Anatomia del pennellone

Anatomia del pennellone
30 Gennaio 2015 Michele Manzolini

SIMBOLICIECHI versione per non vedenti

 

Giace inerme, livido, sul tavolo operatorio. Non era esattamente un fulmine di guerra nemmeno da vivo, ma la folta chioma dava ai tifosi l’illusione del movimento.

I piedi, innanzitutto: dicevano fossero quadrati, storti, a banana. Sembrano piedi comuni invece, se non per la misura abnorme. Uno degli studenti del corso di anatomia di Coverciano li tocca e dice: “ne ho sentito parlare, ma non ne avevo mai visto uno. Dicono giocasse davanti, prima dell’ispanizzazione. Ho letto che non sapeva giocare a calcio, ma tutte le squadre ne avevano uno.” Al tatto i piedi sono di una consistenza adamantina, ma solo esternamente. Spingendo sull’epidermide con veemenza, dalle venature della spessa corteccia filtra un sottostrato di carne viva, ancora rossastra nonostante la tumefazione. Un involucro di callo, indurito da mille calci ciccati, da zappate sui dischetti di rigore. Sembra quasi di riconoscere ancora pezzi di zolla fra ciò che resta delle sparute unghie violacee, o forse è solo cancrena. Dentro, la carne maciullata dai pestoni subiti nell’area piccola. Solo, a lottare contro le difese schierate, fra i diti in culo di Neqrouz e le tirate di peli e capelli di Montero.

La caviglia non presenta più alcuna elasticità, ma non è a causa del rigor mortis. Le cartilagini si sono consumate anni prima, franando sotto il peso del torso imperioso, lasciando solo le gigantesche ossa a sfregare le une contro le altre. La ricalcificazione approssimativa delle tibie rende ancora più grottesche quelle che sembrano le gambe di un bambino, o di un vecchio. Con calzettone e parastinco, sempre fin sotto il ginocchio, l’apparenza era quella di arti proporzionati al resto del corpo pachidermico. In verità gli stinchi sono ossuti, scarni e incredibilmente lunghi. Non sembra esserci mai stata alcuna forza nei muscoli del polpaccio. 

“È alto quasi due metri, ma di testa non ne prende una” dicevano gli stessi del piede a banana. A fine carriera non saltava nemmeno, ma si issava sulle punte, colpendo il pallone con il naso aquilino, o con la pronunciata arcata sopraccigliare. I fianchi sono larghi, le anche sporgono quasi fuori dal tavolo, ora che lo scheletro è disteso e senza vita. Un grosso blocco di adipe e fibre da cui spuntano le braccia, anch’esse sproporzionate e mollicce. Grandi mani che nutrivano le fantasie di spettatrici maliziose sugli attributi sovradimensionati. Anche il collo è lungo, malcelato dai capelli rinsecchiti. Fra questi si riconoscono ancora grumi di gel, incrostati qua e là.

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Il suo nome ha molti nomi. Qualcuno lo ricorda ancora come il centrattacco. Centravanti, boa, numero nove. E poi colosso, Marcantonio, gigante buono. A seconda delle latitudini diversi i nomignoli, molteplici gli sfottò: pennellone, giandone, calascione. Attaccante STRUTTURATO. Sfruttato, da nanetti scattanti, per tirar via i difensori, e permettergli di vincere le classifiche cannonieri. Sfruttato da tutti i compagni, per far salire la squadra. Sfruttato dall’allenatore, per giocare col lancio lungo, per difendere un pareggio, per fare a sportellate. Sponda spizzata appoggio ostruzione carica al portiere. Quante le gomitate, quanti i setti nasali deviati, quante le testate sul palo. Molti hanno dimenticato.

C’è stato un tempo in cui era un eroe. I nonni di quelli del “piede a banana” lo chiamavano John Charles, Gunnar Nordahl, ROMBO DI TUONO. Una antica e nobile dinastia di nomi altisonanti, epici, tramontata in modo lento e inesorabile. Qualche rumoroso strepitìo di Skuhravy, e poi a Tentoni nel buio, per spegnersi in interminabili Silenzi.
Penev.

Nemmeno i raggi gamma di Masinga, o i vari modelli di cyborg Bobic-Jancker-Koller l’hanno salvato dall’oblio. Sì, perchè mentre Teddy Sheringham arretrava sulla trequarti in cerca di rifugio, e i più furbi, come Zidane e Ibrahimovic trasformavano il ciabattone in un sandalo di pelle comodo, moderno e avvolgente, il nanetto, suo ex compagno, affilava gli artigli. Le poderose spalle sulle quali si era arrampicato tante volte in passato, parevano adesso un grosso bersaglio nel quale affondare i suoi aculei. Con l’aiuto di un mediocre centrocampista del Barcellona, che mai aveva tirato in porta in carriera, tramava nell’ombra. Il letale e soporifero veleno del tiki taka si spandeva dal delta del fiume Ebro fino al Reno, dove un tempo il Panzer regnava supremo, nelle cui acque amava abbeverarsi dopo le sue battaglie. Lo spazio, che un tempo il centrattacco creava, era ormai una gabbia, nella quale sarebbe stato rinchiuso, lasciato solo, fra i fischi e gli sputi di folletti spiritati e lussuriosi.

“È la solita simulazione”, dissero i detrattori del nove. Ma il nove cadde, e non si rialzò più. L’arbitro scrisse le sue ultime parole sul taccuino, pronunciate con la faccia sprofondata sulla linea di porta:

“Avversario dei tempi ultimi, uomo della iniquità, figlio della perdizione, falso nueve.”