Paramatti e il Bologna di Ulivieri

Paramatti e il Bologna di Ulivieri
6 Marzo 2015 diego cavallotti

SIMBOLICIECHI  versione per non vedenti

 

Chi nasce a Salara, nella bassa polesana, sa solo una cosa: il suo destino è legato a quell’orizzonte basso che accomuna gli abitanti della pianura padana ai marinai di Melville. Tra l’odio per l’umidità e quello per l’umanità, tra il risentimento verso i fumi degli zuccherifici e quello verso i banchi di composti ionici delle saline, rimane quella tenue linea visibile soltanto nelle giornate limpide, quando il cielo rischiara e mostra a quella gente, gente bastarda, un po’ ferrarese, un po’ rodigina e un po’ mantovana, che la terra non è piatta. Come quando, finalmente giunti sul cassero di una nave, i marinai notano la curva convessa dell’orizzonte e comprendono che la Terra è una gigantesca palla pronta per essere esplorata. Perché è questo, in fondo, il destino di ogni polesano: andare via, cercare fortuna altrove anche quando questo altrove è soltanto a quaranta chilometri di distanza.

Estate 1982. Un ragazzino di quattordici anni sta tirando un pallone contro un muro. Chiamatelo Michele. I suoi capelli ricci e corvini, bagnati dal sudore, proseguono sul viso in un prepotente accenno di barba puberale. Per ritmare meglio i propri palleggi il ragazzino indossa un paio di cuffie collegate a un walkman: Parallel Lines dei Blondie, appena rimediato su nastro da LP, fornisce il giusto accompagnamento sonoro per un pomeriggio come quello, passato da solo davanti a un muro. Con Debbie Harry. Nei momenti di silenzio tra un brano e l’altro, tra un pensiero bagnato e un altro, il ragazzino ripete due parole sentite per caso da un ex-compagno delle medie che ora frequenta la prima ginnasio: “Panta rei”. Che cosa voglia dire quella frase, il ragazzino non lo sa. Ma gli piace il suono,  gli ricorda O Rei, Pelé. Il ragazzino continua a calciare il pallone e a ripetere meccanicamente Panta rei, fino a quando la cassetta arriva alla fine del lato e anche lui si ferma, smette finalmente di palleggiare e si siede su un marciapiede per rifiatare.

Estate del 1995. Paramatti ha appena chiuso la sua parentesi alla SPAL, squadra in cui ha esordito a livello professionistico. A giugno gli hanno comunicato che il contratto non verrà rinnovato. La dirigenza ha altri piani. Michele vacilla, pensa per un attimo che forse è il caso di rispolverare quel diploma in ragioneria, preso proprio perché non si sa mai, magari un giorno, quando meno te lo aspetti. Seduto su una panchina, Paramatti guarda i muri dell’edificio della SPAL e ripete, di nuovo, senza motivo, Panta rei. Come un ricordo sbucato fuori da chissà dove. Pochi giorni dopo arriva la convocazione dell’Equipe Romagna, la selezione dei calciatori disoccupati, con il gusto amaro e spaventoso dell’ultima occasione. Chiudere la carriera a ventisette anni, nel momento in cui, al contrario, un giocatore dovrebbe essere al suo apice, è troppo anche per uno che ha applicato inconsapevolmente il pensiero eracliteo alla propria esistenza. Durante gli allenamenti i dubbi continuano a ripresentarsi: ne vale veramente la pena? Come cazzo si fa una partita doppia? Perché quella volta ho fatto fughino e non ho seguito la lezione di contabilità? E il curriculum, in che formato va fatto? In mezzo a queste domande, a cui Paramatti non sa rispondere, arriva la telefonata, quella giusta. Dall’altra parte del filo c’è Gabriele Oriali, direttore sportivo del Bologna.

paramatti

Oriali mette da subito le cose in chiaro. Il posto da titolare non è garantito e sulla fascia sinistra mister Ulivieri vuole riconfermare Rosario Pergolizzi, che nel campionato di C1 vinto dal Bologna l’anno prima è stato uno dei migliori difensori del torneo. Si tratta, in sostanza, di fargli da sparring partner in serie B. Le gerarchie di quel reparto arretrato sono ben definite: in porta giocherà Antonioli, che raccoglierà il testimone di un altro protagonista della promozione dalla C1, Fabio Marchioro; terzino destro sarà Andrea Tarozzi, prodotto del vivaio rossoblu; al centro della difesa giocheranno Marco De Marchi, capitano della squadra ritornato a Bologna dopo la parentesi triennale juventino-romanista, e Stefano Torrisi, ex-mezzala trasformata in centrale difensivo dallo stesso Ulivieri alla fine degli anni ottanta, quando i due si erano incrociati a Modena; a sinistra Pergolizzi. Paramatti deve prendere o lasciare, ben sapendo che lasciare significa non giocare più a livello professionistico. Michele mette giù il telefono. Da una parte ci sono le lettere di presentazione e i curriculum da spedire alle aziende e agli studi commercialisti, dall’altra una delle poche foto scattate durante la sua lunga permanenza a Ferrara. Prende un lungo respiro, chiude gli occhi e nelle orecchie comincia già a sentire il coro “Gioca bene, gioca male, Paramatti in nazionale”.

Riapre gli occhi. È una calda giornata di inizio giugno del 1996. La Madonna di San Luca è già scesa in città da una settimana, ma la notizia non è questa. La notizia è che il Bologna, dopo circa cinque anni, è vicino a tornare in serie A. Per farlo deve vincere contro il Chievo in casa, al Dall’Ara. Michele respira di nuovo. Di fianco a lui ci sono i soliti compagni di reparto: Tarozzi si sta guardando intorno con aria spaurita; De Marchi sta pensando alla gnocca; Torrisi, che esce con una modella, riflette sui modi più adatti per combattere l’incipiente calvizie. Ulivieri indossa il cappotto portafortuna e puzza già di sudore.

Il principale merito di quell’annata di successo, ovviamente, va al sistema di gioco elaborato da Renzo Ulivieri, già artefice della promozione dalla C1 alla B. Pur non arrivando all’estremismo sacchiano, il suo calcio è pura modernità: applicazione rigorosa della zona, centrocampo a tre con Andrea Bergamo in regia, attacco con due mezzali capaci di rientrare a centrocampo (Morello e Doni) e un centravanti veloce (durante la stagione si alterneranno Cornacchini e Bresciani). Le abilità di Ulivieri, tuttavia, non si esauriscono nella perizia tattica. Ulivieri è innanzitutto un insegnante di calcio. Fu lui, ai tempi del Modena, a rendere Torrisi uno dei più forti centrali difensivi delle categorie cadette. Fu lui, nell’estate del 1994, a creare un nuovo ruolo per Andrea Bergamo, il regista di centrocampo, una figura molto più simile al playmaker delle squadre di basket che non ai centrali sacchiani. È lui, durante la stagione 1995-1996, a trasformare Paramatti, un giocatore scelto da Oriali come riserva, in una pedina insostituibile. È lui, sempre in quella stagione, a decidere che la squadra è una cooperativa e che di conseguenza i valori dei singoli sono meno importanti dei collegamenti tra i ruoli. All’interno di questo schema il fulcro è inevitabilmente la difesa, come accade per tutte le squadre di serie B. Solo chi è in grado di prendere pochi gol può ambire alla promozione.

Questo approccio, però, produce un pesante effetto collaterale. Il Bologna ha costanti problemi in attacco, sia perché Bresciani non garantisce continuità di rendimento, dimostrandosi ancora una volta un enfant prodige che non vuole crescere, sia perché Cornacchini, acquistato durante il mercato di novembre dal Perugia, accusa notevoli difficoltà di ambientamento. Rimangono solo la velocità di Dario Morello e l’estro di Cristiano Doni, velocità ed estro comunque piegati alle esigenze della squadra. A queste mancanze supplisce la capacità di far segnare tutti i giocatori: non a caso con Morello, ai piani alti della classifica dei capocannonieri del Bologna, ci sono Carlo Nervo e Cristiano Scapolo, altre due grandi invenzioni del tecnico di San Miniato.

Ulivieri definisce questa organizzazione di gioco “cooperativa del gol”, in onore della sua militanza politica nel PCI e nel PDS. Se la tattica è ispirata alle linee guida del comunismo democratico italiano, l’eroe del Bologna 1995/1996 non può che essere un eroe del proletariato calcistico. Perché la storia di Paramatti, in fondo, non è altro che il sogno di ogni difensore di diventare il beniamino della curva, e quel coro che Michele sente quando Oriali chiude la telefonata. Anche se Paramatti fatica terribilmente in quel Bologna-Chievo che vale ai rossoblu la promozione – partita decisa all’ultimo minuto da un gol di testa di Bresciani su assist di Doni –, la società non ci pensa due volte a riconfermarlo in serie A. Panta rei, la storia non si ripete, dal rifiuto della SPAL alla massima serie in neanche un anno.

Quell’estate molti si chiedono quanto sia saggio puntare su un difensore ventottenne che non ha mai giocato una partita in serie A, ma per Ulivieri è un punto d’orgoglio, soprattutto davanti al presidente, Giuseppe Gazzoni Frascara, figlio dell’alta imprenditoria bolognese, un laureato a Oxford che faceva colazione con Agnelli e Montezemolo. L’allenatore decide così di schierarlo da titolare nella partita d’esordio del Bologna, giocata contro la Lazio il 7 settembre 1996. Comincia così un altro campionato in cui Paramatti dimostra di essere un valido componente della difesa a quattro di Ulivieri e un discreto marcatore con quattro gol all’attivo. Il primo lo segna alla Reggiana, alla nona giornata del girone d’andata. Kolyvanov, uno degli innesti voluti da Oriali, porta la palla sul dischetto del calcio d’angolo. La traiettoria insidiosa, grazie anche al velo di Kennet Andersson, porta la palla sui piedi di Paramatti che, da pochi metri, insacca. Diversi anni più tardi, alcuni compagni di squadra dissero che Michele, durante i festeggiamenti, aveva urlato frasi strane, come se avesse perso conoscenza e si fosse messo a parlare in una lingua sconosciuta. Sembrava portoghese o un idioma simile, di sicuro c’entrava O Rei. Insomma, Paramatti s’era bevuto il cervello e pensava di essere diventato Pelé.

Quel gol non fu l’unica soddisfazione in serie A del terzino di Salara. L’anno successivo, sempre sotto la guida di Ulivieri, Michele ebbe l’opportunità di giocare al fianco di Roberto Baggio. Anche se quella stagione segnò la fine del rapporto tra Gazzoni e l’allenatore toscano a causa dei comportamenti del Codino che, secondo Ulivieri, chiedeva di essere trattato da primus inter pares in una squadra di eroi proletari come Paramatti, Michele contribuì alla qualificazione in Coppa Intertoto giocando sia da esterno di centrocampo sia da centrale nella difesa a tre, altra evoluzione della filosofia calcistica di Ulivieri. Poi arrivarono Mazzone, la semifinale di Coppa Uefa con l’Olympique Marsiglia, il gol nello spareggio UEFA con l’Inter, il passaggio alla Juventus (la squadra per cui tifava da bambino) e le lacrime per l’addio al Bologna.

In questo caleidoscopio di ricordi, Michele pensa spesso, ancora oggi, a una sola cosa. Pensa a quella telefonata di Oriali, a quel prendere o lasciare. Ricorda la scrivania, i curriculum, le fotografie. Il proprio respiro. Riassapora quel senso di apparente ineluttabilità e afferma, come allora, quasi per esecrare la convinzione secondo cui tutto si ripete sempre uguale, “Panta rei, cazzo!”.