Breve storia del resto del mondo

Breve storia del resto del mondo
13 Gennaio 2016 Federico Ferrone

La partita contro il resto del mondo è un concetto fondamentale. Si potrebbero scrivere trattati sulle implicazioni filosofiche, sociologiche e letterarie della lotta tra il gruppo e il mondo intero, tra l’identità e la massa, anche se la dimensione titanica è sminuita dal fatto che nel calcio, come dice il vecchio adagio, si gioca pur sempre 11 contro 11. La cosa più vicina a una vera sfida contro il resto del mondo è stata probabilmente la partita a scacchi giocata e vinta telematicamente da Garri Kasparov contro 57mila avversari nel 1999. Ma è nel calcio che il concetto ha avuto origine ed è nel calcio che ha trovato applicazione universale. Nelle partitelle improvvisate nel cortile di casa, nelle pause durante le gite scolastiche o dopo i pranzi di matrimonio, contrapporre una comunità ben definita e numericamente adeguata all’insieme complementare di tutti gli altri è tradizionalmente uno dei modi più comuni di fare le squadre: Bari contro resto del mondo, quarta C contro resto del mondo, famiglia Di Fonzo contro resto del mondo.

Si potrebbe pensare che questa tradizione affondi le radici nella notte dei tempi, invece ha un’origine ben precisa e nemmeno troppo lontana. Era il 1963, e la Football association inglese aveva deciso di celebrare il centenario della sua fondazione con una sbruffonata che sembrava venire direttamente dalla metà dell’ottocento, quando l’impero britannico poteva ancora pensare di tener testa al mondo intero: sfidare la Fifa a mettere insieme una squadra pescando i migliori calciatori dalle rose di tutte le sue federazioni per affrontare i Tre leoni a Wembley.

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La Fifa la prese sul serio. La selezione fu affidata al cileno Fernando Riera, che aveva guidato la sua nazionale al terzo posto ai mondiali giocati in casa nel 1962 e l’anno successivo aveva conquistato lo scudetto portoghese con il Benfica. A difendere la porta fu chiamato il ragno nero Lev Yashin. I terzini erano Djalma Santos, unico rappresentante del Brasile campione del mondo l’anno precedente (il Santos aveva proibito a Pelé di partecipare all’incontro), e il tedesco Karl-Heinz Schnellinger. Di fronte avevano la spina dorsale della Cecoslovacchia vice-campione del mondo: Svatopluk Pluskal, Ján Popluhár e il Pallone d’oro in carica Josef Masopust. Davanti c’era gran parte del talento del Real Madrid cinque volte campione d’Europa: l’ala sinistra Francisco Gento, l’attaccante francese Raymond Kopa e ovviamente la saeta rubia Alfredo Di Stéfano. A completare l’attacco erano la Pantera nera Eusebio e Denis Law del Manchester United, con Ferenc Puskás e la leggenda dell’Amburgo Uwe Seeler pronti a subentrare dalla panchina.

L’Inghilterra era più o meno la stessa che tre anni dopo avrebbe dato ai suoi tifosi l’unica gioia in un secolo e mezzo di storia: Gordon Banks, Bobby Moore, Ray Wilson, Bobby Charlton, Jimmy Greaves.

Il “Match of the Century”, come fu definito dalla stampa inglese, fu giocato il 23 ottobre davanti a centomila persone e ai reali d’Inghilterra. Il primo tempo si concluse a reti inviolate, soprattutto grazie alle parate di Yashin che quel giorno si guadagnò un pezzo del Pallone d’oro dell’anno successivo. Nella ripresa il portiere sovietico fu sostituito dallo jugoslavo Milutin Šoškić e l’Inghilterra aumentò la pressione, ma il match rimase in equilibrio fino al 66esimo, quando Terry Paine sbloccò su una ribattuta. A dieci minuti dalla fine lo scozzese Law diede un dispiacere alla sua regina, ristabilendo la parità con freddezza, ma a tempo scaduto Greaves decise l’incontro in favore dei padroni di casa con un altro tap-in.

Dopo quell’incontro memorabile, il resto del mondo non tornò a calcare i campi fino al 1967, quando la federazione spagnola decise di riprendere l’idea della Football association per celebrare il 65esimo compleanno dell’ex portiere della roja Ricardo Zamora.

Stavolta la Fifa affidò la selezione al mago Helenio Herrera, allenatore dell’Inter che aveva guidato la stessa Spagna dal 1959 al 1962. In quegli anni Herrera era anche commissario tecnico dell’Italia insieme a Ferruccio Valcareggi, e non stupisce che la squadra che mise insieme fosse dominata dagli azzurri: Gianni Rivera, Sandro Mazzola, Tarcisio Burgnich, Giuliano Sarti, Mario Corso – con alcune aggiunte di lusso come i reduci del match di Wembley  Schnellinger ed Eusebio, l’altra stella del Benfica Mário Coluna e lo svedese Kurt Hamrin.

Sulla carta i padroni di casa non sembravano all’altezza: della squadra che nel 1964 aveva conquistato gli europei domestici restavano solo il portiere José Ángel Iribar e l’attaccante Marcelino Martínez. Soprattutto mancava la vera stella della Spagna degli anni sessanta: Luisito Suárez, pupillo dell’allenatore avversario. L’incontro, svoltosi il 27 settembre al Santiago Bernabeu, confermò le aspettative: 0-3 per il resto del mondo, reti di Mazzola ed Eusebio nel primo tempo, arrotonda nel finale il belga Fernand Goyvaerts subentrato proprio al portoghese.

Ben altro spettacolo doveva offrire Brasile-Resto del mondo, svoltasi il 6 novembre 1968 al Maracanà davanti a 93mila persone giunte per celebrare il decimo anniversario del primo mondiale vinto dai verdeoro. La terza incarnazione della selezione Fifa fu affidata a Dettmar Cramer, già assistente di Helmut Schön ai mondiali del 1966 che avrebbe poi conquistato due coppe dei campioni con il Bayern Monaco nel 1975 e nel 1976. La squadra avrebbe dovuto essere costruita sulla spina dorsale dell’Inghilterra campione del mondo – Gordon Banks, Bobby Charlton, Bobby Moore – ma all’ultimo momento la federazione inglese negò ai giocatori il permesso di onorare la tradizione che essa stessa aveva originato. Cramer poté consolarsi con i suoi compatrioti Beckenbauer, Overath e Schulz, con Yashin, con l’ungherese Florian Albert, pallone d’oro in carica, e con il fuoriclasse della Stella Rossa Dragan Džajić. Una squadra di tutto rispetto, che però si trovò davanti l’embrione di quella che molti considerano la nazionale più forte della storia: il Brasile del ‘70. Nell’undici messo in campo da Aymore Moreira c’erano molti dei giocatori che avrebbero battuto l’Italia allo stadio Azteca: Pelé, Jairzinho, Tostão, Rivelino, Gerson e Carlos Alberto. La partita fu comunque abbastanza equilibrata: il Brasile passò in vantaggio con Rivelino, ma fu raggiunto prima del riposo da Albert. A un minuto dalla fine dei tempi regolamentari la gara fu decisa in favore dei padroni di casa da Tostão.

Dopo quella vittoria la federazione brasiliana si fece prendere la mano. Negli anni successivi sfidò il resto del mondo in almeno altre cinque occasioni: nel 1973, nel 1976, nel 1989 a Udine per l’addio al calcio di Zico, nel 1990 per i 50 anni di Pelé e nel 1996.

L’ultima partita dell’età dell’oro di questa saga è probabilmente Argentina – Resto del mondo, giocata a Buenos Aires il 25 giugno 1979 per celebrare l’anniversario del discutibilissimo mondiale vinto in casa dall’Albiceleste l’anno precedente. La selezione ospite era guidata da Enzo Bearzot e comprendeva ben quattro degli azzurri che il vecio avrebbe portato al trionfo tre anni dopo: Cabrini, Tardelli, Causio e Paolo Rossi, a cui si aggiungevano diversi futuri protagonisti del campionato italiano come Michel Platini, Zibi Boniek, Ruud Krol e Zico. Una squadra tosta, con poche cariatidi e molti giovani talenti, che finì per imporsi sui padroni di casa grazie a un’autorete propiziata da Rossi e al gol di Zico. Quasi a compensare l’ingiustizia del 1978, l’unica gioia per gli argentini venne da un quasi esordiente che non aveva preso parte al mondiale dei generali: il 18enne Diego Armando Maradona, ancora all’Argentinos Juniors, che scelse quel palcoscenico globale e quel campo coperto di carta igienica per lanciare al mondo il primo squillo della gloria futura, con un sinistro a giro all’incrocio che recava impresso il marchio della predestinazione.

Negli anni successivi il concetto identitario alla base del dualismo viene diluito con iniziative votate soprattutto alla raccolta fondi, come la partita tra Americhe e Resto del mondo svoltasi al Rose Bowl di Los Angeles un mese dopo la finale di Messico ‘86 (2-2, gol di Tery Butcher e Paolo Rossi per gli ospiti, di Maradona e Roberto Cabañas per il nuovo mondo, che poi si imporrà ai rigori) e quella tenutasi l’anno successivo a Wembley per celebrare il centenario del campionato inglese, vinta tre a zero da una rappresentativa di giocatori della Premier league. Il crollo del blocco sovietico ridà un breve afflato di storia universale con l’incontro Unione Sovietica-Resto del Mondo (addio alla nazionale di Oleh Blochin, che gioca un tempo con la maglia rossa e l’altro con gli ospiti, quasi a preannunciare la grande fuga oltrecortina che sarebbe cominciata da lì a pochi mesi) e l’inchino della comunità internazionale alla Germania unita fresca campione del mondo e prossima dominatrice d’Europa, che si impone 3 a 0.

Ma è un fuoco di paglia. Le squadre cominciano a riempirsi di stelle a fine carriera e nomi che il tempo ha già reso illeggibili: Edison Mafla, Stanley Menzo, Basualdo. Gli stadi si svuotano, la tigna arcinazionale si spegne nel gelido mercantilismo dell’era della globalizzazione trionfante. Mentre la Coppa dei campioni cede il passo alla Champions League, l’evocativa formula Resto del Mondo viene sostituita dal marchio commerciale Fifa World Stars. Sotto la pressione di sponsor e televisioni gli incontri si moltiplicano e diventano indistinguibili dalle partite del cuore (si veda l’esempio più recente, Beckham padre e figlio contro resto del mondo). Tenerne traccia è quasi impossibile e soprattutto non  ha alcuna importanza. Questa storia si conclude con un evento che prova una volta di più la validità del vecchio detto sulla storia e la farsa.

Il 16 dicembre 1998 la Figc celebra il suo centenario cimentandosi in una specie di imitazione della sfida del 1963. Il Match of the century italiano si gioca a Roma, in uno stadio Olimpico vuoto per due terzi, dopo una deprimente coreografia di bambini in tuta. La nazionale appena raccolta da Dino Zoff dopo la terza eliminazione ai rigori consecutiva affronta una squadra che sembra messa insieme da un fantallenatore tredicenne o da un sondaggio “vota il tuo Dream team”: Ronaldo, Weah, Batistuta, Zidane e Rui Costa davanti, nessuno a centrocampo, Hierro e Dunga in difesa. Gli azzurri trovano il modo di andare sotto, poi sfogano le frustrazioni passate e future imponendosi 6 a 2. Tripletta di Enrico Chiesa.

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