Lo strano Natale di Ancelotti in Canadà

Lo strano Natale di Ancelotti in Canadà
24 Dicembre 2015 Michele Manzolini

C’è la luna sui tetti, c’è la notte per strada. Le ragazze ritornano in tram.  È la vigilia di Natale e a Vancouver la neve è caduta fitta fitta per una settimana. La città dorme il sonno dei giusti, ma non tutti riposano. Babbo Natale sta ultimando il suo giro per la consegna dei doni, passando nei comignoli più stretti, scendendo le scale impervie, i selciati scivolosi: tutti devono ricevere i meritati presenti. C’è una casa austera, in una delle vie più altolocate della città, con una fievole luce colorata che proviene da una finestrella al secondo piano. Chi sta ingannando questa notte sacra? Chi la sfida? Babbo Natale lascia slitta e renne sul prato imbiancato e si arrampica per sbirciare curioso dal pertugio illuminato. Un uomo canuto e sulla sessantina sta guardando una partita di calcio su un enorme tablet da 17 pollici. Stravaccato sul divano a lato di un albero di Natale dalle larghe fronde sta prendendo appunti vocali su di un Iphone che tiene con la mano sinistra. La voce udibile al di qua del vetro suona roca e stanca, sbiascicata in un vago accento spagnolo. Anche se la stazza non è più quella di un tempo, il sopracciglio inarcato è inconfondibile anche per un disinteressato di calcio come Babbo Natale.

Cosa ci fa Carlo Ancelotti a Vancouver? Ha cinquantasei anni, tanti tanti milioni, una terza moglie canadese e sta per diventare nonno.  Ma nessun contratto da allenatore. Dice il Mantegazza che a una certa età l’uomo ha bisogno delle famose tre C: carezze, caldo, comodo. Ancelotti ha fatto suo tale aforisma aggiungendo però la C più importante, quella della Champions League. Dopo averne vinte tre ha deciso di dire basta alla soluzioni avventurose. Aspirare alla gloria terrena non è da tutti, ma chi ne è degno deve lavorare duro per essa. E non è mica facile. Serietà sul lavoro, niente compromessi, poca confidenza con la gente, rare ma accurate pubbliche relazioni, allargare i propri orizzonti, niente bar, niente circoli, un po’ di chiesa. Aspetto fisico integro. Aspetto morale integerrimo. Ancelotti aspetta altri sei mesi e poi si sistema. Nella vecchiaia i conti con l’amore, l’amicizia e l’ambizione devono essere già saldati. San Pietroburgo sarebbe un’amante opportunista, Roma una vecchia fiamma troppo amata, Milano un amore ossessivo e non più corrisposto. Monaco sarà carezze, caldo, comodo.

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Dice il Mantegazza che vivere è di tutti, viver bene è di pochi, viver con scienza e conoscenza di pochissimi. Ancelotti vuole essere tra quei pochissimi. Ci ha pensato a lungo prima di emigrare, e chiaro gli mancano i sapori inconfondibili che sono il marchio di fabbrica del Belpaese. La cucina, l’aria, perfino la nebbia. Ma la salsa più saporita è l’appetito, e per saziarlo appieno arriva un momento in cui senti il bisogno di nuovi stimoli. Dal punto di vista umano, non solo professionale, la vita in metropoli come Londra, Parigi e Madrid è stata per lui un arricchimento impagabile. Un viaggio fra culture, tradizioni, gastronomia e costumi che aveva avuto modo appena di sfiorare nella sua vita da calciatore. In Inghilterra poteva liberamente passeggiare per le strade, andare al cinema, rilassarsi a cena nel suo ristorante preferito, senza mai essere disturbato. Di Parigi gli è rimasta dentro la grande bellezza, paragonabile solo a quella di Roma. E i migliori spaghetti al tartufo che abbia mai assaggiato. A Madrid ha trovato molte atmosfere italiane, più romane che milanesi. Laggiù si vive con meno stress, anche se tutto è molto passionale. Ma non è un ossessione, è più una cultura dello spettacolo, che forse deriva dalla corrida. Il Bernabeu è come il suo caro Teatro Regio di Parma, dove il pubblico non perdona. Una sera di molti anni prima, raccontavano gli anziani, vi cantò Paul Anka all’apice del suo successo con “Diana”. Leggenda vuole che uno dei tanti ascoltatori del Regio ne apostrofasse i limiti vocali con il sano buon senso dell’arguzia dialettale: “Paul Anka? Pol anca anda a cagher”, arrotando diabolicamente la r moscia da intenditore. Ma Ancelotti sa che chi riesce ad avere successo lì, è un cantante vero, destinato alla gloria.

E poi all’improvviso è scappato in Canadà. A chi lo chiama per interviste o contatti di lavoro risponde adducendo le solite scuse: operazione alle vertebre, convalescenza, nascita della nipotina, anno sabbatico. Omette di parlare di cucina, giardinaggio e caccia al salmone. Ovvero le uniche passioni che lo stanno allietando davvero da quando si è trasferito a Vancouver. Ancelotti pianifica i pasti. Questa è la sua occupazione fondamentale. Si alza molto presto e chiede alla moglie Mariann cosa si mangerà. Organizza la cucina, sistema il giardino, compra gli ingredienti giusti e si mette ai fornelli. La dieta che si è imposto dagli anni di Londra è rigida, niente pane, pasta e zuccheri. L’unica cosa alla quale non ha rinunciato sono gli affettati. Il culatello è al tempo stesso proteina e ricordo materiale di casa. Ma se di giorno si svaga in cucina, di notte si gode il silenzio e la comodità del suo salotto. Resta sveglio agli orari più improbabili per guardare il calcio che si gioca in Europa o per rivedere sul tablet vecchie partite registrate da uno dei burocrati dell’agenzia che gestisce i suoi contratti e la sua immagine sui social network. Anno sabbatico si, ma tenersi aggiornati è un obbligo, come dice il suo maestro Arrigo.

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Ogni mese si concede un fine settimana per dedicarsi alla pesca al salmone, una passione che ha imparato ad amare grazie a Ibrahimovic. Dice il Mantegazza che la canna da pesca è un bastone che ha un verme a un’estremità e un idiota all’altra. Ma una volta al mese ci si può anche concedere un bagno di idiozia. Tanto più se, come Ancelotti, si è costruito il resto del tempo della propria vita sulla pianificazione, la calma e il buon senso. Non è infatti un caso che nei ritagli di tempo stia scrivendo un’opera dal titolo provvisorio di “Quiet leadership”,  un libro motivazionale per traslare i suoi personalissimi valori vincenti nel mondo dell’imprenditoria e del management. La grossa casa editrice americana che glielo ha commissionato lo invita spesso a importanti conferenze tra Las Vegas e la California, per anticiparne piccoli stralci. Un leader silenzioso, vincente, sempre calmo e di buon senso, gli americani lo amano e lo rispettano. E poi c’è quel particolare, che secondario non è, che li manda in brodo di giuggiole: lo sguardo gelido e impassibile, di accondiscendenza o disprezzo non si sa, sormontato da un misterioso sopracciglio inarcato. A Hollywood non si sono certo fatti scappare quel dettaglio così affascinante e lo hanno scritturato per il ruolo di un medico cattivo nel nuovo episodio di Star Trek in uscita il prossimo autunno. Ancelotti ha accettato di partecipare al film per gioco, per amicizia con una delle attrici o per vivere fino in fondo il sogno americano. Probabilmente per noia.

Un medico che ispeziona corrucciato il cadavere di un alieno sull’Enterprise, un poliglotta godereccio che visita i migliori ristoranti del mondo, un apprezzato e silenzioso autore di best seller motivazionali, un ruvido pescatore di salmoni, il miglior allenatore di calcio del mondo, un futuro nonno tutto coccole, carezze, caldo e comodità. Ancelotti si è ormai addormentato sul divano. Il tablet giace girato sul ventre, l’Iphone è caduto per terra e registra solamente il potente russare. Sul tavolino un bicchiere mezzo vuoto di lambrusco riflette le luci intermittenti dell’albero di Natale. Tra non molto si alzerà ed andrà a dare un bacio alla moglie, per farle gli auguri e per chiederle cosa si mangerà, come sempre. Ma chissà se prima si accorgerà che sotto l’albero qualcuno ha lasciato un piccolo regalo per lui, avvolto in una carta rosso e oro. È una palla di vetro con la scritta “Buon Natale Carletto”.  All’interno, in plastica, una riproduzione in miniatura dell’aia di un casolare di Reggiolo con i maiali, le oche, un carretto di legno e un bambino che gioca. Se la si scuote scende una neve sottile, simile alla nebbia di dicembre. Dice il Mantegazza che quando la tristezza vuol far capolino sul proprio orizzonte, basta bere un bicchierino di vino in più, fregarsi le mani e canticchiare a bassa voce questa giaculatoria: “Oggi è il giorno più giovane che mi rimane a godere. E quanti vorrebbero giungere dov’io son giunto!”.