Alopecia Football Club

Alopecia Football Club
18 Aprile 2016 Daniele Tiraferri

Anni fa, quando ancora le televisioni non avevano militarmente occupato il campo di calcio e Cesare Ragazzi non aveva ancora perfezionato il suo metodo di autotrapianto di capelli, i calciatori erano necessariamente meno attenti alle acconciature. I più fortunati, quelli baciati dalla dea Sif, potevano sfoggiare criniere degne dei surfisti californiani anni ‘70. Erano i Carlos Valderrama, gli Alain Sutter, i Gerd Muller, i George Best o i Felice Centofanti. Potevano essere campioni o non esserlo, ma erano capelloni e tanto bastava per essere i più amati dalle donne, dall’opinione pubblica e dai doloranti collezionisti di figurine Panini. Potevano essere belli o brutti, ma non importava perché essere capelloni era uno status symbol e questo era sufficiente per godere di tutti gli onori della cronaca.

Poi c’erano gli altri, i pelati. Giocatori meno fortunati, che avrebbero potuto anche avere il piede sinistro di Maradona e il destro di Cruyff ma non sarebbero mai stati considerati alla stessa stregua dei più fortunati colleghi capelloni. I Fanna, i Ballotta o persino i sir Bobby Charlton, erano pelati che non facevano breccia nella maggioranza dei cuori dei tifosi, forse perché nessuno al mondo avrebbe preferito essere pelato o semplicemente perché, nella vita, avere una folta chioma era meglio.

Se nell’immaginario collettivo il capellone era un trequartista geniale, un centrocampista di gamba o un terzino dalla corsa simile a quella di un cavallo pazzo, il pelato è sempre stato simbolo di concretezza, stabilità e sacrificio. Un pelato poteva essere un difensore roccioso (Stam), un centrocampista di corsa (Lombardo, Conte) o di sostanza (Gravesen, Migliaccio), un attaccante che non dribbla ma torna ad aiutare i compagni (Maccarone), oppure un portiere che non para (Ballotta). Per un’antica legge, fantasia e dribbling sembravano essere direttamente proporzionali alla salute e alla forza del proprio cuoio capelluto.

Dunque pelato era il classico giocatore che non scaldava il cuore e che raramente era al centro delle prime pagine dei giornali. Il pelato si sbatteva, lottava e aiutava a vincere le partite, ma in zona mista, celebrati dalle televisioni di mezzo mondo, o nelle trasmissioni del lunedì, adulati dalle vallette di provincia a caccia di ciuffi di notorietà, ci andavano gli altri, i capelloni. Vero è anche che nella storia ci sono stati pelati e pelati. Come il gioco del calcio ha subiìo mutazioni nel corso degli anni, pure la gestione della calvizie è cambiata molto negli ultimi 50 anni.

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Sir Bobby Charlton all’inizio della sua carriera con il Manchester United (1954) aveva un sacco di capelli, e li ebbe per più di una decina d’anni ancora. Quando alzò la coppa del mondo nel 1966, l’unica vinta dall’Inghilterra, ancora li aveva, ma si poteva già notare come si fossero indeboliti rispetto a prima, a soli 29 anni. Durante il resto della sua carriera sostituì gradualmente la sua folta chioma con un riporto che ai giorni nostri basterebbe per tenere a un chilometro di distanza qualsiasi esemplare di genere femminile. Ma allora il riporto era un metodo generalmente efficace per battere la calvizie, in un’epoca in cui le macchinette e i rasoi erano ancora un’esclusiva dei militari che andavano al fronte. Inoltre una tale acconciatura donava un aspetto serio e altolocato tipico di un lord inglese.

Poi, a metà degli anni ’90, qualcosa cambiò. Il calcio stava diventando uno sport di dimensioni globali, entrato di forza in tutti e cinque in continenti, e le Pay TV iniziavano a dispiegare un contingente sempre crescente di telecamere, in campo e fuori. Per dei professionisti che venivano osservati sul posto di lavoro da migliaia e migliaia di tifosi diventò inaccettabile mostrare un’antiestetica pelata. E così, aiutati dal definitivo sdoganamento della rasatura a zero, molto utilizzata anche da chi i capelli li aveva, un numero sempre maggiore di giocatori cominciarono a vivere il dramma della perdita dei capelli con serenità, rimanendo perfettamente alla moda. Dal look chemioterapico dell’arbitro Collina ai “9mm” di Zidane, ce n’era davvero per tutti i gusti e la felicità era tutta lì, in un rasoio tagliacapelli regolabile.

Con l’accettazione del problema dell’alopecia e i conseguenti rimedi alla moda, iniziarono a verificarsi due eventi che gli studiosi di statistica non sono ancora riusciti a mettere in correlazione tra loro. In primis, “rasato è bello”, sempre più donne iniziarono ad amare le teste rasate. Vuoi perché attratte dall’importante aura di testosterone che avvolge il pelato o vuoi perché chi non ha i capelli suscita un primitivo senso di solidità e sicurezza, fatto sta che il genere femminile sembrava apprezzare la mancanza di crine. In secondo luogo, l’alopecia nel mondo del calcio non era più sinonimo di concretezza senza qualità e fisico senza estro. Iniziavano a proliferare casi di giocatori molto forti e molto calvi, campioni che non si volevano più rassegnare alla squallida conta dei capelli sul cuscino appena svegli.

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Gianluca Vialli, quando iniziò a giocare con la Juventus, aveva dei bellissimi riccioli neri che lasciarono spazio a una necessaria rasatura sul finire di carriera. Zinedine Zidane fu conosciuto dal grande pubblico già rasato e ben pochi si ricordano la sua attaccatura molto bassa e i folti capelli neri. Barthez, infine, fece della sua pelata da baciare un amuleto così potente da far vincere alla Francia un mondiale (1998) e un europeo (2000).

Sono solo alcuni esempi di giocatori che hanno fatto della calvizie un’arma in più per emergere in un mondo dove ormai l’estetica conta più del risultato. La proliferazione della rasatura ha permesso la confusione dei veri pelati con i capelloni rapati a zero, e l’immagine principale ne è Fabio Cannavaro, capitano dell’Italia, uno che i capelli ce li ha tuttora, ma che alza la coppa del mondo nel 2006 con una testa perfettamente rasata a zero.

Ma se molti sono riusciti ad accettare il lutto tricologico con stile, altri illustri pelati non hanno avuto la stessa sorte. Una minoranza non ha avuto il coraggio di attraversare il ponte della vanità lastricato di lamette e rasoi, aggrappati ancora a un novecentesco pensiero che nella vita sfonda solo chi ha i capelli. Sono i casi di Antonio Conte e Wayne Rooney, che grazie a miracolosi autotrapianti hanno trasformato una testa colpita dall’alopecia incipiente a una ben folta di capelli.

Esempio di una via del tutto personale, invece, è il caso di Luiz Nazario da Lima detto Ronaldo che diventò il giocatore più forte del pianeta da pelato e, in vecchiaia, terminò con mestizia la sua carriera con una corona di capelli ricci neri, spessi e fitti. Dell’agognata ricrescita dei capelli, Ronaldo fu persino testimonial pubblicitario. I capelli come sfida alla natura, uomo contro alopecia, la moda non c’entra più.

Quel che però è certo è che oggi, se a un quarantenne si chiedesse di ricordare un calciatore pelato, il primo pensiero andrebbe certamente ad Attilio Lombardo e ai suoi capelli ben localizzati prevalentemente sopra le orecchie. Lombardo fu soprannominato – dai tifosi del Crystal Palace – “Bald Eagle”, aquila calva, quando fu ingaggiato nel 1997; e non come sfottò, bensì come riconoscimento del suo valore. Già, perché l’aquila calva raggiunge i 160 km/h in picchiata e Attilio sembrava farli davvero, i 160, su quella fascia destra. Attilio Lombardo, aquila calva, è stato l’ultimo baluardo di un tempo che non c’è più, quello dei giocatori pelati concreti e schivi, dallo sguardo un po’ malinconico ma con quel sorriso che sembra voler dire che nella vita, in fondo, anche se sei pelato puoi farcela. Basta ricordarsi che nei giorni senza vento, dopotutto, tra i pelati e i capelloni sembra quasi non esserci differenza.