Matt Le Tissier: Malibu e Coca

Matt Le Tissier: Malibu e Coca
6 Luglio 2015 diego cavallotti

La villa poco fuori Saint Peter Port, capoluogo dell’isola di Guernsey, ha l’aspetto delle grandi ville in stile coloniale e i mattoni rossi delle council house. Sul citofono è stato appiccicato un pezzo di scotch-carta. Il nome, così comune nelle Isole del Canale e così poco comune nel resto della Gran Bretagna, è stato scritto da una mano incerta, forse di fretta: Le Tissier. Per gli abitanti dell’Hampshire, a molte miglia marittime di distanza, semplicemente Le God.

Sulla porta, in boxer e pantaloncini corti coperti da una vestaglia di flanella, Matt Le Tissier fissa il vuoto davanti a casa sua con un Coca e Rum in mano. Dietro di lui la troupe sta smontando gli ultimi attrezzi del piccolo set utilizzato per l’intervista. Distante dal giornalista intento a farsi struccare in cucina, Matt pensa che il terzo cocktail se l’è meritato quando quell’idiota gli ha chiesto per l’ennesima volta perché avesse rifiutato il Tottenham. E di nuovo quando ha insinuato che la sua condizione fisica, mai ottimale, fosse dovuta a uno smodato consumo di birra. Avrebbe voluto rispondergli “birra un cazzo, ti sembro Sheringham? Malibu e Coca”. E invece gli ha sorriso, perché alla fine lui è Le Tissier, Le God, il gigante buono. Con gentilezza, ha chiarito di non essersi mai interessato alle pinte di lager. Malibu e Coca. Malibu e Coca.

L’intervista gli ha lasciato un po’ d’amaro in bocca. Alla fine lui amava il rosso e il bianco del Southampton e quel soprannome, i Saints. E poi gli piaceva l’Hampshire, che ci poteva fare? Anche se Southampton non sembra il massimo, l’importante è conoscerne gli angoli segreti. Forse è il porto, forse l’inevitabile riferimento al Titanic, forse la lunga fila per il sussidio di persone perennemente in tuta da ginnastica. Sta di fatto che nessuno vuole rimanere a Southampton. Nessuno tranne lui, l’unico uomo che per diciotto anni ha scelto di restare nella città costruita di fronte all’isola di Wight.

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A pensarci ora, quella decisione probabilmente gli è costata la convocazione in nazionale per il Mondiale di Francia ’98. Forse avrebbe dovuto cedere e andare a giocare per la nazionale gallese. Nato nelle Isole del Canale, poteva scegliere in quale nazionale britannica giocare. Ma anche lì, la testardaggine aveva prevalso sul buon senso. Il ragionamento era in apparenza logico, anche se nascondeva una buona dose di ingenuità: se gioco bene nei Saints, perché non dovrebbero convocarmi? Risultato: soltanto otto partite giocate tra il 1994 (l’annus horribilis del calcio inglese, in cui i leoni non riuscirono a passare le qualificazioni per USA ’94) e il 1997.

Forse aveva ragione Cathy, da cui ha divorziato proprio nel 1997. “A Southampton ci stai bene solo tu, non combinerai mai niente, ti sei creato la tua corte dei miracoli qui, a duecento chilometri dal calcio che conta”. Proprio lui, che da bambino passava davanti alla Hauteville House di Victor Hugo, la villa di Saint Peter Port in cui lo scrittore francese aveva passato il proprio esilio, tra il 1851 e il 1870, scrivendoci I Miserabili. Proprio lui, che quando provava a partire in corsa palla al piede assomigliava un po’ al Quasimodo di Nôtre-Dame de Paris. “Un alieno”, pensa, ridendo da solo, con il bicchiere di Rum e Coca ormai mezzo vuoto. L’alcool comincia a scorrere velocemente nelle vene. Pensieri autoconsolatori e autodistruttivi. “Un freak, in fondo sono solo un freak”, dice sottovoce, scostandosi i boxer dalla pancia per assicurarsi che l’uccello sia ancora al suo posto.

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La percezione di una strana anomalia, tuttavia, non è solo la manifestazione di una depressione latente. La si avvertiva già dal suo fisico e dalle sue movenze quando era giocatore, così atipici per un atleta. Alto ma con scarsa elevazione, tarchiato, un po’ sovrappeso, sgraziato e con gambe sottili. Il fatto è che a una stazza da frequentatore di pub, così vicina a quella dei suoi coetanei sugli spalti, Le Tissier univa piedi e doti tecniche fuori dal comune che gli permettevano giocate maestose. Dribbling fulminanti con cui superava gli avversari quasi camminando, abbinati a una visione di gioco rara e a una genialità pura nell’intuizione improvvisa. Ma soprattutto un tiro che pochissimi in quegli anni potevano vantare. Le Tissier sembrava quasi incapace di segnare normalmente: pallonetto, a giro, di potenza, da fermo, d’esterno, di punta, da calcio d’angolo, da punizione e su rigore. Dagli undici metri era quasi infallibile: 48 centri su 49, dato che ne fa uno dei maggiori specialisti di sempre. La stragrande maggioranza dei gol li ha segnati dalla media e lunga distanza, quasi a voler confermare l’indole pigra e la sua scarsa attitudine alla corsa.

“Che cosa sono stato?” ripete ancora, silenziosamente. Uno splendido incompiuto con poca ambizione? Un talento enorme inespresso ad alti livelli per un semplice caso? Un calciatore fuori tempo massimo? E 200 gol in 500 partite bastano per rendermi Le God dei Saints?” Matt si appoggia alla colonna. Il conato di vomito non è dovuto alla vertigine dell’alcool (tre Malibu e Coca sono niente) ma a quella del tempo. La fuga da Guernsey, l’arrivo a Southampton a quindici anni, la proposta del Tottenham nel 1991, la decisione di rimanere. Il grande exploit dal 1992 al 1994, con circa quaranta gol all’attivo, le offerte di Liverpool e Chelsea, naturalmente rispedite al mittente. Poi la carica di Sir Alex Ferguson, desideroso di affiancare Le God a Le Roi, Eric Cantona. E di nuovo un rifiuto. Il calore della routine, gli anni che passano sulle rive della Manica. Decine di gol spettacolari ogni stagione, giocate di classe e salvezze ottenute spesso all’ultima giornata. Poi il ritiro, nel 2002, poco dopo aver segnato in modo indelebile e per l’ultima volta la storia dei suoi Saints.

 

19 Maggio 2001. The Dell, lo storico stadio del Southampton da 15000 posti, chiude dopo 103 anni per lasciare spazio a un impianto nuovo. I padroni di casa ospitano l’Arsenal. È una partita inutile ai fini della classifica, e Le Tissier entra solo a venti minuti dalla fine. È reduce da un infortunio grave. All’89mo il risultato è fermo sul 2 a 2. Lancio lungo del portiere, pallone respinto dalla difesa dei Gunners. Le Tissier stoppa e tira di sinistro di controbalzo. Palla all’incrocio. È una rete splendida, l’ultima al Dell. 3 a 2. Si chiude il sipario su uno stadio e su una carriera, il finale perfetto. Anche se agli occhi dei tanti detrattori, che gli rimproveravano la paura di affrontare grandi sfide, il gol contro i Gunners diventa l’emblema degli altri 200. Splendidi ma inutili, o quasi, sprecati come il suo talento, troppo per una piccola squadra come il Southampton.

Ma cosa lo ha spinto davvero a una scelta così incomprensibile? È stata più la paura di affrontare grandi sfide o l’amore incondizionato verso una squadra e i suoi tifosi? In fondo quello di Le Tissier sembra più un raro esempio di gratitudine ma anche di lealtà e di fedeltà in un contesto, quello di una squadra di provincia, in cui era più difficile essere leali. Molto più semplice restare allo United, dove si collezionavano trofei e diversi milioni di sterline ogni anno. Il “no” al Manchester è anche un folle atto di disobbedienza e anarchia, la negazione dell’ambizione, congenita in un calciatore, a vantaggio del puro e semplice piacere del gioco, a modo suo, senza grande fatica. Una cosa che difficilmente Ferguson gli avrebbe concesso e che anche in altri contesti non avrebbe ottenuto.

Boccheggiante, Le Tissier siede davanti alla porta aperta. “Una villa isolata a Guernsey. Altro colpo da maestro, Matt. Come se ci fosse bisogno di isolarsi dall’isolamento”, pensa. Dai boxer fa capolino un testicolo violaceo. Il giornalista esce dal soggiorno ormai completamente struccato e domanda in tono affabile: “Non abbiamo parlato della tua nuova avventura di presidente-giocatore del Guernsey. Perché l’hai fatto?”. Le Tissier lo guarda come un cane che si prepara a defecare: uno sguardo indifeso e dolce. Si volta dall’altra parte e vomita Coca, Malibu e succhi gastrici. E rimane lì, con gli angoli della bocca sporchi, fissando il volto stupito dell’intervistatore. O forse la vertigine del tempo.