiammati. Rudi si passa una mano tra i capelli e si accorge che era soltanto un ciuffo di aghi di pino, ma si accorge anche che i suoi capelli sono pochi, sottili e puzzano di quella crema anti-caduta che gli hanno venduto al telefono. Si tiene la mano sui capelli e sugli aghi di pino, forti, duri, profumati. Pensa che Frankie non sembra invecchiato. Pensa che il fotografo ha dato istruzioni soltanto a lui, come se Frankie andasse bene così, al naturale.

“Frank, perché mi hai sputato in testa?”, chiede all’improvviso. I suoi occhi passano in un’istante dalla rabbia alla richiesta alla preghiera. Frankie risponde subito, con leggerezza. “Ma non lo so, facevo lo stronzo perché mi dicevano che il centrale si fa così e che con la Germania è meglio fare così, ai tifosi piace. A me non me ne fregava un cazzo. Soprattutto Koeman mi rompeva le palle con quella storia. Per lo sputo ho sbagliato, scusami, ma quella sera sembravi fortissimo, ho dovuto farlo”. Rudi cerca di trovare qualcosa da dire e qualcosa da pensare ma non ce la fa. Il fotografo, che per qualche motivo si era allontanato, torna a impartire istruzioni, solamente a Rudi, che però resta immobile. Prova ad accennare un sorriso ma non gli riesce. Prende una fetta biscottata in mano e imburrarla gli sembra un compito quasi impossibile. Frankie si avvicina e gli sussurra in un orecchio “senti io ho una mezza idea su come spendere i soldi di questa cazzata”. Rudi strizza gli occhi e rimane in silenzio, a testa bassa, con il sole che gli illumina i capelli radi e l’ombra che gli rende i baffi neri. Ha un sorriso forzato e uno sguardo di terrore che nessuno può vedere.

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