Il sorriso di Allevi

Il sorriso di Allevi
21 Settembre 2015 diego cavallotti

Il suo sorriso smagliante e stupido, fissato nell’immagine di un poster pubblicitario, era presente in tutte le città italiane, dalla Stazione Centrale di Milano alla Fontana dell’Elefante di Catania. Lo Stivale ne era invaso. Secondo le stime dei migliori sondaggisti, quel sorriso poteva favorire la ripresa dei consumi per uno 0,005%. Poco, ma “piutost che nient, l’è mej piutost”, come diceva Mario davanti al suo piccolo salone da barbiere di Gallarate. Già tre clienti avevano richiesto quell’acconciatura riccia da artista che vuole rimanere bambino. Poco, ma “quanto basta per fare giornata”, come diceva l’unico dentista di Aci Trezza, interrogandosi su come fosse possibile riprodurre quella dentatura da topo, con gli incisivi leggermente sporgenti. Dopo che le televisioni nazionali, pubbliche e private, avevano trasmesso la notizia, gli italiani si erano riversati sulle strade. Il loro racconto era stato puntuale e immediato: un commando ben organizzato aveva rapito lui, Giovanni Allevi, l’idolo di chi ama la musica da sala d’aspetto. Dopo qualche giorno, tuttavia, il cordoglio si era placato e aveva lasciato lentamente, ma inesorabilmente, il posto a una santificazione vuota e stucchevole.

Cinque giorni prima

Giovanni Allevi aveva finito l’ultima intervista della giornata. Per l’ennesima volta si era sentito domandare come gli fosse venuta in mente la melodia di “O Generosa”, l’inno della Serie A. E per l’ennesima volta si era calato sul volto la maschera dell’artista svagato e infantile perché geniale. L’intervistatore, questa volta, si era accontentato di poco: era bastato dire che si trattava di una composizione riguardante l’anima dello sport, la lealtà e la generosità. Tutto ciò che la competizione tende a rendere marginale. Nel testo in latino e in inglese gli autori volevano fondere classicità e modernità facendo emergere la forza invisibile che sospinge ogni vero campione. Perché un vero campione non è tale solo sul campo di gioco, ma lo è soprattutto nella vita. “E io”, aveva aggiunto alla fine con la volontà di strizzare l’occhio a chi ha un QI inferiore a 70, “ho capito che, se non siamo campioni anche nella vita, non potremo mai cogliere quel senso di bellezza che avvertiamo quando, da bambini, osserviamo una margherita. Mamma mia quanto sono nervoso: è incredibile stare a parlare qui con te”. Dopo aver risposto ad altre due domande sul destino dell’universo e su come si deve fare cultura in Italia, Allevi aveva congedato il giornalista, il quale, a sua volta, gli aveva promesso che la sua intervista avrebbe occupato due interi fogli della pagina culturale del Corriere. Forse alcuni brani sarebbero stati pubblicati anche dal sito della Gazzetta dello Sport. Chiudendo la porta di casa, Allevi aveva telefonato al suo agente, dicendogli apertamente che non ne poteva più di parlare di quella scorreggia di inno. Aveva già alle calcagna alcuni blogger che avevano trovato delle strane somiglianze tra “O Generosa” e la colonna sonora di Superman. Non avevano colto il rimando alla polifonia monteverdiana, gli stronzi.

Fare arte in Italia stava diventando impossibile. Voleva andarsene via, come Saviano, magari proprio negli Stati Uniti. Insomma, in un posto in cui vedere il proprio talento finalmente riconosciuto. E, forse, avrebbe trovato anche un po’ di tempo per ammazzarsi di spritz con Gabriele Muccino. Già che c’era, diceva sempre Allevi al proprio agente, voleva puntare un po’ di soldi sulla svalutazione del Taka Bengalese: che trovasse lui un broker in grado di farlo. In questa condizione d’animo, decisamente malmostosa, Allevi si stava preparando per uscire. Doveva andare a promuovere la nuova sinergia tra industria musicale e industria calcistica in un incontro in cui Tavecchio gli avrebbe consegnato una maglia della nazionale con il suo nome e il numero 10 stampati sulla schiena. Tavecchio gli stava simpatico: abbastanza svagato per fare figuracce senza accorgersene, abbastanza pragmatico per sganciare soldi, tanti soldi, per musica di qualità, come la sua. Uscendo dal portone di casa, Allevi aveva avuto la strana sensazione di essere seguito. Ormai gli capitava sempre più spesso: aveva paura di morire come John Lennon. Aveva paura che qualcuno a cui aveva firmato un autografo potesse scaricargli addosso la propria frustrazione e un paio di colpi di calibro 45. Due passi in avanti e questa sensazione aumentò in maniera netta. Due passi in avanti ancora e sentì un oggetto freddo e appuntito appoggiarsi alla sua schiena. Una voce roca e baritonale gli stava dicendo: “Entra nella macchina che vedi davanti a te, altrimenti ti tiro fuori un rene con le mie mani”. Subito dopo un colpo sulla nuca lo fece svenire. E per minuti, forse ore, fu solo buio.

 

Allevi si svegliò in un posto che sembrava uno scantinato, anche se era meno umido di uno scantinato. Si sentiva scomodo: aveva le ginocchia legate a un piccolo balzello, mentre il petto e la pancia erano appoggiate a un tavolino. Era lì, culo all’aria, mentre davanti a lui, come in un caleidoscopio, da confuse macchie di colore si componevano alcune strane figure. Ora lo poteva vedere chiaramente: davanti a lui c’era un uomo incappucciato. Le sue gambe esili erano in netto contrasto con il torso nerboruto. L’uomo si avvicinò a lui e gli disse dolcemente, quasi volesse rassicurarlo: “Giovanni, tu sai perché sei qui?”. Allevi scosse la testa, pensando che fosse un trabocchetto. Se non avesse detto niente, forse, si sarebbe salvato. L’uomo premette PLAY da un microtelecomando che aveva in mano. Le note di “O Generosa” risuonarono per tutta la stanza a volume altissimo. Allevi voleva coprirsi le orecchie, ma non poteva: le sue mani erano legate al tavolino. “Basta, basta, ti prego” esclamò il musicista. L’uomo gli si avvicinò di nuovo: “Adesso hai capito perché sei qui?”. Allevi provò ad argomentare: l’uomo però, alla seconda parola che Giovanni pronunciò dopo il sì, fece ripartire la musica e uscì dalla stanza. Si lasciò alle spalle la stratificazione polifonica di “O Generosa” come un uomo che lascia dietro di sé un edificio in fiamme.

Tornò da Allevi qualche ora dopo. Il musicista aveva due profonde occhiaie e aveva vomitato sul pavimento. Dalle sue orecchie usciva un po’ di sangue. L’uomo incappucciato ebbe pietà di lui per un istante e spense il dispositivo hi-fi. O forse no. Spegnere la musica era un gesto ancora più sadico. Significava togliere ad Allevi l’ultima cosa a cui aggrapparsi e farlo cadere definitivamente nella trappola. Gli si avvicinò cautamente, dicendogli: “Ora che hai capito perché sei qui, ti possiamo dire anche chi siamo noi e che cosa vogliamo. Siamo le Brigate Valderrama. Noi siamo il pharmakon. Tu la malattia. Vedi, noi ci sentiamo profondamente offesi. Uno che scrive musica da sala dentistica non può inventarsi un coro polifonico che faccia da inno calcistico. Anche perché a noi, del coro polifonico, non ce ne frega un cazzo. Noi vogliamo tastiere anni ’80 e sintetizzatori. Vogliamo che un vocoder corregga le stonature. Vogliamo questo”. E, premendo sul tasto di avvio, fece risuonare, sempre ad altissimo volume, il ritornello dell’inno del Milan. “Milan, Milaaaan, sempre con te” gridò l’uomo, mimando con le braccia la sequenza di batteria. “Hai capito ora?”. Il musicista vomitò di nuovo. “No, dai Giovanni, non fare così. Dai, ascolta questa” disse l’uomo, facendo ripartire l’impianto hi-fi. “Amala, pazza Inter amala – dai canta con me” proseguì, porgendogli il telecomando come se fosse un microfono. “Una gioia infinita, che dura una vita…”. Ma Allevi non si muoveva. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Infastidito da quella mancanza di entusiasmo, l’uomo si diresse verso Giovanni, gli tirò i tinti capelli ricci e lo prese ripetutamente a sberle in faccia. Tumido e sanguinante, Allevi svenne.

Una secchiata d’acqua gelida brucia sulle ferite più del sale. “La vita è una merda, eh?” gli disse l’uomo. “Perché non sorridi più? Devi sorridere! Il musicista-bambino dentro di te lo chiede. Non lo senti urlare?”. L’uomo incappucciato tirò fuori il coltello e liberò Allevi. “Se fai cazzate ti cavo un occhio. Vai sotto Valderrama”. Giovanni si guardò attorno disorientato. Lo vide: sulla parete dietro a lui campeggiava il volto del Pibe. Ai lati destro e sinistro erano presenti due lettere, un B e una V. “Prendi la Gazzetta dello Sport e ridi”, gli venne intimato. Il musicista raccolse il giornale da terra e camminò claudicante fino alla parete. “Ridi!”, ripeté l’uomo incappucciato. E qui si compì il miracolo: come se il loro interruttore avesse ripreso a funzione, i muscoli facciali di Allevi si contrassero meccanicamente nella consueta smorfia ebete. L’uomo scattò diverse fotografie. Quando ebbe terminato, si avvicinò a Giovanni, lo ammanettò e lo fece inginocchiare. “D’ora in poi, uno di questi” – e indicò con la lama del coltello l’orecchio – “non ti servirà più. D’ora in poi sarà solo ‘Pazza Inter’ e l’inno del Milan”. L’agonia non durò molto: giusto il tempo di un urlo strozzato e di un fiotto di sangue che si sparse per tutta la parete, colorando di un rosso acceso la sagoma di Valderrama. L’uomo incappucciato sganciò le manette e il corpo di Giovanni cadde come corpo morto cade.

Le fotografie vennero stampate su giornali, riviste, cartelloni pubblicitari e poster. Si trasformarono, a loro modo, in un simbolo. Molti filosofi provarono a riflettere sul significato di quel sorriso, senza riuscire, tuttavia, a spiegarne l’enigma. Allevi, invece, fu ritrovato ancora vivo nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani a Roma. Poche settimane dopo, durante una conferenza stampa, Tavecchio comunicò che la Lega A aveva un nuovo inno: “OK Italia” di Edoardo Bennato.