L’infortunio è più grave del previsto

L’infortunio è più grave del previsto
27 Gennaio 2016 Maurizio Buquicchio

L’odore che impregna la stanza è quello dell’urina, vanamente contrastato da folate di amuchina e cloro, adoperati senza ritegno dagli infermieri. Gli effluvi che si mescolano nelle narici del calciatore sono gli stessi degli esercizi in piscina e degli orinatoi di Tokyo, prima della finale intercontinentale. Non ci sono ricordi, solo gli odori. Il calciatore non ricorda in che anno è stata la finale di Tokyo, non ricorda se l’ha giocata o è rimasto in panchina. Il cervello è quasi andato. Non ricorda più un gol nè una partita. È da troppo tempo in quel letto di ospedale, nella sua testa il tedio ha fatto posto alla confusione. E al dolore, che rimane vivido, intenso, il dolore di tutti gli infortuni subiti in carriera, serrato fra i denti dalla volontà, soffocato nei gangli nervosi dalle pasticche, dalle supposte, dalle flebo.

Le flebo le riconosce, con gli occhi e con le orecchie. Lo sgocciolio persistente e regolare lo aiuta a misurare il tempo delle giornate, più delle visite mediche e di quelle sempre più rare di amici e parenti. Il ticchettio del liquido trasparente è interrotto solo da voci ovattate, oltre la tenda alla sua sinistra. “Fraaanca! Fraaanca.” Accanto a lui c’è un ex deputato della DC. È steso, nudo, con il torace coperto da garze ingiallite dal pus. È arrivato all’ospedale lucido, addirittura pimpante, accompagnato dalla moglie. I primi giorni leggeva i giornali, faceva il galante con le infermiere: “Io, alle mie donne, regalo un mazzo di rose bianche.” Poco dopo l’intervento i punti si sono infettati, lo sterno è stato rimosso, e così i freni inibitori. “Fraaaaanca, aiuto, aiutami. Puttana!”

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In terapia intensiva fa caldo, l’aria è secca e nessuno aiuta il calciatore a bagnarsi le labbra, durante la notte. L’ossigeno pompato nei polmoni fornisce un sollievo momentaneo, ma secca la bocca e le narici, facendolo sentire assetato, come durante i ritiri in alta montagna. “Lo sapete… qual’è… il probblema…” dice l’ex deputato con il suo accento romano. “Il probblema in ospedale, è il freeeeddo! Il freeeddo. Fraaancaaa.” La prima volta che il calciatore è finito all’ospedale è stato da ragazzino. Quella volta il problema era il caldo. Un febbrone da cavallo. Acetone: una malattia forse estinta.

“La befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte, il cappello alla romana, viva viva la befana.” Un ritiro prepuberale di provincia. Lui e gli altri pulcini in visibilio, la visita del presidente. Dopo settimane di minestrone e patate lesse si erano tutti avventati sulle calze, traboccanti di sigarette di cioccolata, surrogato di cioccolata. I duri involucri delle “Rossana” polverizzati in millesimi di secondo per succhiare con la foga il morbido cuore, le molli viscere di sciroppo di glucosio, zucchero, latte condensato zuccherato, olio di arachide, siero di latte in polistirolo, latte scremato in polvere, burro anidro, nocciole, mandorle, armelline, aromi, emulsionante e lecitine.

E poi le monete di cioccolato. Le sue preferite. Allora non poteva sapere. Non poteva immaginare che avrebbe fatto le ospitate ai quiz coi gettoni d’oro. Che il presentatore lo avrebbe stuzzicato, che i rotocalchi lo avrebbero incalzato, che la soubrette non avrebbe preso la pillola e si sarebbe fatta sposare. Non sapeva che avrebbe firmato i contratti milionari. Ora i milioni non ci sono più. I gettoni d’oro si sono sciolti. L’innocenza è andata. Sono rimasti solo il dolore, e la diarrea. Anche oggi è la befana. Proprio davanti al suo letto, gli infermieri hanno sistemato una madonnina, strangolata dalle lucine intermittenti di Natale. Per qualche ragione, quei fili fragili e la corrente elettrica che li attraversa gli ricordano il suo infortunio peggiore.

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Il dolore più atroce, come una scossa, lo provò quando si ruppe la spalla dopo un contrasto col portiere. I compagni videro la sua faccia diventare viola e poi paonazza. Lo videro stramazzare al suolo, con la clavicola che usciva fuori dal muscolo. Poi c’erano stati i legamenti del ginocchio, qualche anno dopo: il pallone finito sotto la suola, in corsa, gli attimi precedenti allo schiocco, secco, in cui pensava di sfruttare quel movimento fortuito per cambiare direzione e correre verso la porta. Anche quella volta il terrore negli occhi dei compagni, i più giovani quasi in lacrime. 

E infine un dolore diverso, più rarefatto, avvolgente. In aereo, durante una trasferta, giocava a scopa con un paio di giornalisti. La parola “settebbello”, le sillabe che si disfano nella bocca “Set..teb..bel..loo”. Le dita tremolanti che sbattono la carta sul tavolino, in modo troppo violento per esprimere la gioia di un punto di poco prestigio. Gli erano sempre piaciuti i disegni sulle carte napoletane. Soprattutto i denari. Credeva che con i milioni, con l’aiuto del presidente, l’avrebbero rimesso a posto. “Sei come un figlio per me. Tornerai ancora più forte. Noi ti aspettiamo, eh? Non fare scherzi. Qualunque cosa, ripeto, di QUALUNQUE COSA tu abbia bisogno, ci pensa la società.”

La coscienza sporca per le iniezioni da cavallo, gli allenamenti massacranti, le infiltrazioni di cortisone, si era ripulita velocemente. Come l’amuchina, il buonismo non aveva però cancellato il puzzo di piscio dalle mani del presidente, dal suo parrucchino, dalle spalline di gommapiuma del gessato. Qualche menzione nelle interviste, a petto infuori, un paio di partite del cuore. “Eh, ma all’epoca che ne potevamo sapere. Ci siamo fidati dei preparatori, è il mio più grande rimpianto. La vittoria di domenica è dedicata a lui, che sono certo ci guarda e sorride. Da quanto tempo non lo vedo? Ripeto, la vittoria di domenica è dedicata a lui, queste cose rimangono fra di noi, non vorrei si strumentalizzasse. Ora testa al Vicenza, sono sicuro che il regalo più bello che possiamo fargli è un’altra vittoria.”

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Due ex compagni gli hanno dedicato una fondazione. Sono davanti a lui, in questo momento, all’ospedale. Il calciatore non se n’è nemmeno accorto. Ha sentito, però, una strana ondata di aria fredda, e poi il calore di una massa di persone che prima non c’era, nella stanza. Tante voci nuove, con accenti ed età e raucedini diverse. Il fruscìo dei calzari da ospedale che scivolano sul pavimento. Devono essere le 18:45: l’ora in cui i parenti, famelici, fanno a gomitate con gli ausiliari per entrare a imboccare pastine, sistemare cuscini, tastare cateteri.

“CERTO CHE È PROPRIO VERO CHE  ‘N OSPEDALE SE MORE. AO’ MA QUELLO NUN È L’EX GIOCATORE? ANVEDI COME S’È RIDOTTO PORACCIO. LI MORTACCI SUA SE CORREVA, NA VORTA CE N’HA FATTI DUE  STO FIJO DE NA MIGNOTTA. Con tutto il rispetto, eh.”

L’ex compagno più famoso gli tocca la testa, gli asciuga un rivolo di bava, lo abbraccia. L’altro sta là in piedi e lo guarda serioso, passandosi una mano sulla fronte corrucciata. Il primo lo guarda negli occhi, cercando di captare qualcosa. Poi si gira, e fa un cenno all’altro. Questo gli risponde con una smorfia di insofferenza. “Vabbè, allora glielo dico io?”
“No, no aspetta. Non vedi che sta per dire qualcosa?”
“Macchè. Dai, glielo dico io. Ueee carissimo, allora? In forma?”
Il calciatore, a letto, non reagisce.
“Dunque, domenica sera, c’è una cosa bellissima che abbiamo preparato per te.”
Nessuna reazione. Ora gli occhi sono fissi su una giovane parente che spalma della crema idratante sulle piaghe da decubito di un vecchio, steso sul letto difronte, attaccato alla macchina per la dialisi.
“Sai, la fondazione? Ti ricordi? Allora, domenica giochiamo contro la nazionale cantanti, e insomma, se potessi firmare qui… abbiamo già il permesso dei medici eh… e di tua moglie naturalmente. Insomma, allora, se potessi firmare la liberatoria… ti portiamo a fare un bel giro di campo, che dici? Come ai vecchi tempi, sarà bellissimo, immagina la gente come sarà contenta.”
L’ex compagno sistema il foglio di carta vicino alla mano del calciatore, sul letto. L’altro guarda preoccupato. “Ma dai, guarda che firma, è un volpoooone lui, guarda, guarda che firma, capisce tutto.”

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Il calciatore, con quello che appare come uno sforzo sovraumano, scarabocchia qualcosa sul pezzo di carta, ignorando la linea tratteggiata. I due filantropi prendono il foglio in mano. I loro sorrisi ebeti scompaiono. Il calciatore, dal letto, li guarda sbattendo le palpebre, come in segno di sfida. I due parlottano fra loro, lo abbracciano. Fanno un selfie e vanno via. “Vabè dai, torniamo domani che ora sembri un po’ stanco dai. Ciao caro.” La stanza è ormai vuota, le luci spente. Le lucine di Natale, invece, continuano a brillare ritmate. Una ausiliaria corpulenta, con i capelli raccolti e gli occhiali spessi, pulisce il pavimento. Raccoglie un foglio di carta. Lo avvicina a sè, sollevando gli occhiali per leggere meglio. Sillaba lentamente il testo della liberatoria, ma si interrompe per decifrare lo scarabocchio scritto a penna: “S-T-R…OOOO-N..ZI”.