A Christmas Carol: Massimiliano Allegri

A Christmas Carol: Massimiliano Allegri
28 Dicembre 2015 diego cavallotti

Parte prima: lo Spettro di Galeone

Galeone, prima di tutto, era morto. Nessun dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico, dell’appaltatore delle pompe funebri e della persona che aveva guidato il carro funebre. Allegri vi aveva apposto la sua: e il nome di Allegri, su qualunque fogliaccio fosse scritto, valeva tant’oro. Il vecchio Galeone era proprio morto per quanto è morto, come diciamo noi, un chiodo di porta. Sapeva Allegri di questa morte? Beninteso. Come avrebbe fatto a non saperlo? Allegri e il morto erano stati soci per non so quanti anni. Allegri era il suo unico esecutore testamentario, unico amministratore, unico procuratore, unico legatario universale, unico amico. Anzi Allegri, che in realtà il triste evento non aveva fatto terribilmente spasimare, si mostrò sottile professionista, e il giorno stesso dei funerali, nell’orazione funebre, celebrò la vita di Galeone come se fosse straziato dalla sua morte.

D’altra parte ci voleva ben altro per sconvolgere Allegri. Aspro e tagliente come una pietra focaia, dalla quale nessun acciaio al mondo aveva mai fatto schizzare una generosa scintilla; chiuso, sigillato, solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva di dentro gli gelava il viso decrepito, gli cincischiava il naso puntuto, gli accrespava le guance, gli stecchiva il portamento, gli faceva rossi gli occhi e turchine le labbra sottili, si mostrava fuori in una voce acre che pareva di raspa. Sul capo, nelle sopracciglia, sul mento asciutto gli biancheggiava la brina. La sua bassa temperatura se la portava sempre addosso; gelava il suo studio nei giorni canicolari; non lo scaldava di un grado a Natale.

Nessuno lo fermava mai per via per chiedergli: “Come si va, caro il mio Allegri? A quando una vostra visita?” Né un poverello gli chiedeva la più piccola carità, né un bambino gli domandava che ore fossero, né uomo o donna, una volta sola in tutta la vita loro, si erano rivolti a lui per informarsi della tale o tal’altra strada. Perfino i cani dei ciechi davano a vedere di conoscerlo; scorgendolo di lontano subito si tiravano dietro il padrone in una corte o in un chiassuolo. Poi scodinzolavano un poco, come per dire: “Povero padrone mio, val meglio non aver occhi che avere un mal occhio!” Ma che gliene premeva ad Allegri! Meglio anzi, ci provava gusto. Sgusciare lungo i sentieri affollati della vita, ammonendo la buona gente di tirarsi in là, era per Allegri come per un goloso sgranocchiar pasticcini.

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Intanto la nebbia e le tenebre si facevano così fitte che degli uomini armati di torce correvano per le vie, profferendosi a far da guide alle carrozze. A Vinovo l’edificio principale dello Juventus Center divenne invisibile. Il freddo infierì. Alla cantonata alcuni operai, intenti a restaurare i tubi del gas, avevano acceso un gran fuoco in un braciere, e intorno a questo una mano di uomini e di ragazzi in attesa dell’ultimo autografo dell’anno s’era raccolta: si scaldavano le mani e battevano le palpebre alla fiamma, beati. La fontanina, abbandonata a sé stessa, s’incoronava malinconicamente di ghiacci. Arrivò finalmente l’ora di chiudere lo spogliatoio. A malincuore Allegri uscì dal suo ufficio, dando così un tacito segno a Morata, il quale subito serrò a chiave l’armadietto.

“Mi figuro” disse Allegri “che la giornata di domani la vorrete tutta, eh?”

“Se vi piace, signore”

“Non mi piace punto e non è giusto. Se vi togliessi per questo mezzo stipendio, scommetto che vi riterreste trattato male, non è così?”

Morata sbozzò un debole sorriso.

“Eppure” proseguì Allegri “a voi non vi pare che io sia trattato male, quando sborso il salario di una giornata per niente.”

Morata notò che si trattava di una volta all’anno.

“Bella scusa per cacciar le mani nelle tasche d’un galantuomo ogni 25 di dicembre!” esclamò Allegri abbottonandosi il pastrano fin sotto il mento “Vada per tutta la giornata, poiché così ha da essere. E badate almeno a trovarvi qui più presto del solito doman l’altro!”

Morata promise, e Allegri se ne uscì grugnendo. Detto fatto, lo spogliatoio fu chiuso, e il giocatore se ne andò a fare una sdrucciolata sul ghiaccio dietro una brigata di monelli, in onore della vigilia di Natale, e poi diritto a casa a Torino per giuocare a mosca cieca.

Allegri fece il suo malinconico desinare nell’usata malinconica osteria. Diede una scorsa a tutti i giornali e si sprofondò nel suo squarcetto, ammazzò la serata e si avviò a casa per mettersi a letto. Abitava in un vecchio e bieco caseggiato che si nascondeva in fondo ad un chiassuolo. Non ci abitava che Allegri: tutte le altre stanze erano date via in affitto per studi di commercio. Era così buio il chiassuolo che lo stesso Allegri, pur conoscendolo pietra per pietra, vi brancolava. La nebbia incombeva così spessa davanti alla porta scura della casa, da far credere che il Genio dell’inverno stesse lì a sedere sulla soglia, assorto in una lugubre meditazione.

Inaspettatamente, non appena Allegri entrò in casa, vide il viso di Galeone, morto sette anni prima. Raggiava un certo bagliore livido come un gambero andato a male in un oscuro ripostiglio. Non era crucciato o feroce; fissava Allegri come Galeone soleva fare, e lo fissava con occhiali da spettro alzati sopra una fronte da spettro. I capelli si sollevavano stranamente quasi mossi da un soffio o da un’aria calda; gli occhi, benché sbarrati, erano immobili; la faccia livida. Una cosa orrenda: se non che l’orrore era estraneo all’espressione di quel viso e in certo modo gli era imposto.

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“Chi siete voi?”, chiese Allegri.

“Domandami chi fui”, rispose Galeone

“Bene, chi foste?” disse Allegri alzando la voce. “Siete un tantino pedante, mi pare, per essere un’ombra”.

“In vita, fui il tuo maestro, Giovanni Galeone”.

“Potreste… sedere?” domandò Allegri guardandolo dubbioso.

Allegri domandò la cosa, per vedere se uno spettro così diafano fosse in grado di pigliare una seggiola: lo spettro trascinò  le catene che aveva attorno al collo e gli sedette in faccia, dall’altra parte del caminetto, come se non avesse mai fatto altro.

“Tu non credi in me”, disse poi.

“No” rispose Allegri.

“Che altra prova vorresti oltre quella dei sensi?”

“Non lo so”

“Perché dubiti dei tuoi sensi?”

“Perché un nonnulla basta a turbarli. Un lieve disturbo di stomaco ci muta il bianco in nero. Voi potreste essere un pezzetto di carne mal digerito, uno schizzo di senape, una briciola di formaggio, un frammento di patata mal cotta. Chiunque siate, c’è in voi più della marmitta che della marmotta!”

A questo lo Spettro fece tintinnare le catene che l’avvolgevano e diede uno strido orrendo, così tetro che Allegri si tenne forte alla seggiola per non cadere svenuto. Ma come crebbe il suo terrore, quando, togliendosi lo Spettro la benda che gli fasciava il capo, quasi sentisse troppo caldo, la mascella inferiore gli ricascò sul petto!

Allegri cadde ginocchioni e si strinse la faccia nelle mani.

“Grazia!” esclamò “Terribile apparizione, perché mi fate paura?”

“Uomo dall’anima mondana!” rispose lo Spettro “credi adesso o non credi?”

“Credo” balbettò Allegri “debbo credere. Ma perché mai gli spiriti vanno attorno e perché vengono da me?”

“Deve ogni uomo” rispose Galeone “con l’anima che ha dentro girare in mezzo ai suoi simili, viaggiare il più che può, cambiare più panchine che può, in Italia e in Europa; se non lo fa in vita, è condannato a farlo in morte. È dannato a errare per il mondo, oh me infelice! A vedere il bene senza poterlo godere, quel bene che avrebbe potuto dividere con gli altri sulla terra e che avrebbe fatto la sua felicità!”

Qui lo Spettro mise un altro strido e si torse le mani diafane.

“Giovanni” disse Allegri supplichevole “Mio vecchio Giovanni Galeone, ditemi qualche altra cosa. Datemi un po’ di consolazione, Giovanni mio!”

“Nessuna consolazione da me” rispose lo Spettro “Altre regioni le mandano, altri ministri le portano, altri uomini le ricevono. Né ti posso dire tutto quel che vorrei: poche altre parole, e basta. A me non è concesso un momento di riposo o d’indugio. Il mio spirito non varcò mai la soglia della nostra panchina; da vivo, il mio spirito non uscì mai dai limiti angusti del nostro stambugio. Lunghi e faticosi viaggi mi aspettano oramai! Son qui stasera solo per avvertirti che ancora una via t’avanza e una speranza di sfuggire al mio fato. E sono io, Massimilano, io che ti offro cotesta speranza e cotesta via. Avrai la visita di tre Spiriti. Aspettati il primo per domani, quando la campana avrà battuto un’ora. Aspetterai il secondo la notte appresso alla stessa ora. Il terzo, la terza notte, all’ultima vibrazione della dodicesima ora. Me, non mi vedrai più; ma ricordati, per amor tuo, ricordati di quanto è accaduto tra noi!”

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Ciò detto, lo spettro tolse il fazzoletto dalla tavola, se lo avvolse come prima e si dileguò nell’oscurità della notte.

Allegri, nell’agonia della curiosità, corse alla finestra e guardò di fuori. L’aria era piena di fantasmi, che erravano di qua e di là senza posa, traendo guai. Molti, da vivi, erano state sue conoscenze personali. Il supplizio di tutti loro era questo, senz’altro, di voler entrare nelle faccende umane per fare un po’ di bene e di averne per sempre perduto il potere. Se coteste creature si fossero risolute in nebbia o se la nebbia le avesse avvolte, Allegri non lo poteva dire. In un sol punto, scomparvero gli spettri e tacquero le voci. Tornò la notte profonda.

Allegri chiuse la finestra ed esaminò la porta di dove lo Spettro era entrato. Era chiusa a doppia mandata, com’egli stesso con le proprie mani aveva fatto. I chiavistelli erano al posto. Gli corse alla bocca: “Sciocchezze!” ma alla prima sillaba si fermò in tronco. Si sentiva stanco, sia dalle fatiche del giorno o dall’ora tarda, sia piuttosto dalla commozione sofferta, dal balenio del mondo invisibile, dalle tristi parole dello Spettro. Tutto vestito com’era se ne andò a letto e si addormentò all’istante.

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Parte seconda: il primo dei tre Spiriti

Quando Allegri si destò, era così fitto il buio che guardando dal letto egli distingueva appena la finestra trasparente dalle pareti opache della camera. Ficcava nelle tenebre i suoi occhi da furetto, quando all’orologio di una chiesa vicina suonarono i quattro quarti. Allegri stette in ascolto per sentir l’ora.

Con suo grande stupore, la grave campana passò dai sei colpi ai sette agli otto, e così fino a dodici. Allora tacque. Mezzanotte! Erano le due passate quando s’era messo a letto. L’orologio andava male. Qualche ghiacciolo si era insinuato nelle ruote. Mezzanotte!

“Eh via, non può essere” disse Allegri “ch’io abbia dormito tutta una giornata e una seconda notte”. L’idea era allarmante, sicché egli, tiratosi fuori del letto, andò brancolando verso la finestra. Fregò con la manica della veste da camera sui vetri per veder qualche cosa; ma un gran che non arrivò a vedere. Vide che la nebbia era fitta e sentì un freddo indiavolato; nessun rumore per la via, nessuno strepito di gente che corresse su e giù, come senz’altro doveva essere se mai la notte avesse ammazzato il giorno e preso possesso del mondo.

Allegri se ne tornò a letto, e messosi a pensare, a ruminare, a mulinare, a stillarsi il cervello sulla stranezza del caso, non ne cavò niente di niente. Più ci pensava, più s’imbrogliava; e più si sforzava di non pensare, più forte ci pensava. Lo spettro di Galeone lo turbava assai. Quante volte, dopo maturo esame, risolveva in mente sua che tutto era stato un sogno; subito, come una molla che scattasse, il pensiero tornava indietro e gli ripresentava lo stesso problema da sciogliere: “Era stato o non era stato un sogno?”

Stette così fino a che l’orologio ebbe battuto altri tre quarti, e gli sovvenne allora, di colpo, che lo Spettro gli aveva annunziato una certa visita allo scocco dell’una. Risolse di star desto fino a che l’ora fosse passata; e, considerando che oramai gli era così facile addormentarsi come volare sulla luna, era quello il più saggio partito cui si potesse appigliare.

Quest’ultimo quarto gli sembrò così lungo, che più di una volta sospettò di essersi appisolato e di non aver sentito suonar l’ora. Alla fine uno squillo gli percosse l’orecchio.

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Si trovò davanti a una strana figura, un che tra il bambino ed il vecchio. Per un’arcana lontananza pareva ridotto alle proporzioni infantili. Aveva corvini i capelli, fluenti sulle tempie e giù fin quasi al collo; ma non una ruga sul viso anzi il rigoglio più fresco. Lunghe le braccia e smagrite; e così pure le mani, come se completamente prive di qualsiasi forza. Di forme delicatissime le gambe e i piedi, nudi a pari delle braccia. Portava una tunica candidissima stretta alla vita da una cintura lucente. In mano teneva un cappello a forma di cono, mentre in tasca aveva un pacco di biscotti da cui continuava ad attingere gallette dolci. Ma la cosa più strana era che dai capelli spiravano fiamme color oro che illuminavano il suo volto in maniera inquietante, e il volto era quello di Filippo Inzaghi. 

“Siete voi lo Spirito” domandò Allegri “la cui visita mi era stata predetta?”

“Sono io!”, soave era la voce dal tenue accento piacentino, ma così piana che pareva venir da lontano.

“Chi siete e che cosa siete?” domandò Allegri.

“Sono lo Spirito del Natale passato”.

“Passato da molto tempo?” chiese Allegri, badando alla piccolezza del suo interlocutore.

“No, non sono passati molti anni, Massimiliano” continuò “ti ricordi dov’eri alla fine del 2012?”

Allegri, come se si stesse già giustificando per colpe di cui non si rendeva conto, dichiarò umilmente di non avere alcuna intenzione di offenderlo: ricordava di aver passato la stagione al Milan, ma non ricordava di aver mai fatto niente per cui qualcuno potesse essersi adirato. Tentò di indagare blandamente, chiedendogli per quale motivo fosse venuto.

“La tua salute!” rispose lo Spirito. “Alzati e seguimi!”

Passarono insieme attraverso il muro, ed ecco che si trovarono su un campo sportivo ben curato. Il buio e la nebbia si erano dileguati, ed era un limpido pomeriggio d’inverno.

“Dio di misericordia!” esclamò Allegri, stringendo le mani e volgendosi intorno. “Ma questa è Milanello!”

Lo Spirito lo guardò con dolcezza. Quella sua stretta gentile, benché lieve e istantanea, era sempre sentita dall’allenatore. Il quale anche aspirava migliaia di profumi vaganti per l’aria, connessi ciascuno con migliaia di pensieri, e speranze, e gioie, e dolori da gran tempo caduti in oblio.

“Ti ricordi la strada?” domandò lo Spirito.

“Se me ne ricordo!” esclamò Allegri “Ci andrei ad occhi chiusi”.

“Strano però che per tanti anni te ne sia scordato!” osservò lo Spirito “Andiamo”.

E andarono per quella via. C’era nell’aria un sentore terrigno, una nudità freddolosa in tutto, che in certo qual modo si associava all’idea di un impero in decadenza. Ben presto riconobbe Galliani, Braida e Tassotti. Si affacciò alla finestra del centro Vismara, uno degli edifici dedicati al settore giovanile. Vide se stesso incrociare il Filippo Inzaghi vivente e salutarlo senza essere ricambiato. Vide l’Allegri di tre anni prima voltarsi e affrontare l’Inzaghi, che lo fissò negli occhi e gli disse: “Non ti saluto perché per me tu non esisti”.

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Vide se stesso, incurante della presenza dei giovani giocatori, insultare l’Inzaghi, dandogli apertamente del beota. Davanti a questa scena, per un istante, provò un piacere sottile. Poi sentì una voce terribile gridare nel cortile: “Portate giù il baule di Allegri!” e poco dopo rivide l’Inzaghi vivente ritornare con un baule. Dal cassone uscì un pupazzo vagamente somigliante a Silvio Berlusconi, il quale gli rimproverò di avere lasciato sull’altare, nel 1992, Erika, il suo primo amore. Prima di cominciare a sanguinare dalle orecchie e dalla bocca, gli rimproverò anche di avere lasciato la sua ultima compagna durante la gravidanza. Allegri si avvicinò al pupazzo agonizzante e si accorse che quello che gli usciva dagli orifizi era sangue mestruale. Gli prese un attacco di panico.

“Toglimi di qua!” pregò “Non resisto più!”. Si volse verso il fantasma di Inzaghi, e vedendo che questi lo guardava con un certo strano viso nel quale si confondevano tutti i visi apparsi fino a quel momento, gli si scagliò addosso.

“Lasciami! Riportami a casa. Non m’importunare di più!”

Nella lotta, se tale si poteva dire quella in cui lo Spirito, senza visibile resistenza, rimaneva incrollabile e sereno a tutti gli sforzi dell’avversario, Allegri notò di essere circondato da sosia di Inzaghi che mangiavano biscotti. Cominciò a sentirsi fiaccato. Una sonnolenza irresistibile lo vinse; sentì anche di trovarsi in camera propria. Allentò le mani serrate a pugno ed ebbe appena il tempo di raggomitolarsi nel letto prima di cadere in un sonno profondo.

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Parte terza: il secondo dei tre Spiriti

Destato nel pieno di un russo prodigiosamente fragoroso e sorgendo a sedere nel mezzo del letto per raccogliere i suoi pensieri, Allegri non ebbe bisogno di sentirsi dire che il tocco stava per suonare da capo. Sentiva di esser tornato in sé al momento preciso in cui avrebbe incontrato il secondo messo mandatogli per mezzo di Giovanni Galeone. Se non che, per un molesto ribrezzo che lo pigliò pensando a quale delle cortine il novello Spirito si sarebbe affacciato, le aprì tutte con le proprie mani; poi, rimettendosi a giacere, stette tutto vigile a guardare intorno.

Ora, l’essere preparato a tutto non voleva mica dire che egli fosse preparato a niente; e per conseguenza, quando il tocco squillò e nessun’ombra apparve, fu preso da un violento tremore. Cinque minuti passarono, dieci, quindici, e niente veniva. Egli intanto, sempre giacente sul letto, si vedeva fatto centro di una gran luce rossastra, piovutagli sopra nel punto stesso in cui l’ora era battuta; la quale luce, non essendo altro che luce, era più spaventevole di una dozzina di spiriti, non potendo egli indovinare che cosa volesse dire. A momenti, lo pigliava il timore di essere egli stesso un caso interessante di combustione spontanea, senza aver neppure la consolazione di saperlo. Alla fine, però, incominciò a pensare che l’arcana sorgente di cotesta luce spiritica potesse essere nella camera contigua; dalla quale, infatti, seguendone i raggi, la si vedeva scaturire. Preso da quest’idea, si alzò pianamente e se ne andò strascicando in pantofole verso la porta.

Nel momento stesso in cui metteva la mano sul saliscendi, una strana voce lo chiamò per nome e gl’impose di venire avanti.

“Entra!” gridò lo Spirito. “Entra e impara a conoscermi, uomo! Io sono lo spirito di questo Natale. Guardami!”

Allegri, reverente, obbedì. Lo Spirito portava una semplice veste violacea, o tunica che fosse, orlata di pelo bianco, sulla quale poggiava la parte inferiore di una folta e lunga capigliatura. Il collo era agghindato da una ghirlanda di fiori. Lunghe e fluenti le basette, lucido l’occhio, aperta la mano, gioconda la voce, franchi gli atti, ridente l’aspetto. 

“Un altro come me” esclamò lo Spirito “tu non l’hai visto mai! Per anni sono stato il fantasista della Juventus, ho vinto un Campionato del mondo. Mi riconosci?”

“No” rispose Allegri, come se fosse annebbiato.

Lo Spirito, spazientito, si alzò. “Tocca la mia veste!”

Allegri non se lo fece dire due volte e vi si tenne saldo.

Tutto quello che era presente nella stanza sparì all’istante. E così pure la camera, e il fuoco, e la vampa rosseggiante, e l’ora della notte. Ed eccoli tutti e due, Allegri e lo Spirito, la mattina di Natale, per le vie della città, dove la gente faceva una certa musica barbaresca, ma non affatto spiacente, raschiando la neve davanti alle case o di sopra ai tetti, donde, fra le gioconde acclamazioni dei ragazzi, piovevano le bianche falde e turbinavano nell’aria burrasche artificiali.

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Ma di lì a poco le campane chiamarono la buona gente in chiesa o alla cappella, ed eccoli sbucare in frotta dalle vie con gli abiti della festa e i visi più allegri. E, nel punto stesso, ecco scaturire da vicoletti, androni, chiassuoli, una moltitudine di gente che portava il suo desinare al fornaio. La vista di cotesti poveri festaioli pareva star molto a cuore allo Spirito, il quale si fermò sulla soglia di un forno, e raccolta una palla di gomma con cui un gruppo di bambini stava giocando, cominciò a palleggiare.

In quel preciso istante Allegri si ricordò di aver visto quel volto più di una volta, sui campi di calcio d’Italia e d’Europa, ma soprattutto sugli schermi dei televisori. Lo Spirito del Natale Presente era Alessandro Del Piero.

Del Piero offrì il proprio autografo a tutti gli astanti, e fu la sua stessa natura generosa e cordiale a fargli venire l’idea di portare Allegri da uno dei giocatori che, negli ultimi mesi, aveva più vessato: Álvaro Morata. Si recarono quindi a casa sua e, giunti sulla soglia, lo Spirito sorrise e si fermò per benedire la dimora. Aprì la porta Maria Pombo, la fidanzata di Álvaro, che indossava una povera veste due volte rivoltata, ma tutta galante di nastri, i quali costano poco e fanno una figura vistosa.

Invitò Del Piero e Allegri in casa. Mise la tovaglia e, tutti insieme, aspettarono il ritorno di Álvaro, mentre nella casseruola sul fuoco stava cuocendo il piatto preferito del giocatore, oca al forno con patate e cipolle fritte.

Quando Álvaro arrivò, si stupì enormemente della presenza di Del Piero e Allegri. Intimorito, si avvicinò a loro, dicendo che la sua era una casa umile e che, però, essi potevano considerare come loro qualunque cosa ci fosse. Infine, Álvaro baciò con passione la sua compagna, dandole in seguito un piccolo aiuto nella cottura dell’oca e dei contorni.

“Un piatto simile non s’era mai dato”, disse Álvaro. La sua tenerezza, il profumo, la grassezza, il buon mercato furono oggetto dell’ammirazione universale. Col rinforzo del contorno, il pranzo era sufficiente: anzi, come diceva tutta contenta Maria Pombo, guardando ad un ossicino nel piatto, non s’era potuto mangiar tutto! Eppure ciascuno s’era satollato, e Del Piero e Allegri erano immollati di salvia e cipolle fino agli occhi! Ma ora, mutati i piatti, Maria Pombo uscì sola – tanto era nervosa da non voler testimoni – per prendere il budino e portarlo in tavola.

Olà! Questo sì ch’è fumo! Il budino è fuori della casseruola. Che odor di bucato! È il tovagliolo che lo involge. Un certo odore che è tutt’insieme di trattoria e del pasticciere accanto e della lavandaia! Questo poi era il budino. In meno di niente, ecco entrare Maria Pombo, accesa in volto ma ridente e gloriosa, col budino in trionfo, simile a una palla di cannone chiazzata, liscia, compatta, ardendo in un quarto di quartuccio d’acquavite in fiamme, e con in cima bene infisso l’agrifoglio di Natale.

Oh, un budino stupendo! disse Álvaro, gravemente: Maria Pombo, liberatasi ormai di quel gran pensiero, confessò schiettamente di essere stata un po’ in dubbio sulla quantità della farina. Ciascuno disse la sua, ma nessuno osservò o pensò che un budino di quella fatta fosse scarso per gli invitati.

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Alla fine, terminato il desinare, si sparecchò, si spazzò il camino, si attizzò il fuoco. Assaggiato e trovato squisito il miscuglio nella brocca, furono messe in tavola mele ed arance e una palettata di castagne sul fuoco. Allora tutti loro si strinsero presso al fuoco in circolo; e accanto ad Álvaro fu messo tutto il servizio di cristalli: due bicchieri e un vasettino da crema, senza manico. I tre recipienti però raccolsero la calda bevanda né più né meno che tre coppe d’oro avrebbero fatto; e Álvaro la servì intorno con viso raggiante, mentre le castagne sul fuoco barbugliavano e scoppiettavano. Poi Álvaro disse forte:

“Un allegro Natale a tutti noi, cari miei. Dio ci benedica!”

“Spirito” disse Allegri con insolita sollecitudine “dimmi se Morata giocherà un po’ di più nel girone di ritorno”.

“Vedo un posto vuoto” rispose lo Spirito “all’angolo del povero focolare. Se l’avvenire non muterà queste ombre, Morata non giocherà mai più.”

“No, no” esclamò Allegri “Oh no, buono Spirito! Dimmi che sarà risparmiato”

“Uomo” disse lo Spirito “se d’uomo è il tuo cuore e non di adamante, lascia questo tuo triste linguaggio. D’altra parte, chi è l’allenatore? Chi pensa che tenere in tensione i più giovani sia il modo migliore per renderli buoni giocatori?”

Tremò Allegri al fiero rabbuffo e abbassò umile gli occhi. Ma subito li rialzò, udendo pronunziare il suo nome.

“Al Mister Allegri!” disse Álvaro “Propongo un brindisi al mister, protettore di questa festa!”

Stupito di quella calorosa accoglienza, Allegri si commosse come mai gli era successo. Capì di essere stato ingiusto con il ragazzo. Si strinse il capo tra le mani come se fosse sabbia e, quando lo risollevò, si ritrovò nel suo letto.

L’orologio batté le dodici.

Allegri si guardò intorno cercando lo Spirito e non lo vide più. Squillando l’ultimo colpo, gli sovvenne la predizione del vecchio Galeone, e alzando gli occhi, vide un solenne fantasma, ammantato e incappucciato, il quale avanzava, come nebbia che sfiori il terreno, verso di lui.

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Parte quarta: l’ultimo degli Spiriti

Lento, grave, silenzioso, s’accostò il fantasma. Un nero paludamento lo avvolgeva tutto, nascondendogli il capo, la faccia, ogni forma: solo una mano distesa sporgeva. Senza di ciò, sarebbe stato difficile discernere la cupa figura dalla notte, separarla dalle tenebre che la stringevano.

Allegri sentì che la misteriosa presenza gli incuteva un terrore solenne. Non sapeva altro, perché lo Spirito era muto e immobile.

“Sono io in presenza dello Spirito del Natale futuro?” chiese Allegri.

Non rispose lo Spirito, e solo accennò con la mano.

“Tu mi mostrerai le ombre delle cose non accadute, ma che accadranno nel tempo che ci aspetta” proseguì Allegri “Dico bene, Spirito?”

La parte superiore del paludamento si aggruppò un momento nelle sue pieghe, come se lo Spirito avesse inclinato il capo. Fu questa l’unica sua risposta.

“Spirito del futuro!” esclamò Allegri “io ho più paura di te che di ogni altro spirito veduto innanzi. Ma, poiché so che l’intenzione tua è di farmi del bene, e poiché spero di mutar vita, eccomi disposto a tenerti compagnia e con animo grato, anche. Non vorrai tu essermi cortese di una parola?”

Nessuna risposta. La mano accennava diritto in avanti.

“Ebbene, guidami!” disse Allegri “Guidami! La notte declina, e il tempo è per me prezioso, lo sento. Guidami, Spirito!”

Il Fantasma si mosse lento e grave com’era venuto. Allegri lo seguì come avvolto nell’ombra del paludamento e in quella si sentì portato via.

Non si può dire che entrassero in città; al contrario, pareva che si muovessero per strade di periferia, lungo viali di cipressi. Allegri e lo Spirito si ritrovarono davanti a una cancellata, sulla cui sommità una scritta recitava: “Ciò che noi siamo, voi presto sarete. Ciò che siete, noi siamo stati”. Un pallone di cuoio, proveniente non si sa da dove, sbatté contro la cancellata. Lo Spirito aprì il cancello con un gesto secco del braccio, invitando Allegri a entrare.

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“Prima di proseguire” disse lo Spirito “sappi che per molti anni la Juventus non avrà più un top player e che sarai costretto a fare da balia a Zaza”. Un che di familiare colpì Allegri nel momento in cui lo spettro pronunciò top player con un vago accento meridionale: “dob pleie”.

Entrarono nel cimitero. Le tombe erano disposte all’interno di aiuole ben curate. Allegri poteva leggere i nomi di vecchie conoscenze: Andrea Fortunato, Stefano Borgonovo e Gianluca Signorini lo osservavano dalle fotografie presenti sulle lapidi. Dopo aver superato il viale centrale, lo spettro lo condusse all’interno di un edificio. Assomigliava allo spogliatoio di Vinovo, anche se alle pareti erano presenti i nomi dei giocatori della Juventus della stagione 2014-2015. Erano accompagnati dalla data di nascita e dalla data di morte.

“Qui, ti rivelerò il nome di un morto che cammina. Un morto che tu conosci molto bene”. Lo spettro aprì una botola e scese in un seminterrato buio, illuminato solo da tenui candele. Qui, dunque, lo sciagurato di cui gli sarebbe stato svelato il nome giaceva sottoterra.

Lo Spirito stette fra le tombe di Marcello Lippi e Ciro Ferrara e abbassò il dito segnandone un’altra. Allegri vi si accostò tremando. Era sempre lo stesso Spirito, ma parve ad Allegri travedere un pensiero nuovo e terribile nella solennità della sua forma.

“Prima di accostarmi a quella lapide” disse Allegri “rispondi a una sola domanda. Son queste le immagini delle cose future o soltanto delle cose possibili?”

Lo Spirito teneva sempre il dito abbassato verso la tomba vicina.

“Le azioni umane adombrano sempre un certo fine, che può diventare inevitabile, se in quelle ci si ostina. Ma se vengono a mutare, muterà anche il fine. Dimmi che così è, dimmelo, in queste scene che mi vai mostrando!”

Lo Spirito era immobile sempre.

Allegri continuò a tremare e, seguendo il dito, lesse sulla pietra della tomba negletta il proprio nome: MASSIMILIANO ALLEGRI.

“Sono io, sono proprio io?” gridò cadendo in ginocchio.

Il dito accennò dalla tomba a lui e da lui alla tomba.

“No, Spirito! Oh no, no!”

Il dito non si muoveva.

“Spirito!” gridò egli abbracciandosi alla sua veste, “ascoltami! Io non son più lo stesso uomo di prima. Io non sarò l’uomo che sarei stato, se non t’avessi seguito. Perché mostrarmi tutto questo, se per me non c’è più speranza?”

Lo Spirito si levò il cappuccio e Allegri riconobbe immediatamente quei due occhi azzurri scintillanti e quella folta capigliatura biondo-castana che, per un attimo, sembrò oscillare in maniere innaturale, quasi fosse un blocco compatto. Era Antonio Conte.

Per la prima volta la mano parve agitarsi. “Pensavi che condiscendenza e piaggeria ti avrebbero portato alla Nazionale?” domandò lo Spirito “Mi dispiace, tu morirai alla Juventus”.

“Buono Spirito” disse Allegri, sempre prostrato “tu sei buono, tu hai pietà di me. Dimmi, assicurami ch’io posso ancora, mutando vita, cangiar queste scene che m’hai mostrate! Io onorerò sempre Natale nel cuore, io ne serberò il culto tutto l’anno. Vivrò nel passato, nel presente e nell’avvenire. Mi parleranno dentro tutti e tre gli spiriti. Non mi scorderò delle loro lezioni. Oh, dimmi, dimmi che mi sarà dato cancellare lo scritto di questa pietra!”

Allegri afferrò, nell’angoscia che lo straziava, la mano dello Spirito. Questi cercò divincolarsi dalla stretta, ma Allegri stringeva disperatamente il suo braccio. Antonio Conte, più forte di lui, lo respinse.

Allegritomba

Alzando le mani nell’estrema preghiera di veder mutato il suo fato, Allegri notò una trasformazione nella veste e nel cappuccio del Fantasma. Lo Spirito si strinse in sé, si rannicchiò, si rassodò e divenne una colonna di letto. E quella colonna di letto era la sua. Suo il letto, sua la camera. Meglio ancora, meglio d’ogni cosa, era suo il tempo che aveva davanti, suo, per emendarsi!

“Vivrò nel Passato, nel Presente e nel Futuro!” ripeté Allegri, sgusciando fuori del letto “I tre Spiriti mi parleranno dentro. O Giovanni Galeone! Benedetto sia il cielo e il giorno di Natale! Lo dico in ginocchio, mio vecchio Giovanni; in ginocchio!”

Era così acceso dalle sue buone intenzioni che la voce rotta non rispondeva al pensiero. Nel suo conflitto con lo Spirito, aveva singhiozzato violentemente e aveva tutta la faccia bagnata di pianto.

“Non so che fare adesso” esclamò ridendo e piangendo insieme, e avvolgendosi nelle calze come un Laocoonte. “Mi sento leggero come una piuma, felice come un angelo, allegro come uno scolaro. Sono balordo come un ubriaco. Un allegro Natale a tutti! Un allegro capo d’anno al mondo intero!”

Era entrato saltellando nel salotto e se ne stava lì, ritto, ansante. Capì che la prima cosa da fare era visitare Álvaro Morata. Si recò a casa sua, bussò alla porta e, quando il giocatore aprì, gli disse “Buon Natale, Álvaro!” battendogli sulla spalla con una cordialità schietta “Un Natale felice, Álvaro, ragazzo mio. Cercherò di farti avere un aumento e di farti giocare di più. Oggi stesso parleremo dei nostri affari davanti a un bel ponce fumante. Accendete i fuochi e andate subito, mio caro Álvaro, a comprare un’altra scatola di carboni”.

Allegri fu anche più largo della sua parola. Fece quanto aveva detto, e infinitamente di più. Divenne così buon amico, così buon padrone, così buon uomo, come se ne davano un tempo nella buona vecchia città, o in qualunque altra vecchia città, o paesello, o borgata nel buon mondo di una volta. Risero alcuni di quel mutamento, ma egli li lasciava ridere e non vi badava; perché sapeva bene che molte cose buone, su questo mondo, cominciano sempre col muovere il riso in certa gente. Poiché ciechi avevano da essere, meglio valeva che stringessero gli occhi in una smorfia di ilarità, anzi che essere attratti da qualche male meno attraente. Anch’egli, in fondo al cuore, rideva: e gli bastava questo, e non chiedeva altro.

Con gli spiriti non ebbe più da fare; ma se ne rifece con gli uomini. E di lui fu sempre detto che non c’era uomo al mondo che sapesse così bene festeggiare il Natale. Così lo stesso si dica di noi, di tutti noi e di ciascuno! E così, come diceva il buon Morata: “Dio ci protegga tutti e ci benedica”.