Valderrama, o della memoria

Valderrama, o della memoria
10 Giugno 2015 scat

Lo ricordo (io non ho il diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo il pallone consumato che teneva sotto la suola, vedendolo come nessuno vide mai un pallone, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti rotondi, singolarmente remoto sotto i capelli biondi e i baffi neri. Ricordo (credo) i suoi piedi piccoli e arrotondati; ricordo attorno a questi piedi un paio di scarpini lucidi, sempre allacciati in modo impeccabile; ricordo a una finestra della sua casa una bandiera gialla della Colombia, con un alone di vino rosso. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa. Non l’ho visto più di tre volte. 

Il mio primo ricordo di Valderrama è assai netto. Lo vidi in una notte di giugno del 1990. Camminavo con mio cugino Ermanno nei campi tra Rigosa e l’aeroporto. Cantavamo una vecchia canzone che parlava della terra da coltivare, dei cartelloni pubblicitari e di una donna frivola, ma quel canto non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, una enorme tempesta colore ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento da nord, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse ancora lontani da casa. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una strada che affondava tra due altissime file di cespugli. Le nuvole avevano coperto la luna, circondandoci di oscurità. Udii alle mie spalle passi rapidi, quasi segreti; mi girai e vidi un ragazzo che correva in mezzo ai campi. Ricordo le sue scarpe da ginnastica nuove di zecca; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, i suoi capelli biondi e illuminati e il suo volto duro. Ermanno gli gridò, imprevedutamente: “Che ore sono, pibe?”. Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: “Mancano quattro minuti a mezzanotte, ragazzo”. La voce era acuta, burlesca. Mio cugino, cui stimolavo (credo) un certo orgoglio locale, mi disse che il ragazzo della stradetta era Carlos Valderrama, celebre per le sue gesta in campo e per alcune voci strane che circolavano da giorni tra la gente del paese: correva da solo nella notte e sapeva sempre che ora era senza guardare l’orologio, dicevano. 

Le estati del 91 e del 92 le passammo altrove, in una multiproprietà affacciata su una strada statale in provincia di Catanzaro. Nel 1993, infine, ci trasferimmo tutti a Breckenridge, negli Stati Uniti, e qualche anno dopo arrivò nello stato del Colorado anche Valderrama, per giocare nella mediocre squadra di calcio di Denver. Nel 2001 un terribile infortunio lo costrinse a letto per mesi, in una vecchia casa di legno che si trovava proprio nella nostra piccola cittadina. Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di noce in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto di simulare che l’entrata che lo aveva azzoppato fosse stata benefica. Due volte lo vidi dietro le assi di legno della sua casa, che grossamente sottolineavano la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina.

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Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato da qualche tempo lo studio metodico del latino. Avevo in camera mia il De viris illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modiche virtù di latinista. In un piccolo paese tutto si viene a sapere, e Valderrama non tardò a sapere che a Breckenridge c’era un giovane che possedeva questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, disgraziatamente fugace, “del giorno sette giugno dell’anno novanta”, esaltava i brillanti servizi che Luca Magi (mio zio, deceduto in quello stesso anno) “rese alle nostre due patrie nella gloriosa tenuta di villa Pallavicini”, e mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario “per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino”. Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata. Lì per lì, naturalmente, temetti una burla.

I miei cugini mi assicurarono che no, era stato proprio Valderrama a scrivere quella lettera. Non seppi se attribuire a trascuraggine, a ignoranza o a stupidità l’idea che per l’arduo latino bastasse, come solo strumento, un dizionario; per disingannarlo interamente gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio. Il 14 febbraio mi telefonarono da Tampa, in Florida, dove mio padre era ricoverato in una clinica privata e non stava “niente bene”. Dio mi perdoni; il prestigio che mi valeva d’esser destinatario d’una telefonata urgente, il desiderio di comunicare a tutta Breckenridge la contraddizione tra la forma negativa della notizia e la perentorietà dell’avverbio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, tutto questo, forse, mi tolse ogni possibilità di dolore. Nel far la valigia, notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis historia. Il mio volo decollava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m’incamminai verso la casa di Valderrama.

Nel giardino ben tenuto fui ricevuto dalla sua badante. Mi disse che Valderrama era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, poiché soleva passare le ore morte senza accendere la luce. Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C’era una pergola; l’oscurità potè sembrarmi totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Valderrama. Questa voce parlava latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel salone; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili; poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi che erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis historiaL’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum. Senza il minimo cambiamento di voce, Valderrama mi disse di entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all’alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente di umidità. Mi sedetti; ripetei la storia della telefonata e della malattia di mio padre.

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Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di dieci anni fa. Non tenterò di riprodurre le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Valderrama mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; lascio al lettore d’immaginare i frastagliati periodi che m’incantarono quella notte. Valderrama cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito: Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il suo compagno di squadra lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m’ascoltò).

Per quarant’anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Il dolore della frattura scomposta di tibia e perone gli aveva fatto perdere i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.

Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Valderrama: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1982, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con la forma dei capelli di un terzino messicano che aveva incontrato su un campo di calcio francese. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: “Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini messi insieme, da che mondo è mondo”. Anche disse: “I miei sogni sono come la vostra veglia”. E anche: “La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti”. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Valderrama vedeva la peluria labiale di una giovane cameriera, le camice e le cravatte di un allenatore in crisi, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo.

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Queste cose che mi disse, né allora né mai le posi in dubbio. Dall’oscurità, Valderrama continuava a parlare. Mi disse che due mesi prima aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemila tredici diceva (per esempio) Oman Biyk; in luogo di settemila quattordici, La Ferrovia; altri numeri erano Serrizuela, Gogolzolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, incrocio dei pali. In luogo di cinquecento, diceva nove. A ogni parole corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molti complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 365 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con i “numeri” Il Negro Baion o Mantello di carne. Valderrama non mi sentì o non volle sentirmi.

Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Valderrama, aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita e immaginata. Non solo ogni mediano di ogni rosa di ogni campionato, ma anche ognuna delle volte che l’aveva incontrato, scartato e immaginato. Decise di ridurre ciascuna delle sue ricerche passate a settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Non lo dissuasero neanche due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia e ne sarebbe stato lieto.

I due progetti che ho detto sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Valderrama. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cariatide potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il carneade dell IFK Helsinborgs (visto di profilo) avesse lo stesso nome comune del carneade del Fc Maputo (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Valderrama discerneva continuamente il calmo progredire della calcificazione nella sua gamba, dell’accumularsi di risultati, della sua indolenza di vivere. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Valderrama, nel suo povero sobborgo americano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Valderrama, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle querce secolari che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era il più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo alla strada, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Valderrama le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente. Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, l’italiano e il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Valderrama non c’erano che dettagli, quasi immediati.

Il chiarore esistente dell’alba entrò per il patio di terra. Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Valderrama aveva quarantuno anni; era nato nel 1961; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l’ Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) sarebbe durato nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti. Valderrama morì nel 2006, d’una congestione polmonare.