Carneadi e cariatidi: centrocampisti

Carneadi e cariatidi: centrocampisti
28 Gennaio 2015 Federico Ferrone

La prima parte della saga Carneadi e cariatidi: i difensori
L’ultima parte della saga Carneadi e cariatidi: gli attaccanti

Alla profonda differenza tra difensori e centrocampisti non fanno eccezione i Carneadi. Da operaio specializzato a tutt’altra mansione, infatti, il centrocampista raduna in sé competenze basilari e specifiche, dalla visione di gioco all’abilità negli spazi stretti, alla velocità di pensiero, al cambio di passo che imponga un ritmo personale alla manovra, tutti requisiti fondamentali dosati con senso dell’equilibrio, lucidità e coraggio per supportare gli attaccanti e per aiutare i difensori. Per questo motivo il catalogo dei Carneadi acquista necessariamente qualcosa in fosforo, sapienza, complessità, piedi e idee, perdendo forse la semplicità e la purezza del centrale difensivo, poliziotto della propria trequarti senza ambizioni di promozione.

Il Carneade che si muove a centrocampo, a guardarlo bene, ha la stessa aria dei centrocampisti in genere, forti o scarsi che siano. Quella sensazione indescrivibile di chi ostenta di capire di calcio, di percepirlo istintivamente. Anche il centrocampista Carneade vede compagni e avversari come predestinati, pedine di qualcosa che nella propria testa era già chiaro prima che accadesse. Anche il centrocampista Carneade sa di non essere necessariamente il primo responsabile dei gol fatti e subiti. Se perde palla si chiede “dov’erano i difensori?”, se la riconquista urla “dove sono gli attaccanti?”.

Ciò che trasforma un centrocampista in un Carneade è, invece, ancora una volta, la propria coerenza con sé stesso. Egli tendenzialmente si sente perfettamente a suo agio in uno stile anonimo e classico. Gioca semplice verso il compagno più vicino, lo fa da sempre e lo farà sempre, in ottuse squadre di alta quota come in rilassanti compagini costiere. Questo perché conosce ogni centimetro della propria angusta anima e sa che più di così non si può fare. Per questo motivo, oltre che per merito di una natura che si identifica senza eccezioni nel modo di dire “si fa quel che si può”, non riesce a fare neppure di meno.

Può essere insoddisfatto di sé, ma non lo si potrà mai definire non pienamente realizzato. Il Carneade, anche a centrocampo, è un essere compiuto, al massimo delle proprie possibilità. Non lo si può sottovalutare, perché è innegabile che abbia qualità. E d’altro canto guai a sopravvalutarlo, perché da lui non ci si può aspettare niente più che una partita normale, discreta, mediocre, sufficiente.

Un lancio perfetto è un’eccezione, ma può capitare.

Un passaggio corto e fiacco che provoca il contropiede avversario non è frequente, ma può capitare.

E quando si tratta di difendere il pallone dal pressing avversario non è naturale aspettarsi un dribbling. Più probabile che ricorra a un pacato e prudente retropassaggio.

Prima i fatti, poi la poesia, insomma. Ma non sempre.

Ed eccoli, i fatti che arrivano:

Luca Zuffi: una famiglia di Carneadi

Luca Zuffi, centrocampista a metà strada tra Simone Missiroli e Mathias Sammer, vibra dolcemente ogni notte perché sta vivendo un sogno. D’altra parte è un Carneade molto speciale. Per cominciare è un figlio d’arte. È nato quando suo padre Dario, durante gli esaltanti week-end del 1990, vestiva la maglia dello Young Boys, la squadra con la quale è rimasto nella storia per aver battuto negli anni Ottanta il Real Madrid al primo turno di Coppa dei Campioni (al ritorno al Bernabeu cinque gol del Real con doppietta di Butragueño).

L’anno dopo la grande impresa sfiorata con il Real, Dario inizierà a concepire tre Zuffi, il primogenito Sandro, il secondo, il nostro Luca, il terzo Nicola. Tutti crescono nel FC Winterthur, squadra di una cittadina confetto del cantone di Zurigo in cui la maggior parte dell’immigrazione straniera è costituita da italiani. Sandro farà il difensore centrale in piccoli campi di non più di quattromila posti (una carriera da Schaffhausen) e oggi gioca amorevolmente nella squadra del fratello più piccolo, il ventiduenne Nicola, anche lui difensore centrale dello Young Fellows Juventus, società in parte originata da una vecchia colonia juventina a Zurigo. Nicola è titolare inamovibile, Sandro è inamovibilmente in panchina o in tribuna.

L’11 ottobre 2014, Sandro e Nicola hanno anche giocato insieme, contemporaneamente in campo, anche se per pochi minuti: gli Zuffi contro la prima in classifica, risultato finale 0-2. Sandro tornerà in tribuna, Nicola inizierà un periodo di infortuni e di esperimenti tattici.

Ma papà Dario quel giorno non c’era.

Perché in casa Zuffi gli occhi sono tutti per Luca. Una settimana prima Luca, il Carneade speciale, aveva battuto il Liverpool nei gironi di Champions League con il Basilea. L’inno della Champions League, quella che i calciatori chiamano “la musichetta” e che ai tempi del padre non esisteva ancora, il secondogenito l’ha ascoltata da protagonista. In realtà in quell’occasione Luca è entrato al novantesimo. Ma alla fine della fase a gironi avrà accumulato 353 minuti nel trofeo per club più prestigioso del mondo, quasi sempre partendo da titolare e sfoderando addirittura due assist, uno proprio contro il Real Madrid di Ronaldo e Bale nel malinconico debutto (1-5), l’altro, un breve retropassaggio spalle alla porta al limite dell’area, contro il Liverpool ad Anfield Road nella partita che regalerà la qualificazione agli ottavi al piccolo Basilea.

Il padre, ora vice CT dell’Under 21 svizzera, trascorre tutto il tempo di un programma televisivo a loro dedicato davanti a uno schermo che trasmette spezzoni di partite del campionato svizzero degli anni’80, in cui i gol del giovane Dario passano in secondo piano rispetto alle capigliature vaporose ed alle posture sbilenche tipiche dei Carneadi di trent’anni fa.

Infatti mentre Dario scruta il passato con occhio sapiente e commosso, il figlio siede rigido sul divano accanto a lui, come un estraneo, e al massimo qualche volta ride. Gli altri figli non ci sono, sono nell’altra stanza, ripassano le lezioni di tattica del padre, dei tanti padri che hanno avuto nelle province del cantone di Zurigo.

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Luca Zuffi è la cellula impazzita di una famiglia devota al dio Carneade, in cui il padre ne fu esemplare perfetto ed il suo sangue, distribuito su tre DNA diversi, ha prodotto due giocatori scadenti e uno con un dono.

Un Carneade speciale.

A guardarlo giocare distrattamente si potrebbe persino sospettare che Luca Zuffi sia qualcosa di più, che il destino gli riservi di crescere ancora, ma se ci si concentra bene sul suo dinamismo un po’ esagitato, sulle sue corse a vuoto, sull’aria arrembante con cui incarta ogni sua giocata, si capisce bene che il suo è un bellissimo sogno: è un cavallino potente, un Carneade all’apice della sua carriera.

A tavola, nel grande salone della casa di Winterthur, papà Dario osserva in silenzio il forte Luca che mangia una bella bistecca e si chiede come sia stato possibile. Nicola, in cucina, apre con entusiasmo una schweppes. Sandro è sempre nella sua stanza, a ripassare.

Paulo Machado: il Moustaki Walk

Paulo Machado è un uomo basso e strano. A queste due caratteristiche deve aggiungere quella, indiscutibile, di essere un portoghese di Bairro do Cerco, quartiere a est di Porto, una periferia spoglia dove i turisti non vanno, disseminata di blocchi di palazzine basse, disoccupazione e plotoni d’esecuzione di tv locali, pronti a lanciare drammatici allarmi sociali. È il supermercato dello spaccio, ci sono gli zingari, gli alunni si puntano la pistola in classe, i giovani picchiano i tossici, i tossici picchiano i giovani, gli zingari e la polizia si sfidano senza guardarsi negli occhi.

Paulo è nato nel 1986 e non è cresciuto oltre il metro e settantaquattro, due centimetri in più di Modrić, due in meno di Deco, in teoria i due punti di riferimento per un tipo come lui, apparentemente solido, teoricamente tecnico.

Machado cresce a testa bassa, come un muletto, dispensando assist pregevoli nelle trafile delle giovanili del Porto, laureandosi campione d’Europa under 17, poi finalmente smette di promettere e debutta in campionato, a diciannove anni, dieci anni fa, subentrando dalla panchina a Costinha. Qualche settimana dopo entra al posto di Diego. Prima regista arretrato, poi trequartista. Le due nature di Machado non saranno esplorate da quel Porto se non per una mezz’oretta in tre anni: da allora Paulo inizia a curare di più il suo fisico, la sua immagine. Tatuaggi, muscoli, pizzetto, lo sguardo da talento sveglio diventa spento ma cattivo, da bulletto che imita un boss. L’eredità di Bairro do Cerco fa impazzire le teenager.   

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La metamorfosi lo trasfigura in tutta la sua lenta e graduale ascesa verso valori di mercato che arrivano fino a oltre quattro milioni di euro, sia pure in piccole e medie squadre. Il Tolosa, il Saint-Étienne. Cuori spezzati fuori dal campo, corrente alternata nel rettangolo di gioco. Ogni tanto diventa abulico, pigro, il ragazzo può fare di più ma non si applica. Peggio gioca e più si abbruttisce, a volte, soprattutto nelle sue stagioni portoghesi al Leiria, sembra un assassino. Poi tira fuori una bella punizione, un passaggio intelligente e capisci che la gente lo vuole, che gli allenatori preferiscono tenerlo in campo, che i presidenti sperano che il suo valore cresca ancora. Ma non crescerà più. Nessuna squadra crede in lui. Perché si prende troppe pause, perché uno così piccolo dovrebbe essere molto più forte per meritarsi di giocare. Deve pensarci, come al solito, l’Olympiakos a farcire di trofei l’ennesimo mercenario affamato di passaggio. Machado deve ai greci gli unici tre titoli vinti in carriera, a parte la coppa sollevata da adolescente.

Deco e Modrić non l’hanno praticamente mai sentito nominare. Modrić perché non legge i giornali, Deco perché non segue il calcio.

Umorale, rabbioso, attaccabrighe, pretenzioso, arrogante, eppure così sperduto in campo, con tutte le pause che si prende. Uno così piccolo, per giocare in mezzo al campo, dovrebbe avere i piedi di Deco o di Modrić.

Quelli di Machado servono in provincia, per sgusciare, magari a forza di rimpalli, sulla destra in area di rigore e, portandosi la palla a fatica su ginocchia e cosce e destro e sinistro, tutto in corsa, camuffato da palleggio, proiettare improvvisamente un diagonale perfetto al centro dell’area piccola dove un attaccante grintoso in scivolata può anticipare difensori e portiere.

Questa è l’esatta descrizione dell’unico assist stagionale di Paulo tecnico ma non troppo Machado nella sua nuova squadra, la Dinamo Zagabria, prima in classifica: una fuga improvvisa, faticosissima, con gol di Duje Čop. I due si abbracciano. La punta è stata rapidamente deportata in serie A, con la promessa del paradiso ed è già finito sui giornali sportivi italiani con il titolo: “Uragano Čop”.

L’assistman portoghese rimane al riparo da ogni paragone scomodo, ben lontano sia dai titoli altisonanti che dal presunto degrado della sua periferia natia, dove crescono vagonate di buoni Carneadi come lui. Deve ancora compire ventinove anni, costa 2 milioni e mezzo: non poco, ma potrebbe far comodo al nuovo ambizioso progetto del Bologna. In passato c’è stato persino qualche contatto. Di lui resta, in ogni caso, una danza sacrificale drammatica e leggera, una piccola umiliazione a cui si sottopone senza rendersene conto, ai tempi di vacche grasse dell’Olympiakos. Una danza propiziatoria, prima del declino, il Moustaki Walk:

Custódio: muro com protestos

I Carneadi sono soliti accettare di buon grado l’anonimato che li circonda, considerandolo meritato e inviolabile. La loro routine è la loro vita e la difendono ad ogni costo, cercando in tutti i modi di non diventare mai grandi giocatori, al massimo brave persone, affidabili compagni di spogliatoio, cani fedeli che amano stare per proprio conto.

Custódio era uno di questi. Se ne stava, sereno, nel nord del Portogallo, a far da guardia alle retrovie, davanti alla difesa, calpestando i piedi altrui e tagliando miti diagonali in ripiegamento, ogni tanto, giusto per dimostrare che oltre all’educazione e al rispetto per il mister, c’è anche un sufficiente bagaglio tecnico e tattico da esibire. Il suo portamento, abbacchiato più che misterioso è un omaggio alla lunga e taciturna scia portoghese che oppone la tradizione dei Paulo Sousa, soli, pensosi, pallidi e assorti, a quella dei Rui Costa, tutti classe, carisma e brillantezza.

Custódio è stato convocato in nazionale senza lasciare memoria o rimpianti. Invecchiava serenamente dopo aver fallito senza alcun appello la grande prova del portoghese all’estero, alla Dinamo Mosca per la precisione, rimediando un mesto ritorno a casa nella sua Guimarães. Rare apparizioni, delicati accantonamenti, ed ecco che il suo agente gli offre la possibilità di spostarsi, di pochi chilometri, a Braga, nello Sporting, squadra ambiziosa in cui lui, Custódio, potrebbe essere l’uomo di esperienza, sfiancato dalla propria routine com’è, controllato nei movimenti e pettinato con rigore.

Prende le chiavi del centrocampo e tiene le porte aperte, al massimo una mandata sola, con le chiavi bene in vista che spuntano sotto il tappetino. Non è roba per lui guidare un reparto, né tanto meno emergere. Però il progetto Braga funziona: finirà addirittura quarto dietro le solite blasonate miss muretto della Superliga.

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Sull’onda anomala di questo piacevole ritmo, il 27 febbraio del 2012, nel posticipo del lunedì, la vita di Custódio cambia per sempre. Si gioca in casa, ma l’avversario è il Vitoria Guimarães, la squadra della sua città, piuttosto in palla ora che il reparto è retto da un Carneade brasiliano di nome Leonel Olímpio. Calcio d’angolo battuto dal solito Hugo Viana, il portiere avversario Nilson accenna ad un’uscita nervosa, isterica. Custódio è nell’area piccola del rigore, deve indietreggiare di qualche passo verso la traiettoria. Alle sue spalle, i passi pesanti di Nilson che avanzano incerti eppure selvaggi. Custódio spicca un piccolo volo, come quello delle anatre. Il difensore che lo marca salta con lui, ma distante, Nilson arriva con entrambi i pugni rivolti verso la testa di Custódio. Ma lo stacco, imperioso, è ormai già perfettamente sincronizzato con la discesa del pallone: la girata di testa è perfetta, angolata: 2-0 per il Braga, gol di Custódio. Non è questo che cambia la sua vita, ma i secondi che seguono alla fredda cronaca del tabellino: una corsa rabbiosa, piena di vita, urlata senza prendere fiato, verso la tifoseria del Braga. Il metodico, misurato, rassegnato Custódio si inginocchia di fronte alla tifoseria che l’ha appena iniziato a conoscere e urla fissandola negli occhi, come un ragazzino alla finale di Champions (la musichetta, quella musichetta).

Dimentica di essere un ex. Dimentica che i tifosi vimaraensi non lo dimenticheranno, anzi, per un istante inizieranno a ricordarlo. La casa di Guimaraes di Custódio viene marchiata da writer misteriosi che denunciano in modo inequivocabile la colpa di cui si è macchiato, che non è tanto quella descritta nella parola “TRAIDOR” impressa sul muro, ma quella di esistere, di provare dei sentimenti, di essere un Carneade e di non poter sfuggire a questa definizione, ma di aver diritto a un po’ di amore e di odio, anche lui.

Custódio il mite, diventa così Custódio il traditore, viene attaccato il suo profilo facebook, su youtube comincia a diffondersi qualche video che eterna così la sua notte da Lando Calrissian.

Negli anni a seguire, il traditore proverà a rimettere la testa nella sabbia, giocando senza esagerare, coprendo gli spazi, facendo ripartire la manovra, sempre nel Braga, sempre al suo posto, diventando un po’ più cattivo, più nervoso: un’ammonizione ogni tre partite. Inseguire gli avversari per un mediano di 31 anni può diventare difficile anche in Portogallo. Poteva diventare un buon rinforzo per il tellurico Parma in cerca di normalità, ma ecco che una settimana fa o poco più,  il destino, che spesso prende le forme più strane, si è incarnato nel viso rotondo e gaudente dell’ex terzino brasiliano Roberto Carlos, oggi allenatore, e se lo è portato via nell’Akhirsarspor, nella Turchia occidentale. Undicesima posizione, già titolare alla prima. Niente assist, niente ammonizioni, niente di nuovo. Una nuova avventura, ma nessuno se ne è accorto.

La scritta sul muro della sua casa di Guimarães è il peggiore incubo di un Carneade. Nada mais importa.

Aldo Baéz: la brava persona

L’ultima passerella, tra i centrocampisti, è per Aldo Baéz.

Un mediano argentino di ventisette anni che ha davvero rischiato di vedere addormentata per sempre la sua carriera in Repubblica Ceca. Il suo cartellino non vale più di 350 mila euro. Ha un solo grande talento: è buono.

Sul suo contratto di lavoro c’è scritto che è pagato per inseguire gli avversari più nobili e per fornire una sorta di regia dinamica alla propria difesa. In realtà il rapporto tra Baez e il pallone è molto chiaro e reciproco: se ne libera spesso e volentieri, alla giusta velocità, né troppo presto né troppo tardi. Sa cambiare gioco e appoggiarsi al compagno più vicino, però è comunque appassionato quando la perde e vuole a tutti i costi riconquistarla, disposto com’è anche a ricorrere al fallo pur di non combinare disastri. Baéz è una persona responsabile, insomma, con il carattere onesto e trasparente. Gli si chiede qualsiasi cosa e lui la concede, a seconda delle proprie possibilità. Passato a vent’anni direttamente dal barrio bonaerense di Caballito ai cinquantamila abitanti scarsi di Trenčín, un piccola cittadina della Slovacchia sovrastata da un infernale castello medievale, Aldo non ha mai chiesto riflettori per sé. Non aveva rivalità né nemici. A lui bastava correre e non farsi mancare uno stipendio. Faceva il suo lavoro tranquillamente, collezionando cartellini gialli e rossi di cui è ghiotto, ma solo per lavoro, e guadagnando negli anni sempre più spazi in una squadra che faceva fatica a dargli retta.

Così buono, così generoso. Poi l’anno scorso ha avuto un exploit: è arrivato il primo gol contro il Dukla Banská Bystrica. Palleggio confuso di un funambolo nigeriano non ancora diciottenne, Moses Simon, riassetto tutto europeo di un pallido mediano con pallonetto diretto in area di rigore. Baéz, fuori posizione, riceve spalle alla porta, sfrutta il suo baricentro basso con stop di coscia e giravolta, mette a terra il pallone e, forse per la prima volta da quando è in Europa, tira in porta. Palla bassa, liftata. Baéz il buono sommerso dall’affetto dei compagni. Si forma un capannone di uomini su di lui. Da sotto quel capannone, verrà fuori un Carneade diverso, che quest’anno l’infatuato Slavia Praga ha voluto nella propria rosa, riscoprendo un ragazzo d’oro sempre bramoso di cartellini.

Ora c’è la pausa invernale in Repubblica Ceca. Non sta andando benissimo, ma neppure malissimo.

L’allenatore conosce bene l’ambiente, appena ha visto in faccia Aldo Baéz ha pensato “è un buono”. Poi ha visto i falli, i passaggi, i tagli, i lanci, i recuperi ed ha masticato amaro: “Eccone un altro”, pare abbia sussurrato.

Un altro Carneade, intendeva.

Per le vacanze invernali Aldo non è tornato in Argentina. Troppo grande Buenos Aires.

E poi la gente gli vuol bene, lì dov’è.

 

Il catalogo si conclude mercoledì prossimo con gli attaccanti senza mercato.