Interno notte: Luciano Moggi

Interno notte: Luciano Moggi
22 Luglio 2015 Johnny

Il Puma prende il pallone. È al limite dell’area, si ferma e alza la testa. Davanti a lui un mucchio di giocatori indefinito. I colori delle maglie si mischiano. Il bianco, il nero, l’amaranto in un’unica tavolozza sfocata. È il novantacinquesimo minuto e il risultato è di 2 a 1 per i padroni di casa. È l’ultima azione: il brasiliano senza guardare calcia verso il centro dell’area. Un cross liftato, la sciabolata disperata, l’ultima preghiera.

L’uomo apre gli occhi. Sopra di lui un soffitto bianco. Per un istante non riesce a capire dove si trova. Smarrito, si guarda intorno: nota nella penombra un comodino, una televisione accesa ed un piccolo frigobar. L’ennesima stanza d’albergo, uguale a tutte le altre. Resta immobile ad ascoltare il suo respiro affannato. In lontananza ode il fischio di un treno. Chissà da dove è partito, chissà dove starà andando. Ricordi di una vita passata gli balenano in testa: il passaggio a livello, il caldo e le domeniche ai campetti di provincia, ad osservare e studiare. Tutte le domeniche. L’uomo ricaccia subito i ricordi nel dimenticatoio della sua anima e rimane in silenzio ancora qualche secondo. Pensa di nuovo a quel nome che lo perseguita da qualche giorno e che proprio non riesce a ricordare. Come cazzo si chiamava? Non gli viene in mente.

Il pallone vola sopra la testa dei giocatori. Il difensore della Reggina Piccolo abbraccia Camoranesi quanto basta per impedirgli di raggiungere la sfera. Nedved salta ma non riesce a intercettarla. Soviero tra i pali orchestra i compagni al ritmo di ordini e bestemmie. Lo stadio non ha più voce per un istante, forse in quel momento nessun suono può fare breccia nella barriera di tensione che avvolge il campo da gioco e l’area della squadra di casa. Improvvisamente dietro la linea difensiva amaranto, forse in fuorigioco o forse no, spunta un uomo con la maglia della Juventus. È un ragazzone nerissimo.

L’uomo accende la luce della stanza e capisce che fuori è ancora notte. Nota sulla scrivania, davanti al letto, la sua valigetta e nel vederla si sente rassicurato. È diventata la sua fedele compagna di viaggio negli ultimi dieci anni. Ovunque vada se la porta dietro. Dentro sono riposti in ordine tutti gli atti del processo, le trascrizioni delle intercettazioni, le analisi delle partite incriminate, le dichiarazioni dei testimoni. Si alza, è nudo. Alla televisione trasmettono un vecchio dibattito politico al parlamento europeo. Apre il frigobar e prende una bottiglia di acqua naturale. Mentre beve la sua mente sta ancora cercando quel nome. Come si chiamava quel giocatore? Era francese, era un tipo alto.

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Il ragazzone stoppa la palla di petto. Sull’angolo destro dell’area piccola della Reggina si erge, davanti a lui, nell’ultimo estremo tentativo di difesa il numero 7 della squadra calabrese, Matias Veron. Il giocatore della Juventus con un’abile finta di destro lo mette a sedere e lo salta. Tira di sinistro. Non può sbagliare. Soviero è battuto: è il gol del pareggio. Ibrahimovic alza le mani in segno di gioia. Del Piero corre in rete a prendere il pallone per accelerare la ripresa del gioco. Sia mai che si riesca addirittura a vincere.

I bagni degli alberghi sono inquietanti, lo pensa da sempre. Sono asettici, con quelle luci bianche sembrano delle sale operatorie, o i vuoti spogliatoi degli arbitri. L’uomo ancora nudo si osserva allo specchio. Il fisico ormai cadente per la vecchiaia rispecchia il suo stato d’animo attuale: è la rappresentazione fisica delle numerose cicatrici ancora aperte che squarciano il suo cuore e uccidono la sua anima. Si sciacqua la faccia con un getto freddo sperando di rinfrescarsi oltre il viso anche la memoria. Alla televisione un sorridente Berlusconi elenca ai burocrati europarlamentari le bellezze dell’Italia. Niente da fare, di quel maledetto nome ancora nessuna traccia. Il suo sguardo incrocia per un istante il suo pisello riflesso nello specchio. È enorme.

Il guardialinee rimane fermo all’altezza dell’area di rigore reggina. L’arbitro Paparesta corre verso di lui. I giocatori in campo capiscono che si sta decidendo qualcosa di importante e si raggruppano isterici intorno al direttore di gara e al suo assistente. Dopo pochi secondi il verdetto: non è gol. C’è chi sostiene che sia fallo di mano, chi fuorigioco, non si capisce più nulla. L’unica certezza è che il gol è stato annullato e la partita è di fatto finita. Soviero, portiere che indossa la maglia numero 8, si gira verso la curva dei suoi tifosi e alza le braccia al cielo. La Reggina ha vinto l’incontro.

L’uomo ora è fermo al centro della stanza. Ascolta distrattamente la televisione e immagina il rumore del silenzio. Potrebbe aprire la valigetta e cercare negli atti del processo, oppure potrebbe chiamare suo figlio e farsi cercare il nome su internet. Ma vuole ricordarlo con la sua testa, non come lo ricordano gli altri. I propri ricordi sono l’unica salvezza contro la follia e la menzogna. E la verità, alla lunga, non è altro che l’incessante ripetizione di ciò che è stato e della propria versione dei ricordi. Che siano essi veri o falsi non è importante. La verità è l’unica cosa che conta. Un Berlusconi sempre più spavaldo e sorridente conclude il suo intervento tra lo sdegno generale: “… la suggerirò per il ruolo di Kapò”. L’uomo apre improvvisamente gli occhi e sorride. La strada verso la redenzione è ancora lunga, ma lui è pronto a percorrerla per intero.